Reddito di cittadinanza-di inclusione e salario minimo :un sandwuick indigeribile
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Il Reddito di cittadinanza: dopo il reddito di inclusione e prima del salario minimo
Il Ministero del lavoro ha recentemente fornito dei dati articolati in un comunicato ufficiale sul reddito di cittadinanza. ‘’ I numeri – è scritto – racchiudono sia le domande online, sia quelle pervenute agli uffici postali e quelle raccolte dai CAF. Al 7 aprile 2019, sono 806.878 le domande già caricate dall’INPS sulla piattaforma relativamente alle richieste di Reddito di cittadinanza (RdC): 433.270 sono giunte da donne (54%) e 373.608 da uomini (46%). Con riferimento all’età dei richiedenti, la percentuale maggiore si annida nella fascia d’età tra 45 e 67 anni con poco più del 61% (494.213 domande), seguiti con coloro che hanno un’età compresa tra i 25 e i 40 anni, con 182.100 domande (di poco inferiore al 23%). Il resto è distribuito tra gli ultra 67enni (105.699 domande, leggermente superiore al 13%) e poco più del 3% tra i minori di 25 anni’’. Ovviamente la raccolta delle domande e delle iscrizioni non è chiusa, avendo il RdC carattere strutturale.
Va riconosciuto, poi, che questa prima fase (grazie agli accordi con le Poste e con i Caf) è stata gestita senza quei disguidi organizzativi che si temevano con lunghe code agli sportelli e quant’altro. La distribuzione delle domande conferma gli effetti attesi per quanto riguarda le regioni del Sud e le donne, mentre il 3% degli under 25 anni è un fallimento (soprattutto se lo si aggiunge al 23% delle coorti comprese tra 25 e 40 anni).Un conto è il reddito di inclusione introdotto dal governo precedente che è una misura europea contro la povertà rivolto a una platea limitata, invece il reddito di cittadinanza, per come è stato disegnato, ha una platea molto più ampia e non è solo contro la povertà. E inevitabilmente sono coinvolte categorie molto diverse, come i disoccupati, i sottopagati, e quindi si rischia di andare a incidere su specifiche porzioni del mercato del lavoro, quelle a basso reddito, e non sulla disoccupazione. In altri paesi si agisce con altri strumenti. Anche in Italia avevamo misure differenziate. Quelli che guadagnano poco prendono gli 80 euro che sono un’integrazione al reddito; i disoccupati hanno la Naspi ovvero il sussidio di disoccupazione più l’assegno di ricollocazione, un aiuto per trovare lavoro, mentre i poveri veri – che hanno problemi di integrazione sociale – avevano il reddito di inclusione.
Il reddito di cittadinanza, invece, vuole tenere insieme tutte queste platee, ma è complicato farlo con uno strumento unitario. Nel licenziare il decreto attuativo del reddito di cittadinanza si sono apportate alcune blande modifiche, prevedendo due canali di accesso distinti: uno per i disoccupati e uno per i poveri con i problemi di inclusione sociale; questo permette in parte di salvaguardare il reddito di inclusione del governo Gentiloni, che è diretto alla platea dei poveri che meritano un’attenzione diversa da chi è disoccupato temporaneamente e da chi lavora ma ha un reddito basso. Inoltre, si è modifica toma sicuramente non risolto il rapporto con le Regioni riguardo le assunzioni dei tutor nei centri dell’impiego (i famosi Navigator) che rappresentano un segno tangibile che la retorica sullo sviluppo dei centri dell’impiego ha anche un qualche significato pratico. E infine la possibilità, per le aziende che assumono un disoccupato con il reddito di cittadinanza, di avere il beneficio del residuo del reddito di cittadinanza stesso aiutando a coinvolgere il mondo imprenditoriale nell’operazione.
Sono modifiche marginali rispetto il primo testo ma sta di fatto che ognuno di questi passaggi avrà problemi di implementazione assai rilevanti: bisognerà comunque passare prima da un centro dell’impiego quindi si disconnette l’amministrazione attuale del reddito di inclusione che stava ben funzionando; si procede alle assunzioni di navigator con contratti a termine attraverso Anpal Servizi con un maxi-bando; si danno incentivi potenzialmente molto alti a chi avrebbe comunque assunto profili professionali diversi creando incentivi distorti per una platea molto rilevante di persone e di aziende.
Il decreto sul reddito cittadinanza è scritto in maniera per cui prima INPS decide sulla base dell’Isee (già oggi un gran numero di dichiarazioni non sono veritiere e, per l’occasione, si prevede un peggioramento della situazione) il diritto al reddito e poi iniziano tutta una serie di adempimenti formali non esigibili (INPS deve rispondere entro 5 gg, il CPI ti deve convocare entro 30gg. etc.) con pene esagerate (e non credibili) in caso di false dichiarazioni da parte dei beneficiari. E soprattutto bisognerà contare molto sulle capacità dei navigator di adoperare la maxi-piattaforma ordinata dal presidente e amministratore delegato Parisi italo americano pentastellato (costo 25 milioni di euro!)- per far muovere e incrociare domanda e offerta di lavoro- ma essendo un consulente informatico dell’azienda fornitrice il super Presidente si ravvisa forse qualche problema di incompatibilità sul quale non si attardano però i pentastellati moralisti.
Questo è il tipico modo in cui si distribuiscono soldi senza condizionalità alcuna. È ben noto infatti che l’unica condizionalità che può eventualmente funzionare non è quella rispetto all’offerta di lavoro (che molti centri di impiego non faranno mai) che comunque esiste formalmente in Italia dal 2012 e non è una condizionalità funzionante neanche in paesi europei con una lunga tradizione di politiche attive ma la condizionalità rispetto alle attività: cioè il risultato finale del reddito cittadinanza sarà di pagare 780 euro al mese a persone che fanno 8 ore di lavori socialmente utili in Comune (sempre che i comuni riescano a organizzare così tanti lavoratori socialmente utili).
In conclusione, è evidente la necessità di ampliare la rete di protezione sociale ma questo si sarebbe potuto fare molto meglio e in maniera molto più efficace dividendo le platee degli interessati in tre gruppi separati: i poveri che meritano un ampliamento del REI; i disoccupati, che meritano un ampliamento del sussidio e un miglioramento dei servizi al lavoro e i lavoratori a basso reddito, che meritano sconti fiscali consistenti a integrazione degli 80 euro.
ll messaggio politico che il governo ha voluto dare fin dal primo momento è evidentemente: diversamente dal reddito di inclusione, che è una misura per una platea ben circoscritta ai poveri, il reddito di cittadinanza è sempre stato colpevolmente promesso come una misura potenzialmente estendibile a tutti; il dato per cui al Sud Italia 43% delle persone dichiara meno di 9.360 euro annui e quindi è un potenziale beneficiario fa presagire che quest’anno gli italiani si dedicheranno più a trovare il modo per rientrare nei parametri del reddito piuttosto che a trovare un lavoro.
A questo messaggio devastante dal punto di vista della crescita e della cultura del paese si associa l’altro limite insormontabile che riguarda l’implementazione della misura. La fase di implementazione è sempre stata il punto debole di tutte le leggi ma in questo caso l’implementazione pratica corretta della misura è (forse volutamente) impossibile. Infatti, l’unico risultato che si vuole ottenere è che qualcuno riceva dei soldi entro le elezioni europee.
In tema di salario minimo, non si può essere pregiudizialmente contrari perché si tratta di istituti che estendono, almeno nelle intenzioni, il perimetro dei diritti dei cittadini e dei lavoratori. Nel processo di valutazione però, questi provvedimenti non possono essere analizzati isolatamente ma bisogna guardare la storia e l’evoluzione del contesto economico, sociale e normativo in cui vengono inseriti. E dunque il problema è nei criteri del modello proposto. Si rischia di fare un altro disastro, perché in un paese che vive di contratti nazionali collettivi e che contemporaneamente si è dotato di un reddito di cittadinanza, il pericolo è quello di spostare il mercato del lavoro tutto verso l’alto, costringendo le aziende ad uscire dai contratti nazionali, o diminuire le ore ai lavoratori, o anche alimentando il nero. Potrebbe crearsi una forte interferenza tra Salario minimo legale – stabilito per legge – e Salario minimo contrattuale, determinato invece dalla contrattazione collettiva. La situazione attuale in Italia è che ci troviamo in un’emergenza di segno opposto:siamo passati in un decennio da 300 CCNL ad oltre 800, ed il motivo di questa proliferazione è che ogni CCNL fissa regole in parte diverse, anche sui Salari minimi contrattuali, tanto che molto spesso l’unico obiettivo da parte di un datore di lavoro è ricercare il contratto più conveniente, e più le imprese sono piccole, e meno i sindacati maggiori sono presenti, più vi è una ricaduta negativa in questo senso.
Anche il contesto normativo italiano è molto diverso da quello dei Paesi dove esiste il Salario minimo legale. In Italia non esistono forme di contrattazione collettiva di valore erga omnes, vale a dire che si applichino anche a chi non fa parte di una associazione firmataria del CCNL, non si applicano cioè se l’impresa non aderisce all’associazione sindacale dei datori di lavoro firmataria dell’accordo; se invece l’impresa aderisce, il singolo lavoratore è soggetto comunque al contratto anche nel caso in cui non faccia parte di alcun sindacato firmatario. E dunque, in caso di controversia relativa alla proporzionalità di una retribuzione, il giudice fa riferimento di solito all’articolo 36 della Costituzione, che stabilisce il diritto di un lavoratore ad una retribuzione dignitosa, non essendo nei fatti applicato dalle parti sociali il disposto dell’art. 39 della Costituzione che invece sancisce l’applicazione dei contratti collettivi erga omnes.
Il livello di nove euro lordi sarebbe vicino a quello della Germania ma con livelli dell’economia italiana ben lontani da quelli tedeschi, costituirebbe l’80% del salario mediano e sarebbe tra i più alti tra i paesi Ocse.
La strada non è quella di aumentare i salari per legge, perché si rischia andare nel paradosso di abbassarli. Quello che si può fare è diminuire la tassazione, ovvero il cuneo fiscale che tutti pagano sul lavoro, aziende e dipendenti. In tutti i paesi si è intervenuto così sui salari.
Alessandra Servidori
03 Maggio 2019
Lo smart working compie due anni ma sul digitale siamo indietro
LAVORO ildiariodellavoro
Lo smart-working compie due anni, ma non c’è molto da festeggiare
Dunque una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e di lavoro, la flessibilità e la produttività. Ma a due anni appunto dall’avvio ci incalza la nuova rivoluzione industriale, la digitalizzazione, perché dunque lo smart-working non è però una semplice iniziativa di work-life balance e welfare aziendale per le persone: si innesca in un percorso di profondo cambiamento culturale e richiede un’evoluzione dei modelli organizzativi aziendali, per cui si deve prevedere una roadmap dettagliata fase per fase affiancata alla digitalizzazione. Bisogna sempre ricordare, infatti, che è un progetto intrinsecamente multidisciplinare, che presuppone una governance integrata tra gli attori coinvolti. Un progetto di smart-working è quindi un processo di cambiamento complesso che richiede di agire contemporaneamente su più leve e che deve partire da un’attenta considerazione degli obiettivi, delle priorità e delle peculiarità tecnologiche, culturali e manageriali dell’organizzazione. Inteso come nuovo modo di lavorare che consente un miglior bilanciamento tra qualità della vita e produttività individuale, è quindi anche il risultato di un sapiente uso dell’innovazione digitale a supporto di approcci strategici che puntano sull’integrazione e sulla collaborazione tra le persone, in particolare, e tra le organizzazioni, in generale.In tutto questo la tecnologia gioca un ruolo chiave, perché quando si parla di Digital Transformation nei luoghi di lavoro si pensa anche all’applicazione di tecnologie avanzate per connettere persone, spazi, oggetti ai processi di business, con l’obiettivo di aumentare la produttività, innovare, coinvolgere persone e gruppi di lavoro. A rendere possibile lo Smart Working sono le tecnologie digitali che permettono di scegliere il dove e quando lavorare, sia all’interno che all’esterno dell’organizzazione. Le tecnologie che supportano il lavoro da remoto sono diffuse ma adottate relativamente dalle aziende italiane perché la digitalizzazione delle imprese non è ancora per l’Italia. La Commissione Europea, nell’ultimo report relativo all’indice di digitalizzazione dell’economia e della società (DESI – Digital Economy and Society Index), boccia ancora una volta il nostro Paese. Le informazioni evidenziano accuratamente la competitività dei paesi UE nell’ambito dell’adozione delle tecnologie digitali, analizzando una serie di fattori quali la connettività, il capitale umano, i servizi pubblici digitali, l’utilizzo di internet e della tecnologia digitale in ambito business. Da questa analisi l’Italia ne esce sconfitta, posizionandosi al 25° posto nella classifica dei 28 Stati membri dell’Unione Europea, quart’ultima tra le nazioni più obsolete del vecchio continente insieme a Romania, Grecia e Bulgaria. Nonostante il pessimo risultato, però, nel corso degli ultimi anni l’Italia ha fatto registrare nel complesso un lieve miglioramento, anche se la sua posizione nella classifica DESI è rimasta invariata. Quindi anche per lo smart-working le soluzioni a maggiore penetrazione dovrebbero essere quelle a supporto della sicurezza e dell’accessibilità dei dati da remoto e da diversi device,iniziative di Mobility, che prevedono la presenza di device mobili e mobile business app e dai servizi di Social Collaboration .Secondo poi il modello proposto da P4I (Organizzazione,gestione e controllo ), una delle leve è quella legata alle policy organizzative, ovvero le regole e linee guida relative alla flessibilità di orario (inizio, fine e durata complessiva), di luogo di lavoro e alla possibilità di scegliere e personalizzare i propri strumenti di lavoro. Le tecnologie digitali , in funzione della loro qualità e diffusione, possono ampliare e rendere virtuale lo spazio di lavoro, abilitare e supportare nuovi modi di lavorare, facilitare la comunicazione, la collaborazione e la creazione di network di relazioni professionali tra colleghi e con figure esterne all’organizzazione. Anche il layout fisico degli spazi di lavoro, inteso come configurazione degli spazi, ha un impatto significativo sulle modalità di lavoro delle persone e può condizionarne l’efficienza, l’efficacia e il benessere delle persone nel contesto lavorativo: la progettazione degli ambienti è fondamentale per garantire alle persone di lavorare in un luogo che soddisfi le loro necessità professionali, perché lo Smart Working non è praticabile solo fuori dall’ufficio. Un Paese come l’Italia – da sempre a forte vocazione creativa, industriale ed esportatrice – non può permettersi di rimanere indietro e perdere le molteplici occasioni che la digitalizzazione può offrire. Per far fronte alla necessità di colmare il gap di competitività accumulato in questi decenni, dal 2012 l’Agenda Digitale Italiana (ADI), documento strategico realizzato in seguito alla sottoscrizione dell’Agenda Digitale Europea, è entrata in azione definendo linee guida, modalità e priorità di intervento per permettere alle PMI di avviare un processo di digitalizzazione e informatizzazione. Produrre e servire in modo “intelligente” vuol dire connettere con la miglior efficienza possibile i processi dell’intera filiera produttiva, ma anche agire con maggiore reattività e flessibilità in un mercato sempre più mutevole, esigente e imprevedibile. Le aziende della maggior parte degli stati europei viaggiano a una velocità decisamente non sostenibile dalle nostre imprese, e l’Italia, nel suo piccolo, ha cercato di tenere il passo con l’attivazione di una serie di strategie come il Piano Impresa 4.0, il cui fattore di leva più importante è la digitalizzazione della PA, che può assicurare piattaforme e infrastrutture di servizio più semplici ed efficaci, nonché fondi per incrementare le competenze digitali della popolazione, accelerando tutto il processo e soprattutto risorse fresche e certe per ammortamento e super ammortamento per le imprese private. Una volta che tutti gli elementi del Piano Impresa 4.0 saranno finalmente operativi si prevede un’accelerazione del processo di digitalizzazione delle PMI. Ma senza risorse adeguate rimaniamo al palo e questo governo non ha sicuramente aiutato la ripresa. Anzi la sta soffocando.
Alessandra Servidori
29 Aprile 2019
Prevenzione salute e sicurezza sul lavoro?Le misure che mancano
INCIDENTI SUL LAVORO/ Le misure che mancano per la sicurezza IL SUSSIDIARIO.NET
24.04.2019 - Alessandra Servidori
Un nuovo incidente sul lavoro richiama l’attenzione sulla sicurezza a pochi giorni dalla giornata mondiale dedicata a questo tema
Sede centrale Inail (LaPresse)
Il 28 aprile ricorre a livello internazionale la giornata dedicata alla prevenzione salute e sicurezza sul lavoro e proprio ieri in Italia si è registrata l’ennesima morte in un cantiere. Dati dell’Inail, anche se solo parziali rispetto al consuntivo annuale, segnano un incremento incalzante di eventi negativi. Le denunce di infortunio sul lavoro presentate all’Inail entro lo scorso mese di febbraio sono state 100.290, in aumento di oltre quattromila casi (+4,3%) rispetto alle 96.121 del primo bimestre del 2018. I dati rilevati al 28 febbraio di ciascun anno evidenziano a livello nazionale un incremento sia dei casi avvenuti in occasione di lavoro (+2,8%), sia di quelli in itinere, occorsi cioè nel tragitto di andata e ritorno tra l’abitazione e il posto di lavoro, che hanno fatto registrare un incremento pari al 15,0%, da 12.332 a 14.180.
Un particolare questo che coinvolge in maggior misura annualmente sempre le lavoratrici, un dato già registrato negli anni precedenti da Inail che conferma la rilevanza degli infortuni in itinere per le lavoratrici che sono oltre la metà dei casi mortali nel tragitto di andata e ritorno tra la casa e il luogo di lavoro. Un problema evidentemente da attribuirsi alla stanchezza del doppio lavoro e della mancanza di conciliazione tra lavoro di cura e azienda e allo stress correlato. Inoltre, sempre in ottica di genere, le denunce di malattie dell’apparato osteo-muscolare, del tessuto connettivo e del sistema nervoso sono il 90,1% del totale delle patologie professionali delle donne.
A febbraio 2019 il numero degli infortuni sul lavoro denunciati è aumentato del 2,6%, nella gestione Industria e servizi del 7,4%, in Agricoltura del 10,0%. L’analisi a livello territoriale evidenzia un aumento delle denunce di infortunio in tutte le ripartizioni geografiche: Nord-Ovest (+4,9%), Nord-Est (+5,2%), Centro (+4,6%), Sud (+1,0%) e Isole (+4,1%). Tra le regioni con gli incrementi percentuali maggiori spiccano l’Umbria (+13,4%), la Sardegna, le Marche e la Basilicata (intorno al +10%). Le denunce di malattia professionale protocollate dall’Inail nel primo bimestre del 2019 sono state 9.937, una in più rispetto a gennaio-febbraio 2018. Le patologie denunciate sono aumentate in Agricoltura (+2,5%), calate leggermente nell’Industria e servizi (-0,2%). Dall’analisi territoriale emergono incrementi delle denunce nel Nord-Est (+1,1%) e al Sud (+0,9%) e decrementi nel Nord-Ovest (-1,8%), al Centro (-0,6%) e nelle Isole (-0,1%).
In ottica di genere per ora si rilevano 13 denunce di malattia professionale in più per i lavoratori, da 7.314 a 7.327 (+0,2%), e 12 casi in meno per le lavoratrici, da 2.622 a 2.610 (-0,5%). In diminuzione le denunce dei lavoratori italiani, che sono passate da 9.330 a 9.275 (-0,6%), mentre sono aumentate quelle dei lavoratori comunitari, da 198 a 218 (+10,1%), e dei lavoratori extracomunitari, da 408 a 444 (+8,8%). Le patologie del sistema osteo-muscolare e del tessuto connettivo, quelle del sistema nervoso e dell’orecchio continuano a rappresentare le prime tre malattie professionali denunciate, seguite dalle patologie del sistema respiratorio e dai tumori. L’aumento che emerge dal confronto dei primi bimestri del 2018 e del 2019 è legato sia alla componente maschile, che registra un +3,7% (da 60.376 a 62.589 denunce), sia a quella femminile, con un +5,5% (da 35.745 a 37.701). L’incremento ha interessato i lavoratori extracomunitari (+7,7%) e quelli italiani (+4,1%), mentre tra i comunitari il calo è pari allo 0,7%. Dall’analisi per classi di età emergono aumenti generalizzati in tutte le fasce, a eccezione di quella compresa tra i 30 e i 44 anni, che registra una flessione dell’1,6%.
Le denunce di infortunio sul lavoro con esito mortale presentate all’Istituto entro il mese di febbraio sono state 121, alla quale aggiungiamo quella avvenuta nelle scors ore di un giovane di solo 28 anni. Questa situazione è l’esempio evidente di come non si può approcciare al complesso tema della prevenzione salute e sicurezza solo pensando di agire sull’onda delle urgenze rappresentate dai momenti di maggior concentrazione di eventi drammatici, potendo permettersi di porre in secondo piano il tema delle tutele e della salute e sicurezza sul lavoro.
La prevenzione efficace è un’azione di sistema che richiede interventi programmatici, svolti in sinergia e perseguiti in modo sistematico e continuativo. Il denunciare da anni la mancanza di una Strategia nazionale di prevenzione vuol dire non avere come Paese una progettazione a medio-lungo termine e, pertanto, una visione chiara di insieme su quali devono essere le priorità da realizzare, i controlli e le verifiche da svolgere, gli interventi mirati da pianificare, prevedendo modalità di collaborazione permanente tra i principali attori, istituzionali e delle parti sociali, impegnati nella prevenzione, a livello nazionale, ma anche sul livello regionale, dove le responsabilità non sono meno rilevanti, tenuto conto del ruolo che la legislazione concorrente oggi ancora gli attribuisce, sia in tema di prevenzione, di salute, che di formazione che è di scarsissima qualità.
Il tempo delle sole analisi statistiche e degli osservatori è giunto al capolinea, occorre agire, operando con interventi concreti ed efficaci, pensando ai posti di lavoro che ogni giorno sono chiamati a confrontarsi con il rischio. Perché, se si perde, non sono le regole che vanno cambiate, ma occorre operare su chi non vuole applicarle nel modo giusto. Oltre agli infortuni sul lavoro, infatti, occorre farsi carico delle tante malattie professionali che a oggi procurano sofferenza nella vita delle lavoratrici e dei lavoratori, ma soprattutto è fondamentale aggredire il fenomeno dei danni da lavoro nella sua complessità, sapendo che i numeri delle denunce sono solo la punta di un iceberg dalla base ben più ampia che riguarda i tanti casi oggi ancora purtroppo costretti a rimanere sommersi.
Le Pmi sono punto nevralgico su cui occorre intervenire con forme di supporto a favore dell’implementazione di buone prassi e con trasferimento di competenze. La formazione dei diversi attori della prevenzione è centrale, ma le competenze e il cambiamento dei comportamenti non si acquisiscono solo con la quantità di ore, ma con la qualità, la pertinenza e la specificità degli interventi. Basta quindi con gli enti che fanno della formazione solo un business e rilasciano attestati on line. Il ruolo della pariteticità, quale intesa permanente tra le Parti sociali, titolari dei tavoli contrattuali di livello nazionale e locale, in questo senso, è centrale e determinante per fare la differenza. Il finanziamento per l’Impresa 4.0 non può essere solo a favore della produttività, ma anche di un sistema che pone al centro la persona, a partire dal garantire le tutele sul lavoro, indipendentemente dalle tipologie contrattuali, guardando al raggiungimento diffuso e certo per tutti di adeguate condizioni di lavoro, verso il raggiungimento di uno stato di benessere organizzativo permanente, nel sistema privato, così come nel sistema del lavoro pubblico.
La Strategia nazionale non può essere un mero programma di attività, ma deve essere coerente con le indicazioni europee sulla materia e avere un carattere pluriennale di sistema, che renda più coerente e armonico l’impegno dei diversi soggetti oggi attivi e responsabili in materia di prevenzione negli ambienti di lavoro.
La Giornata Mondiale per la salute e la sicurezza sul lavoro, che si svolge il 28 aprile di ogni anno, è stata istituita nel 2003 dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo). La manifestazione, di respiro mondiale, ha lo scopo di focalizzare l’attenzione internazionale sull’importanza della prevenzione degli infortuni nei luoghi di lavoro e delle malattie professionali e sulla necessità di un impegno collettivo per la creazione e la promozione della cultura della sicurezza e della salute sul lavoro. Ma qui in Italia si continua a sbagliare. Il tema della sicurezza scolastica rappresenta ancora un’emergenza trascurata. Il numero di crolli e distacchi di intonaco è impressionante: 250 dal 2013, uno ogni tre giorni nell’anno scolastico in corso e sono una dolorosa realtà le morti di bambini e ragazzi, la cui assenza è un vuoto profondo per le famiglie e le comunità.
Il territorio italiano conta oltre 17.000 scuole (dati ARES, Anagrafe Regionale Edilizia scolastica, ottobre 2018) in aree a rischio sismico alto (zona 1) e medio-alto (zona 2) e 4 milioni e mezzo di studenti dai 6 ai 16 anni (dati elaborati dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia per Save the Children); un Paese in cui oltre metà delle scuole – 22.000 su circa 40.000 – è stata costruita prima del 1970 e il certificato di agibilità/abitabilità manca per più della metà degli edifici (il 53% del totale).
A oggi, il 53,2% degli edifici possiede il certificato di collaudo statico (la prima norma che introduce in Italia l’obbligo del certificato di collaudo statico è la legge 5 novembre 1971, n. 1086), il 22,3% degli edifici senza questo certificato è costruito prima del 1970. Il 59,5% non ha quello di prevenzione incendi. Il 53,8% non ha quello di agibilità/abitabilità. Il 78,6% delle scuole ha il piano di emergenza. Il 57,5% degli edifici è dotato di accorgimenti per ridurre i consumi energetici. Le barriere architettoniche risultano rimosse nel 74,5% degli edifici. Nei recenti provvedimenti finanziari la questione non è stata neanche presa in considerazione. Ancora.
Le recentissime modifiche al Testo Unico 81/ 2008 più volte novellato, con la Legge di bilancio 2019, hanno previsto solo la maggiorazione di alcune sanzioni per violazioni relative al contrasto del lavoro nero, al distacco transnazionale e al lavoro somministrato e il cosiddetto decreto sicurezza solo la vigilanza rafforzata dei Prefetti, ma nulla sulla formazione autenticamente certificata sui luoghi di lavoro. Anzi, sul versante delle aziende il Governo ha addirittura con la Legge di bilancio apportato la revisione delle tariffe dei premi, in vigore da gennaio, che riguarda in particolare l’aggiornamento del nomenclatore, il ricalcolo dei tassi medi e il meccanismo di oscillazione del tasso per andamento infortunistico.
La riduzione dei tassi, definita con tre decreti interministeriali Lavoro-Mf, dovrebbe generare un risparmio per i datori di lavoro attorno a 1,7 miliardi di euro secondo il Governo, ma non assicura per niente che vi sia una ricaduta positiva sulla copertura antinfortunistica concreta dei lavoratori. Il diritto alla salute, compresa quella sul lavoro, è affermato nel nostro ordinamento come diritto fondamentale dell’individuo, oltre che interesse della collettività (cfr. art. 32, 1° comma, della Costituzione): significa che esso riveste un rilievo preminente rispetto ad altri diritti pur riconosciuti dalla Costituzione (in particolare riguardo alla libertà di iniziativa economica privata, di cui all’art.41, Cost., nonché rispetto allo stesso diritto al lavoro, di cui all’art.4, Cost.). Ne consegue che la salute, quale fondamentale diritto del lavoratore e interesse della collettività, non può essere considerata un mero auspicio o una fase tendenziale dell’organizzazione produttiva, ma di quest’ultima costituisce una precisa condizione di esercizio.
Nella dialettica, propria delle relazioni industriali, tra logica produttivistica ed esigenze di tutela del lavoro è dunque la salvaguardia dell’integrità psico-fisica dei lavoratori a rappresentare il momento privilegiato, non potendo il datore di lavoro invocare la libertà d’impresa per giustificare scelte organizzative che possano mettere a repentaglio la sicurezza dei propri dipendenti o collaboratori. Ricordiamoci bene e sempre: con il termine salute, ai sensi dell’art.2, comma 1, lett.o), del d.lgs. n.81/2008 si intende lo “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità”.
Riflettere sul valore della sicurezza del lavoro oggi e soprattutto su come si possa concretamente operare per contrastare la piaga delle morti sul lavoro è un dovere fondamentale.
La Ue diminuisce sensibilmente le risorse per la parità di genere.
QUI EUROPA www.ILDIARIODELLAVORO:IT
Rapporto EIGE, meno dell’1% dei Fondi Strutturali Ue viene accantonato per la parità di genere
L’ Istituto Europeo per l'Uguaglianza di Genere (EIGE) ha pubblicato un rapporto che mostra che meno dell' 1% dei fondi Strutturali dell'UE e i Fondi di Investimento sono stati accantonati per la promozione della parità di genere. Secondo questo rapporto, le proposte per il post-2020 bilancio - il Quadro Finanziario Pluriennale dell'UE (QFP) – evidenza un livello ancora più basso di ambizione. Eige analizza nel dettaglio come le istituzioni dell’Ue e gli stati membri possono contribuire a realizzare l'obiettivo della parità di genere attraverso il miglioramento il bilancio di genere, che identifica le diverse esigenze di donne e uomini e assegna le risorse di conseguenza.
Sappiamo -come impatto negativo della diversità di genere- che attualmente le donne guadagnano meno per dedicare più tempo alla cura e del lavoro domestico, e di conseguenza con significativamente pensioni molto più basse rispetto agli uomini. Il Rapporto evidenzia che la strategia del gender budgeting è finalizzata a raggiungere l'uguaglianza tra donne e uomini concentrandosi su come le risorse pubbliche vengono raccolte e spese. Il bilancio di genere è un approccio al bilancio che può migliorarlo, quando le politiche fiscali e le procedure amministrative sono strutturate per affrontare la disuguaglianza di genere e ricordiamo che già il Consiglio d'Europa del 2005 definisce il gender budgeting come una "valutazione di genere dei bilanci che comprende una prospettiva di genere a tutti i livelli del processo di bilancio e la ristrutturazione delle entrate e delle spese al fine di promuovere l'uguaglianza di genere" .
Lo scopo del gender budgeting è triplice: 1. promuovere la responsabilità e la trasparenza nella pianificazione fiscale; 2. aumentare la partecipazione sensibile al genere nella procedura di bilancio, ad esempio adottando misure per coinvolgere ugualmente donne e uomini nella preparazione del bilancio; 3. Promuovere l'uguaglianza di genere e i diritti delle donne. In Italia questa strategia e metodologia è attuata in misura quasi inesistente nonostante i dati sulla situazione femminile siano di gran lunga peggiori di altri paesi Ue soprattutto rispetto l’occupazione inchiodata al 48 % quando l’obiettivo Ue è il raggiungimento della manodopera femminile al 75%.
L'integrazione di una metodologia di gender budgeting nei processi ordinari di bilancio consente ai governi di comprendere meglio in che modo entrate e spese e le politiche che guidano il budget possono avere impatti diversi su donne e uomini. Poiché le prospettive di genere non sono normalmente prese in considerazione nel bilancio, i bilanci sono spesso considerati neutrali rispetto al genere e il Rapporto dimostra che la mancanza di attenzione alle questioni di genere porta in realtà a bilanci di genere quasi inesistenti e quindi a decisioni non ottimali. Il bilancio di genere si fonda sull'analisi di genere, che valuta quanto un bilancio risponda alle divergenze di genere e riveda l'effettiva distribuzione delle risorse tra donne e uomini e ragazze e ragazzi. Tale analisi consente anche l'inclusione di questioni chiave che sono spesso trascurate nei bilanci e nelle analisi politiche, come l'effetto economico della distribuzione irregolare del lavoro non retribuito e il suo effetto economico netto sulle donne, così come la distribuzione disomogenea delle risorse all'interno delle famiglie.
Una buona analisi di genere porta a una buona pianificazione e definizione del bilancio per l'uguaglianza di genere e la crescita economica. n Importante, il bilancio di genere riguarda la ristrutturazione del bilancio per garantire che il governo utilizzi le risorse pubbliche in modo da aumentare la parità di genere e aumentare quindi l'efficienza e l'efficacia dei budget e delle politiche. Questo a sua volta aiuta ad accelerare la crescita inclusiva e sostenibile. Il gender budgeting ha una solida base nell'impegno dell'UE per l'integrazione della dimensione di genere espresso nel trattato sul funzionamento dell'Unione europea. Il Parlamento europeo e il Consiglio dell'Unione europea hanno ripetutamente invitato gli Stati membri a sviluppare e attuare il bilancio di genere.
A livello dell'UE, il Parlamento europeo è in ultima analisi responsabile per il bilancio dell'UE e la direzione generale del bilancio della Commissione europea per la sua esecuzione. I parlamenti e le amministrazioni pubbliche degli Stati membri dell'UE sono responsabili dei loro cicli di bilancio nazionali e subnazionali Il budget di genere può essere applicato a qualsiasi tipo di sistema di bilancio a tutti i livelli di governo. L'introduzione del gender budgeting a livello di governo centrale è importante perché le decisioni di bilancio relative alle entrate e alle spese sono prese a questo livello.
Ottimo esempio è quello dell’Austria mentre in Italia NON è stato prodotto. La vicinanza dei governi regionali e locali alla vita quotidiana delle persone significa che esiste la possibilità di rispondere più direttamente alle esigenze delle donne e degli uomini quando si tratta di politiche pubbliche e fornitura di servizi. A questi livelli, vi è un grande potenziale per utilizzare approcci partecipativi al bilancio di genere che coinvolgono la popolazione locale e ottimi performance sono state adottate in Spagna e Andalusia. L'efficace attuazione del bilancio di genere richiede un impegno politico associato a una capacità tecnica per l'integrazione della dimensione di genere. La leadership impegnata è di particolare importanza per garantire che l'uguaglianza di genere sia integrata nei processi di pianificazione e di bilancio e che le entrate e le spese del bilancio pubblico siano di beneficio sia per le donne che per gli uomini.
I principali fattori abilitanti per il gender budgeting includono: la volontà politica e leadership politica; un impegno ad alto livello delle istituzioni amministrative pubbliche; una migliore capacità tecnica dei dipendenti pubblici; il coinvolgimento della società civile; analisi dei dati disaggregati per sesso. La volontà politica e la leadership politica, dimostrata attraverso l'impegno politico attivo a promuovere l'uguaglianza di genere, è il fattore abilitante più importante. Al fine di ottenere progressi reali, il bilancio di genere deve essere sostenuto da un governo centrale reattivo e responsabile. La volontà politica può essere dimostrata attraverso la sensibilizzazione degli attori chiave, quali parlamenti nazionali, partiti politici, assemblee regionali e locali e i loro organi consultivi. Può anche essere evidenziato sostenendo i budget sensibili di genere in pubblico o adottando chiari orientamenti politici per il lavoro di gender budgeting. I legislatori possono anche rendere obbligatorio includere le prospettive di genere nel budget e nelle politiche correlate.
L'impegno ad alto livello delle istituzioni amministrative pubbliche è un importante fattore abilitante. Con l'emanazione di chiare istruzioni per l'attuazione e il follow-up, i dipendenti pubblici sono in grado di contribuire al rispetto degli impegni di eguaglianza di genere del governo. La società civile ha un ruolo importante da svolgere nel garantire che i governi siano ritenuti responsabili per il rispetto degli impegni internazionali e nazionali sull'uguaglianza di genere. Può anche svolgere un ruolo cruciale nel collegare il governo alla società e promuovere processi di bilancio partecipativi e i dati disaggregati per sesso sono un fattore abilitante nel condurre analisi. Pertanto, le statistiche nazionali e i sistemi di informazione gestionale nei ministeri, nelle agenzie pubbliche e negli istituti di ricerca svolgono un ruolo cruciale così come gli insegnamenti a livello accademico nei vari corsi economici e giurisprudenziali, approfondendo argomenti come la distribuzione del lavoro non retribuito tra donne e uomini.
Questi dati sono necessari per formulare anche obiettivi di uguaglianza di genere basati su evidenze e per monitorare sistematicamente i progressi e i processi di implementazione del gender budgeting e le statistiche di genere. Un'analisi efficace di genere combina un'analisi dell'impatto su donne e uomini con un'analisi intersettoriale comprendente altre categorie come età, background socioeconomico ed etnia,nella pianificazione , nel processo decisionale e nell'attuazione regolari, nonché nel monitoraggio e nella valutazione delle politiche di bilancio. Ciò significa che condurre un'analisi di genere di un budget, una politica o un programma non è un compito una tantum, ma dovrebbe essere integrato nel ciclo di budget per informare continuamente i decisori su come migliorare i budget e le politiche correlate al fine di raggiungere la parità di genere.
È importante stabilire collegamenti chiari tra stanziamenti di bilancio e programmi e gli obiettivi di uguaglianza di genere definiti nelle strategie generali per la parità di genere, ad esempio strategie e priorità nazionali e impegni a livello UE e internazionali perché il bilancio di genere ha lo scopo di ristrutturare i budget e cambiare le politiche al fine di affrontare le disuguaglianze esistenti. Ciò significa che l'analisi del budget di genere non è fine a sé stessa. Sulla base delle prove prodotte attraverso l'analisi è necessario attuare i cambiamenti necessari nelle dotazioni di bilancio e nelle politiche correlate. In questo modo, i governi possono utilizzare le scarse risorse in modo più efficiente ed efficace e allo stesso tempo lavorare per promuovere la parità di genere.
Nello spirito dell'integrazione della dimensione di genere, il gender budgeting dovrebbe essere integrato durante tutto il ciclo di bilancio. Ciò significa passare dall'analisi di genere isolata a un approccio globale che tenga conto delle prospettive di genere nella pianificazione di politiche e budget, nel processo decisionale e nell'attuazione, nonché nell'auditing, nel monitoraggio e nella valutazione. In linea di principio, il gender budgeting può essere integrato in tutte le fasi del ciclo di bilancio regolare e in quanto tale, può essere combinato con i diversi approcci , applicato a vari livelli nel lavoro sistematico sul bilancio di genere come avviene virtuosamente in Belgio, Austria, Finlandia e Svezia, oltre che a livello locale a Berlino e Vienna.
L'approccio principale si concentra sull'integrazione delle prospettive di genere e delle priorità di uguaglianza di genere nella definizione di obiettivi, , attività e indicatori al fine di misurarli, oltre a collegare questa pianificazione strategica agli stanziamenti di bilancio e svolgere regolari attività di controllo, monitoraggio e valutazione per informare un nuovo ciclo di pianificazione strategica. Esempi di combinazione del bilancio partecipativo e del bilancio di genere si possono trovare in diverse città tedesche, ad esempio a Berlino e Friburgo e in Gran Bretagna Pertanto, i bilanci di genere e le relative politiche contribuiranno al raggiungimento dell'uguaglianza di genere e allo stesso tempo miglioreranno il benessere della popolazione e porteranno a una crescita e all'occupazione più sostenibili e inclusivi.
L'Istituto europeo per l'uguaglianza di genere (EIGE) ha studiato come i miglioramenti nell'uguaglianza di genere possano contribuire a una crescita economica sostenibile, inclusiva e intelligente nell'Unione europea. Lo studio elettronico dell'EIGE sui benefici economici dell'uguaglianza di genere è unico nel contesto dell'UE. È il primo ad utilizzare un robusto modello econometrico per stimare un'ampia gamma di benefici macroeconomici dell'uguaglianza di genere in diverse vaste aree come l'istruzione, l'attività sul mercato del lavoro e le retribuzioni. Inoltre, considera l'impatto demografico di tali miglioramenti mostrando che una maggiore uguaglianza di genere porterebbe a • Tra 6,3 e 10,5 milioni di posti di lavoro supplementari nel 2050 a causa del miglioramento dell'uguaglianza di genere affrontando la segregazione di genere nelle scelte educative e aumentando la partecipazione delle donne nei settori scientifico, tecnologico, ingegneristico e matematico (STEM), con circa il 70% di questi posti occupati dalle donne • Un aumento della produttività occupazionale e della potenziale capacità produttiva dell'economia come risultato di affrontare la sottorappresentazione delle donne in settori con carenze di competenze e buone prospettive di occupazione come STEM. • Impatto positivo del PIL pro capite che aumenta nel tempo :nell'UE, il miglioramento della parità di genere contribuirebbe a un aumento del PIL pro capite fino al 9,6% entro il 2050.In Italia si continua a dichiarare che si deve intervenire per l’aumento della presenza femminile sul mercato del lavoro ma rimaniamo clamorosamente indietro anche sull’applicazione delle strategie suggerite dalle migliori performance di altri Paesi e il bilancio di genere non si fa nelle leggi finanziarie e ancora meno a livello locale. Per questa ragione fondamentale nei percorsi di studio universitario è necessario- come facciamo a Modena e Reggio Emilia con corsi ad hoc- insegnare agli studenti nell’ambito delle politiche attive di pari opportunità nel lavoro pubblico e privato l’importanza della realizzazione dei bilanci di politiche attive di sostegno per una programmazione sia nazionale che locale che aziendale ancorate al gender budgeting.
Alessandra Servidori
15 Aprile 2019
UN DEF DEMENZIALE e 4 anime colpevoli
Alessandra Servidori
4 Anime : 1 in pena( Tria) 1 Spavalda( Conte) e 2 sciallate (Salvini e Di Maio).Dovrebbero andare a lavorare
Di DEF e dei deliranti contenuti se ne parla poco e soprattutto del fatto che il ministro Tria riconosca esplicitamente la responsabilità dell'Esecutivo nella crisi economico-finanziaria italiana, che verrà approvato dal Parlamento con una mozione voluta dai due vicepremier, che esprimono una linea diametralmente opposta appoggiata servilmente dal Premier.
E’ orribile la situazione in cui versiamo e drammatica sarà sicuramente dal 27 maggio in poi, quando il passaggio politico del voto europeo si sarà compiuto e anche gli italiani più disinvolti dovranno rendersi conto che l’alternativa è una sola : o sperare di dare un nuovo inizio alla legislatura o metterci fine. La così detta verità uscita finalmente come un coniglio spelacchiato dal cappello del Ministro del tesoro ha messo in luce le bugie, le falsità reiterate sulle reali condizioni di salute sia dell’economia che della finanza pubblica.I numeri sono lì nero su bianco e non si possono cambiare : una crescita tendenziale del pil quasi azzerata (+0,1%), e neanche sarà rinforzata dal minimo rimbalzo della produzione industriale registrato a febbraio perché si trattta di export e di merce di cui i magazzini sono ancora pieni dal fermo dell’occupazione in atto ,e non è scalfibile la stima di un decimo punto in più rispetto alle previsioni più negative che ipotizzano realmente un 2019 a -0,1% o addirittura a -0,2%. E questo reddito di cittadinanza sicuramente non sosterrà l’occupazione in quanto le furbizie si stanno già evidenziando. E’ il caso di chi si è dimesso da un posto di lavoro regolare che non può chiedere subito il “reddito di cittadinanza” ma per averlo subito basta far figurare un licenziamento invece che le dimissioni. Quanto alla possibilità di perdere il sussidio per il rifiuto di un’“offerta di lavoro congrua”, tutti sanno che è un rischio soltanto teorico perchè avendo stabilito che il rdc è di 780 euro , c’è la prospettiva seria che qualche milione di lavori a tempo parziale sparisca, o si inabissi nell’economia sommersa, portando con sé altrettanti matrimoni trasformati in convivenze non dichiarate. Così la quota 100 non significa più giovani al lavoro ma anzi impoverimento dei settori nevralgici come la sanità e l’istruzione, il reddito di cittadinanza appunto significa più lavoro irregolare , perché il Governo ha deciso di impostare l’intero schema del cosiddetto “reddito di cittadinanza” come misura di politica del lavoro, per sottrarne la gestione ai comuni. Come se non bastasse ha condizionato l’erogazione del sussidio alla disponibilità del beneficiario ad aderire “almeno alla terza offerta di lavoro congrua” che gli pervenga entro il primo anno. Nessuno, evidentemente, ha informato il Governo che da ormai mezzo secolo le aziende non comunicano più agli uffici di collocamento posti di lavoro che possano essere offerti a Tizio o a Caio indifferentemente: nessuna azienda offre un’assunzione “al buio”, prima di aver vagliato attentamente le attitudini e motivazioni del candidato. Tanto meno lo farebbe con la prospettiva di vedersi avviare una persona non qualificata, che per di più si presenterebbe solo perché costretta. Il meccanismo di “condizionalità”, previsto per limitare la natura assistenzialistica del sussidio, non può dunque funzionare. Quel che è peggio, però, è che nello stesso decreto è contenuta questa disposizione strabiliante: si esclude chi ha perso il posto, e sta godendo del trattamento di disoccupazione (NASpI), dal servizio di assistenza qualificata istituito nel 2015 e finanziato conl’assegno di ricollocazione e lo si riserva ai soli beneficiari del RDC, per i quali per lo più esso non può funzionare. Aggiungiamo che lo sblocca cantieri è bloccato e la decrescita è in atto. : il DEF è una dichiarazione di fallimento completa e reale. I 4 non solo non si fanno carico di un ciclo economico italiano, già così più basso di oltre un punto rispetto alla media Ue che ha una differenza ancor più larga con l’eurozona, ed è francamente offensivo per gli italiani continuare ad affermare che è colpa della Germania .E’ evidente, che il Def ci porta dritti dritti all’aumento dell’Iva, per il programmato ammontare di 23 miliardi nel 2020 e di 28 nel 2021 e la necessità di ottemperare all’obbligo delle clausole di salvaguardia europee facendo aumentare le aliquote Iva per un gettito complessivo di 23,1 e 28,7 miliardi. C’è poi in vista la promessa anch’essa demenziale che si vuole introdurre quella che impropriamente è stata chiamata flat tax, la quale prevedendo ben sei classi di aliquote tributarie altro non sarebbe che una riformina fiscale, dal costo di 17 miliardi di minori entrate (se avesse le caratteristiche prevista dalla proposta leghista) che sarebbero recuperate attraverso l’aumento del pil e quindi del gettito solo nel giro di qualche anno, sempre che gli effetti reali sulla base imponibile non si rivelino negativi. Il che, nel combinato disposto del non aumento dell’Iva e dell’entrata in vigore della manovra fiscale, farebbe salire il deficit 2020 fino al 4,1 del pil. Altro che procedura di infrazione ,un buco nero che ci porta in una crisi economica enorme e le tasche degli italiani completamente svuotate da questi irresponsabili.
Governo Irresponsabile
Alessandra Servidori
Questo governo non ha il pudore della responsabilità :sui conti pubblici noi italiani sicuramente siamo già più che allertati dalla situazione di emergenza in cui ci troviamo con i provvedimenti che sono stati adottati e che ci hanno portato giù nel declino e nel disastro. Martedì 9 aprile sarà la nuova manovra finanziaria, che ha un’anticipazione nel Def, il documento di programmazione, che il ministro Tria deve presentare appunto martedì prossimo, che chiarirà questa impresentabile disfatta. Perchè sarà la legge di bilancio autunnale, salvo la necessità di farla precedere da una manovra correttiva che riduca almeno un po’ lo scarto tra le indicazioni contenute nella legge finanziaria varata a dicembre scorso e la realtà delle condizioni del ciclo economico e della finanza pubblica. L’apice del programma di governo contenuto nel famoso “contratto” e il conseguente “stallo” che si è creato dentro l’esecutivo e nella maggioranza parlamentare che lo sostiene ha bloccato il nostro Paese. I due della banda Bassotti del governo, Lega e 5stelle, in totale dissenso su tutto, le liti anche sul piano delirante e il Presidente Mattarella pronto a “riparare” per quanto fosse possibile i danni enormi per la salvaguardia degli interessi del Paese che nel tutelare l’agibilità dei ministri cosiddetti tecnici ha finito, e meno male , per assumere un ruolo sempre più politico. Per nostra misericordia sono più gli italiani che giudicano negativamente la politica economica gialloverde fatta fin qui di quelli che l’approvano e dobbiamo augurarci che il ministro Tria, forte dell’appoggio del Quirinale, sia in grado e deciso nell’adottare una linea che sia di verità detta al Paese, di argine a derive populiste (vedi le banche), di rigore nella gestione della finanza pubblica e di spinta agli investimenti produttivi e infrastrutturali, a cominciare dalla Tav. Noi ci auguriamo che agisca in questo modo e riteniamo che sia anch’egli disgustato dagli attacchi personali che ha subito, ma non è l’unico e anche perché a chiederglielo, oltre che il Colle – e già sarebbe più che sufficiente, per lui – sono tutti gli interlocutori internazionali, europei e non, preoccupati che l’Italia salti in aria trascinando nuovamente l’eurozona, e con essa altre aree economiche e monetarie, nell’ennesima fase di crisi. E’ aumentato il livello di tensione dentro governo e maggioranza e la situazione è insostenibile : è indispensabile che la scelta di Tria sia di presentare un Def veritiero e non elettorale non cadendo nella scia deleteria di precedenti governi che in questi anni hanno adottato il criterio speculativo di fare del documento di programmazione un falso in bilancio, scrivendo previsioni virtuose, cui Bruxelles faceva finta di credere, che tutti sapevano non avrebbero retto a consuntivo. Ma che era anche, convenzionalmente, il modo per fare deficit spending: non dicendolo preventivamente, anzi. TerzaRepubblica capitanata da Enrico Cisnetto ha preso le previsioni del rapporto deficit-pil contenute nei vari Def e le ha confrontate con quanto successivamente consuntivato. Dal 2011 in poi sulle 22 previsioni contenute nei 7 Def presi in esame (escluso l’ultimo, scritto “a politiche invariate” dal governo Gentiloni dimissionario), solo una volta il deficit preventivato si è rivelato superiore o almeno uguale a quello poi riscontrato a consuntivo l’anno dopo. In tutti gli altri casi i governi sono sempre stati troppo “ottimisti”, con uno scarto che in media è risultato di quasi un punto percentuale (0,86 per la precisione).Ora è giunto il momento di non nascondere niente : abbiamo una condizione recessiva con una crescita del pil pari allo 0,1% ed è più probabile – perché largamente stimato dai maggiori centri di analisi internazionali – che davanti a quel decimo di punto ci sia il segno meno. Questo Governo vuole arrivare alle elezioni del 26 maggio negando ostentatamente la crisi ma comunque sia chi vorrà prendere a mano una nuova manovra che deve aumentare l’Iva per 52 miliardi e e’effetto accumulo dei problemi lasciati irrisolti da anni, e di tutte le bugie raccontate a quegli italiani che ci hanno creduto : chi incrementa oggi la sua storia retributiva sul versante pensionistico acquista solo dei diritti che NON saranno onorati dai giovani di oggi perché NON ci saranno le risorse e continuerà il blocco dell’adeguamento delle pensioni,anche perché gli andamenti demografici ci dicono che c’è un processo di invecchiamento e una denatalità inversamente proporzionale: le pensioni a quota 100 sono tutte lunghe e a scapito dei giovani e resta una bugia grossissima che andare in pensione prima rilancia l’occupazione.Circa 700 mila insegnanti e bidelli stanno scappando dalle scuole,il settore sanitario che rimane senza medici, e l’Italia si impoverisce sempre di più,perché anche il welfare soffre moltissimo e questo governo NON ha favorito il welfare aziendale che è la trasformazione di una parte della retribuzione tassata in retribuzione esente e la cui funzione principale è quella di conciliare il tempo di lavoro con il tempo per la famiglia.Senza un Piano nazionale vero per gli asili nido,senza un incentivo per negozi e aziende,attività produttive, se non si sostengono i distretti produttivi con i servizi per le famiglie compresi gli anziani, le coppie continueranno a non fare figli perché non sanno a chi lasciarli e gli anziani staranno sempre più soli e abbandonati e l'istruzione dei pochi bambini sarà lasciata a insegnanti sempre più avanti negli anni e stanchi.
EUROPA SOSTANTIVO PLURALE FEMMINILE
https://formiche.net/2019/04/europa-sostantivo-plurale-femminile/
Alessandra Servidori EUROPA è sostantivo plurale anche femminile
In Slovacchia vince le presidenziali Zuzana Caputova, una donna che si è fatta strada lottando contro la corruzione e il degrado ambientale, portando avanti così gli stessi temi su cui era impegnato il giornalista Jan Kuciak, recentemente assassinato. La giovane signora si è dichiarata europeista e questo è di già una notizia eccezionale visto che la Slovacchia è uno di quei paesi che fino ad ora è stata governato con uno spirito molto antireupeista insieme alla Polonia, Repubblica Ceca, quel gruppo di Paesi detti di Visegrad, piccola città ungherese in cui fu costituito il blocco, nel 1991. l gruppo, nato dopo il crollo dell’Unione sovietica per rafforzare la cooperazione tra questi paesi, negli ultimi anni si è caratterizzato in particolare per sostenere posizioni euroscettiche, sovraniste e rigide in tema di immigrazione.Queste posizioni hanno portato a un avvicinamento tra l’alleanza e il governo dell’Austria, guidato dal premier di destra Kurz..Le relazioni con l’Italia sono state spesso difficili, soprattutto per la mancata disponibilità del gruppo a farsi carico dell’accoglienza dei migranti extra-europei. In Italia noi siamo sotto scacco di una premier ship sostanzialmente antireupeista e ,almeno nella destra,si fa sempre più concreta la possibilità che a guidare Forza Italia sia Mara Carfagna abile intelligente e colta europeista e che il triumvirato femminile Carfagna/Bernini/Gelmini del partito azzurro abbia fatto una alleanza formidabile per dare impulso allo storico partito berlusconiano che comunque ha sempre tenuto alto il dialogo con Merkel e la UE e ha garantito l’alleanza. Sappiamo bene che le conseguenze dei no decisi alla Ue ci stanno davanti agli occhi ed è già accaduto che un Paese membro ci ripensasse come appunto la Grecia. Potrebbe accadere anche al Regno Unito perché l’economia britannica si è ormai integrata troppo in quella del continente perché sia indolore tornare indietro. Perché il problema del confine tra Ulster e Irlanda, in caso di Brexit, appare insolubile e l’Ulster stesso potrebbe essere indotto a chiedere l’annessione all’Irlanda pur di rimanere nella UE. Perché gli scozzesi sono decisi a opporsi in tutti i modi all’uscita dalla UE, minacciando altrimenti la secessione. Di fronte ai danni economici si aggiunge questo sfaldamento drammatico della Gran Bretagna,il parlamento che non si mette d’accordo e anche la maggioranza degli inglesi potrebbe convincersi a tornare sui propri passi. Vero è che il danno, in termini di incertezza e paralisi, sarà comunque ingente. Ma il significato di un epilogo di questo genere, per il futuro dell’UE, sarebbe opposto a quello che la Brexit fa temere. È interesse primario anche della UE favorire questa soluzione. Dunque: niente ritorsioni, niente atteggiamenti arcigni, se e quando il figliol prodigo decidesse di tornare (anzi: rimanere) a casa. In questa situazione drammatica è intervenuto Macron sulla Brexit proponendo di lasciare il Regno Unito fuori, perché in questa fase delicata di rilancio dell’UE sarebbe solo un problema.I britanni pagheranno caro questo loro errore del 2016, (e questo sarà di monito per tutti gli euroscettici, così facilitando il processo di integrazione) ma l’errore lo pagheremo tutti quanti. Un divorzio traumatico UE/UK è stato ed è l’obiettivo pervicacemente perseguito dai servizi segreti di Putin e dal capo-stratega di Trump Steve Bannon, uomo di estrema destra e nemico giurato della democrazia europea: la hard Brexit sarebbe il trionfo di gente come questa. Viceversa un Regno Unito che dopo aver votato Leave finisse col Remain sarebbe la loro sconfitta; sarebbe la dimostrazione che non esiste una vera alternativa tra vecchia sovranità nazionale e nuova sovranità europea, perché quest’ultima è oggi l’unica sovranità possibile nel nostro continente. E così tutti noi comunitari potremo fare squadra contro il gioco tra USA, Russia e Cina.
Ci vuole lucidità per i cinesi e non pressapochismo
https://formiche.net/2019/03/cinesi-italia-cina-ue/
Alessandra Servidori Ragioniamo con lucidità sui cinesi sbarcati in Italia
Mentre in Italia hanno sventolato le bandiere cinesi e abbiamo accolto a cavallo l’ultimo imperatore- che lo sarà a vita- il Consiglio europeo sulla Cina, ha accusato il gigante asiatico di irregolarità commerciali, a cominciare dalla chiusura del suo mercato alle imprese estere; di dare sussidi a pioggia alle sue industrie, distorcendo la competizione; e di non proteggere in maniera adeguata i diritti di proprietà intellettuale. E questo è solo una parte delle politiche commerciali che la Commissione europea e il Servizio di azione esterna europeo (Seae) come incipit per il Consiglio europeo dello scorso 21-22 marzo. Vero è che per anni l’Europa era incapace di rispondere all’ascesa della potenza cinese e che anche quando una risposta comune veniva adottata, questa era solitamente debole e poco incisiva. Ora la risposta è arrivata, e molto forte. Nel suo ultimo documento – che servirà anche a preparare il Vertice Ue-Cina del 9 aprile – la Ue ha deciso di definire la Cina un ‘competitore economico’ e ‘rivale sistemico’. Contemporaneamente il Consiglio europeo ha discusso la questione della creazione dei cosiddetti ‘campioni nazionali’, una proposta dell’asso franco-tedesco fortemente sostenuta dalle elites politiche e industriali dei due paesi. Ricordiamo molto bene il manifesto di Macron nel quale il presidente francese dice chiaramente che per competere con potenze quali gli Stati Uniti, la Cina e la Russia, l’Europa deve dotarsi di politiche che difendano la sua sovranità tecnologica e creare industrie europee capaci di competere con le grandi imprese di stato cinesi.Un tassello fondamentale della sovranità tecnologica è la difesa delle imprese europee dagli investimenti predatori. In tal senso, il Consiglio europeo ha dato il via libera al meccanismo di scrutinio degli investimenti esteri nella Ue – il cosiddetto screening mechanism– indirizzato a impedire alle grandi imprese di stato cinesi di fare ‘shopping tecnologico’ in Europa –che porta con sé il rischio di de-industrializzazione dell’Europa nel medio-lungo periodo. Questa proposta che mira a difendere l’interesse nazionale degli stati membri dovrebbe essere accolta con favore dalla coalizione di governo in Italia, formata da due partiti che hanno fatto della difesa della sovranità (e delle aziende nazionali) la loro bandiera. Eppure, l’Italia prima che l’imperatore venisse a firmare il Memorandum in questi giorni ,il 5 marzo, durante la votazione sulla bozza del testo che ora permette alla Commissione europea e ai paesi membri di ‘scrutinare’ gli investimenti cinesi nella Ue, si era astenuta. Con lei solo la Gran Bretagna, che è già praticamente fuori dall’Unione e che commercia allegramente con la Cina.Il nuovo provvedimento legislativo inerente gli investimenti cinesi è parte dell’armamentario che il Consiglio europeo ha adottato per rispondere al progetto cinese di una Nuova Via della Seta (nota come Bri, acronimo inglese diBelt and Road Initiative).E’ bene sapere che una risposta al progetto della Bri l’Ue l’aveva data lo scorso settembre, con la pubblicazione del documento sulla Strategia per la connettività euro-asiatica, contiene norme e principi di ispirazione occidentale e ai quali spesso le aziende cinesi non si attengono. In questi giorni diversi paesi membri dell’Ue hanno avuto parole molto dure riguardo il progetto infrastrutturale di Pechino e l’ Italia invece ha sottoscritto il progetto cinese di Nuova Via della Seta durante la visita del presidente cinese Xi Jinping.. I nuovi “compagni” penta stellati con la copertura dei leghisti possono dire quel che vogliono e cioè che il Memorandum d’Intesa che l’Italia ha firmato con la Cina fa chiaro riferimento alla Strategia europea per la connettività euro-asiatica e rappresenta un modello anche per altri paesi avanzati. Anche no però perché non va dimenticato che una tale strategia può essere efficace nei confronti di Pechino solo se dietro si muove compatto l’intero blocco europeo, altrimenti singoli paesi – anche molto forti economicamente come la Germania – poco possono di fronte al gigante asiatico. Il Governo italiano con i bulimici sovranisti pentastellatileghisti ha agito da battitore libero ed è così che indebolisce l’area EURO in un momento storico dando anche i numeri a caso come per esempio che si sono sottoscritti per due miliardi di euro di accordi che “possono diventare 20 miliardi”.Ma noi ora siamo piccoli e deboli e l’attuale divisione dell’Europa porta immediati benefici a Pechino ma non sicuramente a noi nei confronti delle politiche commerciali della tigre asiatica e del rafforzamento dell’Unità europea.
Contro il meeting di Verona.Ecco perchè.
Alessandra Servidori
Sono decisamente contro il raduno di Verona . La chiama” festa” il senatore Pillon quel seminario di tre e costosissimi lunghi giorni che ha come pretesto il dialogo sulla famiglia. Ma se c’è qualcuno che vuole proprio massacrare la famiglia sono coloro che mettono in difficoltà reale e concreta il rapporto tra genitori .Un rapporto molto privato che il disegno di legge di Pillon appunto prevede di normare conculcando la restaurazione di un diritto di famiglia obsoleto. Le mie opinioni sono fondate sui fatti.Con una recente decisione, la Corte di Cassazione, ribadendo numerose sue precedenti pronunzie, ha specificato che quando i genitori si lasciano il figlio ha il diritto di godere dell’apporto di entrambi (il c.d. diritto alla bigenitorialità).La Cassazione, che, è bene ricordarlo, sono i giudici più importanti e “alti in grado” in Italia, ha anche precisato che il diritto del minore alla bigenitorialità non è il diritto dei genitori a spartirselo a metà secondo i propri capricci o logiche, tipiche di molte coppie “scoppiate”, di vendetta trasversale. Questo non vuole dire che sia vietato prevedere che, in caso di rottura della coppia genitoriale, il figlio possa passare metà tempo con un genitore e metà con l’altro. Sarebbe però sbagliato, secondo questa e altre, numerosissime decisioni, fissare come regola generale quella del metà tempo: ogni famiglia e ogni bambino costituiscono un mondo a parte, con singolarità, storie, abitudini e specificità che devono essere rispettate anche, e soprattutto, se i genitori si lasciano. In alcuni casi la parità temporale è la soluzione ideale - pensiamo a due genitori che abitano vicini che hanno orari di lavoro simili o complementari - in altri no. Si tratta di un’interpretazione della norma in linea con quello che succede nella maggior parte dei paesi occidentali e che rispetta i diritti dei figli come stabiliti in tantissime Convenzioni internazionali che anche l’Italia ha firmato. D’altra parte, anche se qualcuno fatica a capirlo, i bambini non sono proprietà dei genitori che se li possono dividere a fette come le torte: il tempo di Salomone è finito da un pezzo. Mentre i media riportano quotidianamente storie di femminicidi, stupri, violenze e abusi, in una sequenza cronicizzata di orrore , non solo continuiamo a sentir parlare del problema come di un'emergenza sociale a dispetto dell'evidenza dei dati che dimostrano ampiamente come la violenza maschile contro le donne sia un problema strutturale e profondamente radicato nel nostro paese, ma registriamo l'avanzare indisturbato di proposte di legge che, se approvate, favorirebbero inevitabilmente il persistere della violenza, in particolare quella intrafamiliare". La Convention integralista di Verona, con questo viscido paternalistico motivo “festivo” intende dare una spallata al DDL 735 presentato dal senatore Pillon che rappresenta "la sistematizzazione di un processo di riappropriazione del potere maschile minacciato dalle nuove norme transnazionali e in particolare dalla Convenzione di Instanbul".Il disegno di legge "Norme in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bigenitorialità" intende dare attuazione a quanto previsto in materia nel contratto di Governo attraverso una serie di modifiche normative, a partire dalla mediazione civile obbligatoria in tutte le separazioni in cui siano coinvolti i figli minorenni, prevedendo l'equilibrio tra entrambe le figure genitoriali e tempi paritari nella cura e nell'educazione, e quindi affidamento congiunto e doppio domicilio per i minori.Il DDL Pillon prevede anche il mantenimento in forma diretta dei figli, senza automatismi nel riconoscimento di un assegno da corrispondere al coniuge attribuendo a ciascuno specifici capitoli di spesa, in misura proporzionale al reddito e ai tempi di permanenza presso ciascun genitore del minore, e il contrasto dell'alienazione genitoriale "che, disconfermata dal mondo scientifico, rientra mal camuffata come supposta tutela dei 'diritti relazionali' dei minori"."Il DDL dimostra che chi ha redatto il testo sia completamente decontestualizzato e non tenga conto di cosa accade nei tribunali, nei territori e soprattutto tra le mura domestiche. Il testo sembra quasi completamente ignorare la pervasività e l'insistenza della violenza maschile che determina in maniera molto significativa le richieste di separazioni e genera le situazioni di maggiori tensioni nell'affidamento dei figli che diventano per i padri oggetto di contesa e strumento per continuare ad esercitare potere e controllo sulle madri.Ignora inoltre il persistente squilibrio di potere e di accesso alle risorse proponendo un'equiparazione tra i genitori, il doppio domicilio dei minori, l'eliminazione dell'assegno di mantenimento e dando per scontate disponibilità economiche molto spesso impossibili da garantire per le donne in un paese con elevatissimi tassi di disoccupazione femminile, dove è ancora presente il gap salariale, che continua ad espellere dal mercato del lavoro le madri, ne penalizza la carriera e garantisce sempre meno servizi in grado di conciliare le scelte genitoriali con quelle professionali, mentre scarica i crescenti tagli al welfare sulle donne schiacciate dai compiti di cura.Il dispositivo proposto appare dunque, una presa di posizione consapevole e di parte "che alimenta il senso di frustrazione e di rivalsa dei padri separati, rischia di sostenere gli interessi della parte peggiore di ordini professionali, oltre che supportare una cultura patriarcale e fascista che, fingendo di mettere al centro la famiglia come istituto astratto e borghese, tenta di schiacciare la soggettività e la libertà delle donne ancorché dei minori.La previsione, ad esempio, della mediazione civile obbligatoria (e onerosa) per le questioni in cui siano coinvolti figli minorenni, introdotta oltretutto con il dichiarato intento di 'salvaguardare per quanto possibile l’unità della famiglia', rischia di produrre effetti opposti a quelli che vorrebbe perseguire, ossia l’alleggerimento del carico giudiziario per le questioni familiari e il contenimento dei costi per i coniugi separandi, visto che da un lato onera di un procedimento più farraginoso e di spese probabilmente più rilevanti tutte quelle coppie con figli minori che, fino a oggi, in condizioni di non conflittualità e reciproco accordo, potevano far ricorso a una snella e tutto sommato economica procedura giudiziaria di separazione consensuale; dall’altro perché nei casi opposti, ossia in quelle situazioni in cui la procedura di separazione è figlia di condizioni di forte conflittualità o addirittura di abusi e violenza di un coniuge nei confronti dell’altro, obbliga le due parti a mantenere frequenti e reiterati contatti, finalizzati alla definizione del 'piano genitoriale' previsto dalla nuova normativa, con il conseguente rischio di procrastinare e aggravare condizioni di disagio e di violenza, quantomeno psicologica, che finirebbero inevitabilmente per incidere anche sull’accordo fissato dal suddetto piano.Con questo DDl che sarà tema di appoggio sfrenato nella tre giorni Veronese si va contro a quell’affido condiviso che dalla L. 54/2006 è divenuto il provvedimento più applicato in sede giurisdizionale, in concreto poi non si realizza, in pratica rischia di innescare invece meccanismi di prevaricazione nei confronti del genitore socio-economicamente più debole (statisticamente le madri), specie in quelle situazioni di soggezione dovute a precedenti (e poi perduranti?) condotte vessatorie e violente che richiederebbero invece un allontanamento e un distacco fra gli ex coniugi, in primis a tutela dei figli, già provati da un clima di estrema conflittualità fra i genitori in costanza di matrimonio. Si va contro con un evidente e insanabile scollamento fra i tempi della giustizia civile, e tanto più della mediazione obbligatoria, e quelli dell’accertamento penale, e a proporre l’introduzione di una significativa modifica all’art. 572 del codice penale, ossia la norma che punisce il reato di maltrattamenti in famiglia, prevedendo che tali condotte debbano avere il connotato della 'sistematicità' in luogo della 'abitualità' oggi prevista, ossia essere pressoché continue, restringendo in modo significativo il campo di applicazione della fattispecie, la soppressione dell’assegno di mantenimento per il figlio minore (che di fatto toglie rilevanza anche al recentemente novellato art. 570 c.p. che sanziona penalmente l’inosservanza di tale contribuzione, aggravando così ulteriormente la posizione del coniuge debole) e la sua sostituzione con la previsione secondo cui ciascun genitore deve contribuire direttamente a livello economico per il tempo in cui il figlio gli è affidato e che il piano genitoriale debba contenere la ripartizione per ciascun capitolo di spesa, sia delle spese ordinarie che di quelle straordinarie. E dall’altro quelle dirette a neutralizzare il rischio della c.d. alienazione genitoriale, ossia il trauma psicologico subito dal figlio minorenne in caso di condotta di uno dei genitori tesa a ostacolare i contatti con l’altro (effetto peraltro ancora assai discusso in ambito scientifico), con la previsione di una possibilità d’intervento coercitivo e fortemente invasivo del Giudice anche laddove tale rischio sia soltanto denunciato ma non dimostrato (gli articoli 17 e 18 del ddl dicono infatti che se il figlio minore manifesta 'comunque' rifiuto, alienazione o estraniazione verso uno dei genitori, 'pur in assenza di evidenti condotte di uno dei genitori' stessi, il giudice può prendere dei provvedimenti d’urgenza: limitazione o sospensione della responsabilità genitoriale, inversione della residenza abituale del figlio minore presso l’altro genitore e anche il 'collocamento provvisorio del minore presso apposita struttura specializzata'). Dunque in buona sostanza i TRE GIORNI VERONESI dobbiamo ben capire cosa stanno producendo. Sicuramente sono più che fondate le preoccupazioni e le proteste delle numerose associazioni a tutela della donna (come già detto statisticamente parte debole a livello socio-economico nelle procedure di separazione), ma anche da diverse associazioni di avvocati, psicologi e operatori che si occupano di famiglia e minori, da giuristi, anche cattolici, da giudici minorili, dai centri antiviolenza, dai movimenti femministi e anche dalle relatrici speciali delle Nazioni Unite sulla violenza e la discriminazione contro le donne, in ordine alla possibile entrata in vigore di una siffatta normativa. E poi prendiamoci il tempo per scoprire questa oligarchia di Dio legata alla Lega dei rapporti tra Lega e Russia , relatori al congresso della famiglia come Alexey Komov integralista cristiano partners del Fondo Bonifacio insieme a Molofeev che ha trattato per conto insieme a Gianluca Savoini –fedelissimo di Salvini-a Mosca per ottenere finanziamenti per Salvini in vista delle elezioni Europee. Tutto documentato dal luglio del 2018. Tutto documentato i finanziamenti a Nuova Terrae Fondazione che si nutre di tesorerie russo-azere,capitanata da Luca Volontè – oggi sotto processo per corruzione- attraverso documenti bancari completi , che mostrano fondi di offshore attraverso la Fondazione hanno finanziato quasi tutte le organizzazioni del meeting di Verona compresi Filippo Savaresi che guida la costola italiana di Le manif pour tous ovvero generazione famiglia,Mario Sberna, Gianfranco Amato, ecc tutti relatori a Verona .A cominciare appunto dal world congress of famiglie l’ultimo dei quali in Moldavia e ora arrivato poco felicemente tra di noi. E avrà ben un senso se anche la CEI ne ha preso garbatamente le distanze.
Dati Istat : donne e servizi per l'infanzia : desolante situazione italiana
ALESSANDRA SERVIDORI www.ilsussidiario.net 22 marzo 2019
Istat ha reso noti i dati censiti per l’anno scolastico 2016/2017 dei servizi socio-educativi per l’infanzia che in Italia sono 13.147, con solo 354.000 posti autorizzati al funzionamento, pubblici in poco più della metà dei casi. L’analisi consegna il trend significativo storico per cui a partire dall’anno scolastico 2011/12 si registra un calo dei bambini iscritti nei nidi comunali e convenzionati e dal 2012 si riducono anche le risorse pubbliche disponibili sul territorio rimanendo nel triennio 2014-2016 sostanzialmente stabili sia gli utenti serviti, sia la spesa dei Comuni. Il parametro europeo fissato dall’Unione è del 33% per sostenere la conciliazione della vita familiare e lavorativa e promuovere la partecipazione delle donne al mercato del lavoro e la percentuale di posti disponibili nel nostro Paese, coprendo solo il 24% del numero di bambini residenti fino a tre anni, è desolatamente inadeguata.Consideriamo che la crisi economica ha comportato un accrescimento dei bisogni di cura, inclusione e contrasto alla povertà, e la dinamica della spesa socio-assistenziale, invece di segnare un incremento, ha registrato nel periodo 2013/2017 una tendenziale stagnazione, pur se con andamenti altalenanti, e peraltro si è andata riducendo in particolare proprio nella componente più importante del welfare territoriale e dei servizi. Tra i fattori che determinano la maggiore incidenza della povertà nelle famiglie con figli minori ci sono l’insufficienza e la frammentazione di prestazioni e servizi pubblici a sostegno dei figli, che siano capaci di favorire la piena occupazione dei genitori, in particolar modo delle donne.
Sono necessarie pertanto politiche di conciliazione tra lavoro e responsabilità familiari che intervengano in maniera coordinata su congedi e permessi, sull’organizzazione del lavoro, su istituti innovativi disciplinati dalla contrattazione collettiva e, soprattutto, sul sistema dei servizi all’infanzia, che risultano ancora troppo scarsamente diffusi. In confronto ai Paesi Ue, l’Italia investe molto meno per l’esclusione sociale rispetto al proprio Pil (0,77% contro 1,8%), per la famiglia e i minori (5,98% contro 8,08%) (dati Eurostat 2018). Secondo la Corte dei Conti, infatti, nel 2017 la spesa per prestazioni assistenziali della Pubblica amministrazione era composta per 38,2 miliardi da misure in denaro e soltanto per poco più di 10 miliardi in servizi, per lo più a carico dei Comuni.Oltretutto si conferma la disomogeneità della spesa media dei servizi per gestire i servizi pubblici o privati convenzionati, molto variabile tra regioni con un minimo di 88 euro l’anno per un bambino calabrese e un massimo di 2.209 euro per bambino trentino con un’ulteriore crescita delle disuguaglianze tra territorio ed ente locale. Fondamentale è l’adozione di politiche pubbliche per l’inclusione educativa, sociale e lavorativa che operino in stretto coordinamento tra loro con la pluralità di strumenti, prestazioni e servizi necessari a ciascuna politica, a partire dalla diffusione e qualificazione del sistema di servizi per le famiglie con carichi di assistenza e cura e per la prima infanzia (integrato con lo 0-6 e il tempo pieno per l’inclusione educativa) e dal rafforzamento degli strumenti per il contrasto alla povertà assoluta e delle politiche attive per l’inserimento lavorativo. Mentre la realtà è che gli interventi verso la famiglia sono scarsi e insufficienti, complessivamente incoerenti, diseguali per categoria lavorativa e rapporto di lavoro, per area territoriale (nord-sud, città-provincia), e in alcuni casi variano in virtù del tipo di legame che unisce la coppia, più che rispetto alla presenza di minori/figli e, d’altronde, il modello preferenziale di riferimento delle politiche continua a essere quello della famiglia di tipo tradizionale per legami, composizione, preferenze, condizione lavorativa dei partner.
Uno degli effetti maggiormente inquietanti di questa situazione è il tasso di povertà appunto delle famiglie con minori che è il più alto in Europa, cresce al crescere del numero di figli, nelle situazioni in cui vi sia un unico percettore di reddito (specie ne casi in cui la madre è molto giovane) e in caso di genitore solo. Il sistema di trasferimenti italiano è il meno efficace nel ridurre la povertà tra i minori e inoltre in Italia non esiste a tuttoggi una tutela universale, né un programma universale virtuoso di sostegno al reddito.Gli studi comparati hanno dimostrato come i paesi che hanno avuto la miglior performance nel ridurre i livelli di povertà tra i minori siano quelli scandinavi che nel corso degli anni ‘90 hanno puntato su: politiche di piena occupazione, in particolare finalizzate a incrementare quella femminile; qualificate politiche sociali (che hanno il merito anche di aver creato un ampio sostegno politico); diritti sociali basati sulla cittadinanza e non sullo status occupazionale; un forte investimento in servizi di cura per l’infanzia per facilitare l’occupazione femminile; una forte enfasi su una migliore redistribuzione della ricchezza; un forte accento posto sulle questioni di equità di genere; un’attenzione sul bilanciamento tra lavoro e famiglia (quindi congedi parentali, educazione e cura per i bambini più piccoli in modo da supportare l’occupazione femminile); una forte volontà di sostegno a livelli di tassazione e spesa sociale elevati.Gli strumenti utilizzati in Italia, spesso di natura economica e associati alle misure di contrasto alla povertà, sono invece stati realizzati attraverso una molteplicità di strumenti sui quali è unanime il giudizio di farraginosità, categoricità, scarsa efficacia distributiva. È fondamentale una misura universale di sostegno al costo dei figli, di reddito minimo in grado di tutelare il cittadino dai rischi sociali, e che sia di supporto non solo alle fasce più deboli ma anche a quelle a rischio di povertà e di esclusione sociale. Allo stesso modo la disponibilità di servizi di cura dell’infanzia, che aiutano in modo sostanziale la conciliazione tra vita familiare e vita lavorativa, consentendo il rientro a lavoro della donna e quindi riducendo la penalizzazione del lavoro della madre.
La spesa locale – essendo il livello locale quello che ha il compito prevalente di erogare servizi e in particolare servizi sociali – è in generale infatti molto bassa rispetto a quella centrale; inoltre, la legislazione, e la cultura stessa dei giuristi italiani – e le ideologie da cui sono ancora influenzati -, sono rimaste a lungo connotate da una legislazione blanda rispetto alla realtà socio-economica, alle mutate condizioni di vita delle famiglie, limitandosi a slogan che dimostravano quanto il Pil sarebbe stato premiato dalla presenza di lavoratrici sul mercato del lavoro ma non procedendo sulle riforme necessarie. Oggi è urgente realizzare politiche di conciliazione tra vita familiare e vita lavorativa, ovvero il set di interventi che possono utilmente rendere più armoniosa e bilanciata la gestione congiunta dei due ambiti anche recuperando le direttive Ue e le indicazioni comunitarie in riferimento alle politiche di conciliazione e di sostegno alla genitorialità, che nel corso degli ultimi anni si sono andate consolidando e fatte più incisive. La Commissione ha adottato nell’aprile 2017 la sua proposta per una direttiva sul bilanciamento tra vita familiare e lavorativa come parte di uno dei tre pacchetti di iniziative connesse Pilastro Sociale. Il tema oggetto di questa proposta, oltre a essere riconducile al principio n. 2 (parità di genere) e al principio n. 3 (parità di opportunità), è infatti esplicitamente richiamato dal principio n. 9 del Pilastro che sancisce “il diritto per i genitori e le persone con responsabilità̀ di assistenza a un congedo appropriato, modalità̀ di lavoro flessibili e accesso a servizi di assistenza e di cura. Gli uomini e le donne hanno pari accesso ai congedi speciali al fine di adempiere le loro responsabilità̀ di assistenza e sono incoraggiati a usufruirne in modo equilibrato”. In buona sostanza dagli odierni dati Istat emerge quante energie il lavoro di cura (materno per definizione, nel nostro Paese) draga dalla partecipazione al mercato del lavoro, e possibilmente da un mercato del lavoro che consista in un impiego full-time. La mancanza di servizi per la cura e le conseguenze che tale mancanza ha sull’occupabilità delle donne è certamente significativa, in un’ottica lavoristica oggi è opportunamente ben sostenuta dalle stesse lavoratrici che non si rassegnano a essere costrette all’interruzione dell’attività lavorativa dopo la nascita del figlio per mancanza di servizi di nido; comunque è sconcertante il dato che dal Rapporto annuale del ministero del Lavoro sulle dimissioni emerge: una donna su quattro lascia il lavoro dopo la maternità.
Perchè l'analisi costi benefici non può essere oggettiva
GRANDI OPERE www.ildiariodellavoro.it
Perché l’analisi costi-benefici non può essere oggettiva
La vicenda del blocco scriteriato delle grandi opere che sta ingessando l’Italia è incardinato su uno slogan “l’analisi costi benefici”. Una tecnica con la quale chiunque può dimostrare una cosa e il suo contrario. Che impostazioni metodologiche diverse e parametri diversi portino a risultati diversi è cosa nota: fin dal 2008, perciò, la Commissione europea ha elaborato linee guida, divenute più articolate e obbligatorie nel 2014. Anche il ministero delle Infrastrutture, per gli stessi motivi, ne ha emesse di proprie, coerenti con quelle europee. Bisogna seguire queste indicazioni per rendere comparabili i risultati e ridurre le possibilità di manipolare lo strumento. L’analisi costi benefici si compone di due parti e non solo di una. L’analisi finanziaria, che analizza i flussi di cassa, cioè gli spostamenti di denaro, e che guarda il progetto da un’ottica particolare, in genere quella del promotore, ma che può anche essere quella dei diversi stakeholder, tra cui lo stato.
È in questa parte di analisi che devono trovare adeguata rappresentazione e valutazione fenomeni come le variazioni del fatturato delle imprese (per esempio, autostrade o ferrovie) o del gettito fiscale. Una seconda parte è l’analisi economica, che prescinde dai flussi monetari e contabilizza i “costi” e i “benefici”: guarda il progetto nell’ottica dell’intera comunità di riferimento, trascurando gli effetti di redistribuzione prodotti dal progetto, già messi in evidenza nell’analisi finanziaria. I “costi” non sono le “spese”: sono il consumo di risorse scarse sottratte a un uso alternativo. C’è una complessa metodologia per valutare i costi a partire dalle spese: queste vanno depurate da ciò che non è consumo di risorsa, come le tariffe o le imposte (che semplicemente trasferiscono una somma tra due soggetti della comunità), ma anche dagli effetti distorsivi che le imperfezioni del mercato possono causare nel sistema dei prezzi.
Se il progetto trasferisce una parte di traffico da un modo all’altro, sarà necessario contabilizzare con cura le variazioni di consumo di risorse che avvengono in entrambi i modi. Ben più complessa è la valutazione dei “benefici”, cioè dell’utilità che i vari soggetti della comunità complessivamente ottengono dalla realizzazione del progetto. Poiché l’analisi usa come metrica la moneta, tutti gli effetti devono essere espressi in valuta: ciò è più facile per i beni e servizi trattati nel mercato, che hanno un prezzo rilevabile; più difficile per gli effetti non di mercato, come molte esternalità. Si usa quindi la “disponibilità a pagare” quale indicatore indiretto del beneficio (per valutare quanto sia fastidioso il rumore, utilizziamo la spesa che viene affrontata per ridurlo). Il passaggio comporta innanzitutto una grave semplificazione: presuppone infatti che tutti i soggetti della comunità abbiamo la stessa capacità di spesa.
Ciò però non è ovviamente vero. Nel dibattito sull’analisi costi benefici della Tav, si è detto che i sussidi pubblici portano a scelte inefficienti. Può essere vero, se sono assegnati in modo errato, tuttavia la loro motivazione corretta è proprio “compensare” la diseguale capacità di spesa, rendendo accessibili servizi essenziali o utili, come il trasporto, a chi non ha sufficiente disponibilità economica. La prima riflessione è che non è uno strumento scientifico di misurazione se non si premette che uno strumento di misurazione di un fenomeno è scientifico quando fornisce lo stesso risultato se viene utilizzato un numero infinito di volte da diversi utilizzatori. Il paradigma costi benefici che serve a valutare la convenienza di un’opera pubblica, invece si basa su un sistema di variabili soggettive.
È competenza, infatti, di chi la utilizza di stabilire sia il metodo da seguire per realizzarla, sia le componenti di costi e benefici da prendere in considerazione, sia l'attribuzione dei valori di questi. Molti di tali valori devono essere valutati perché non tutti i beni hanno un mercato nel senso tradizionale del termine, cioè non tutti i beni hanno un prezzo che si forma nel momento della loro acquisizione. Vi sono, infatti, dei beni che sono pubblici e che non hanno un reale mercato. Questo accade perché tali beni, pur essendo soggetti ad una domanda e ad una offerta, non sono oggetto del diritto di proprietà e, quindi, non possono avere un prezzo di mercato. In questo caso si parla, appunto, di fallimento del mercato. Per esempio tutti i beni ambientali non soggetti a estrazione, come il petrolio, il carbone o i diamanti, sono beni pubblici, in quanto non sono oggetti di diritti di proprietà. Come tali questi beni non hanno un prezzo di mercato e il loro valore deve essere stimato.
La stima monetaria di un qualsiasi bene che, per sua natura non ha un prezzo, è imperfetta in quanto non è oggettiva. Questo accade perché la valutazione dipende dal soggetto che la fa, dal contesto economico, sociale ed ambientale in cui viene fatta, e dal metodo con cui viene fatta la valutazione. L’incertezza della valutazione sui costi benefici di un’opera deriva anche dal fatto che al momento della sua compilazione coloro che la predispongono non possono conoscere quello che sarà, nel lungo periodo, la struttura economica di un paese e le tecnologie presenti nel futuro. Se viene fatta da due gruppi diversi, che non possono avere contatti tra di loro, i risultati potranno essere anche molto diversi e parlando di TAV, che peraltro è stata criticata da molti economisti, dovrebbe essere affidata ad almeno due gruppi di lavoro distinti e valutata con un certo distacco dai politici che sono quelli a cui spetta la decisione finale sull'opera.
Alessandra Servidori
15 Marzo 2019
NON c'è niente da festeggiare
8 Marzo 2019 – Se il Word Economic Forum afferma che solo fra 108 anni il divario di genere si attenuerà non c’è niente da festeggiare e ancora molto da fare.
www.il sussidiario .net
Eurostat recentemente segnala che in Italia oltre al carico di lavoro a casa, in media superiore a quello degli uomini, le difficoltà lavorative delle donne, nella fascia d’età compresa tra i 25 e i 49 anni, aumentano in corrispondenza dell’aumento del numero di figli e a questo incremento corrisponde una diminuzione del tasso di occupazione: dal 62,2% per le donne italiane senza figli si scende al 58,4% per le donne con un figlio (percentuale ben lontana dalla media europea, pari al 72,5%), fino ad arrivare al 41,4% nel caso di donne con tre e più figli, dimostrando così come la situazione del lavoro femminile in Italia sia ancora fortemente connessa a quella familiare. La legge di bilancio 2019 (L. 145/2018) non ha introdotto ulteriori misure volte alla conciliazione vita – lavoro rispetto a quelle preesistenti . Anzi l'articolo 1, c. 485 riconosce alle lavoratrici la facoltà di astenersi dal lavoro esclusivamente dopo il parto, entro i cinque mesi successivi allo stesso, a condizione che il medico competente attesti che tale opzione non porti pregiudizio alla salute della donna e del bambino e questo francamente pone dei problemi e ritengo che questa modifica sia sbagliata. Se è vero che la gravidanza non è una malattia e che moltissime donne, hanno lavorato fino all’ultimo mese perché godevano di buona salute e avevano una professione che glielo consentiva, questa modifica è tutta a carico della lavoratrice che rischia così di trovarsi di fronte a un ricatto. La scelta di quanto e come lavorare, non è completamente in capo al lavoratore e da qui deriva il forte rischio di trasformare la possibilità prevista in un obbligo. Tre mesi di maternità dopo il parto spesso risultano insufficienti, considerando lo stato dei servizi all’infanzia in gran parte del nostro Paese. L’idea di far scegliere alle donne quando assentarsi prima del parto è sicuramente il modo peggiore di affrontare una questione assai complessa come quella della maternità per le donne lavoratrici. Prima andrebbero adeguati i servizi e cambiata la normativa sul lavoro e soprattutto, andrebbe cambiata quella mentalità che considera le madri lavoratrici delle professioniste a metà. Al contrario una mamma che lavora è una donna che moltiplica tutto ma non bisogna cadere piuttosto nella trappola della ‘superdonna’. Semplicemente le donne, se vogliono, fanno figli. Un governo non aiuta le donne con un mese in meno di maternità, ma con servizi in più. Con questo provvedimento del Governo si svalutano importanti diritti conquistati in passato dalle donne. Lo spirito è quello di un orientamento individualista e non di una tutela sociale della maternità, con la conseguente svalutazione dei significati simbolici legati all’evento. Da tempo nel nostro Paese si assiste ad un calo demografico inarrestabile : si registra una media di 1,32 figli per donna, con 449mila nascite nel 2018, 120mila in meno rispetto a dieci anni fa. Annualmente l’Ispettorato Nazionale del Lavoro pubblica il monitoraggio nazionale delle convalide delle dimissioni e delle risoluzioni consensuali delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri che dà conferma della stretta correlazione tra maternità e disoccupazione. Dall’ultimo report fine 2018, nel corso del 2017 il numero complessivo di dimissioni e risoluzioni consensuali convalidate a livello nazionale è stato pari a 39.738 (dato in crescita del 5% rispetto a quello rilevato nel 2016, pari a 37.738), di cui 37.248 dimissioni volontarie che hanno riguardato soprattutto le lavoratrici madri, a cui sono riconducibili 30.672 provvedimenti (il 77% del totale); di contro, 9.066 riguardano i lavoratori padri, un numero contenuto anche se in aumento in termini assoluti. Un altro provvedimento discutibile e “no buono”della legge finanziaria è l'articolo 1, c. 486 che pone a carico dei datori di lavoro, pubblici e privati, che stipulano accordi per lo svolgimento dell'attività lavorativa in modalità agile (smart working), l'obbligo di dare priorità alle richieste delle lavoratrici nei tre anni successivi alla conclusione del congedo di maternità, ovvero ai lavoratori con figli disabili che necessitino di un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale. Questo - al di là del fatto che snatura lo smart working, che non è innanzitutto una soluzione di conciliazione famiglia-lavoro ma uno strumento di innovazione dei processi organizzativi - rischia di innescare meccanismi che, invece di favorire le donne, accentuino ancora di più l’onere della cura sulla sfera femminile. Non è chiaro infatti perché in caso di figli con disabilità si vogliano favorire (giustamente) entrambi i genitori, mentre per la cura destinata alla prima infanzia l’attenzione sia esclusivamente sulle madri. Altro provvedimento sicuramente non dalla parte delle donne è “ quota 100”. Inps ci consegna dati certi da cui si evince come una manovra 'maschile' e 'settentrionale', ovvero una manovra la cui platea di beneficiari è composta principalmente da uomini, e in secondo luogo da uomini e donne residenti nelle regioni del Nord Italia. Riforme previdenziali opportune per garantire sostenibilità al sistema dei conti pubblici, non possono subito rimediare alle 'imperfezioni' di un mercato del lavoro in cui la componente femminile ha numerose difficoltà in termini di accesso, equità retributiva, segregazione orizzontale e verticale, difficoltà di work life balance e dunque scarsa contribuzione e basse pensioni. Ma quota 100 e opzione donna oltre a non sanare, in fase di ritiro dal lavoro, i gap di genere connessi alle differenti storie lavorative di uomini e donne li ribadiscano, favorendo ancora una volta una ridotta platea di beneficiari maschi.
LA LEZIONE DI DRAGHI : studiate giovani, studiate!
EUROPA IL DIARIO DEL LAVORO
Cronaca di una lezione magistrale di Mario Draghi
In una atmosfera maestosa, degna dell’illustre ospite, solo lontanamente disturbata dalla manifestazione dei centri sociali e degli studenti (che in sostanza ce l’avevano con il Ministro dell’Istruzione Bussetti, il quale peraltro ha disertato l’appuntamento), l’Università di Bologna ha conferito la laurea ad honorem in giurisprudenza a Mario Draghi. Tra le motivazioni “Ha difeso i principi e i valori dei Trattati dell’Unione Europea e l’interesse pubblico”. Toni pacati e delle grandi occasioni, in una atmosfera di grandi eventi,Bologna la Dotta ha incoronato colui che ha difeso con coraggioso ingegno la razionalità economica di una costruzione comunitaria fondata 20 anni fa su un mercato e una moneta concepiti come obiettivi di cogliere i frutti dell’apertura dell’economia strettamente legati a quelli di attutirne i costi per i più deboli e come recuperare, negli anni delle crescenti disuguaglianze, oggi rappresenti la sfida delle classi dirigenti degne di questo nome.
La lezione magistrale di Mario Draghi si è aperta ricordando che si è celebrato il ventesimo anniversario della nascita dell’euro. Sono stati due decenni molto particolari. Nel primo si è esaurito un ciclo finanziario espansivo globale durato trent’anni; il secondo è stato segnato dalla peggiore crisi economica e finanziaria dagli anni ’30. Da entrambi possiamo trarre utili lezioni, per ciò che occorre ancora fare. L’unione monetaria è stata un successo sotto molti punti di vista. Dobbiamo allo stesso tempo riconoscere che non in tutti paesi sono stati ottenuti i risultati che ci si attendeva, in parte per le politiche nazionali seguite, in parte per l’incompletezza dell’unione monetaria che non ha consentito un’adeguata azione di stabilizzazione ciclica durante la crisi. Occorre ora disegnare i cambiamenti necessari perché l’unione monetaria funzioni a beneficio di tutti i paesi e realizzarli il prima possibile, ma spiegandone l’importanza a tutti i cittadini europei e soprattutto ai nostri giovani.
La globalizzazione ha complessivamente accresciuto il benessere in tutte le economie, soprattutto di quelle emergenti, ma è oggi chiaro che le regole che ne hanno accompagnato la diffusione non sono state sufficienti a impedirne profonde distorsioni. Ma dal 1973 al 1985 la risposta dei governi alla bassa crescita fu di aumentare i deficit di bilancio : i disavanzi pubblici furono in media il 3,5% del PIL nei futuri paesi dell’area dell’euro a 12, il 9% in Italia. Negli stessi paesi la disoccupazione salì in media dal 2,6 al 9,2% e dal 5,9 all’8,2% in Italia. Per rilanciare la crescita, l’Europa aveva già a disposizione uno strumento efficace: il mercato unico che puntava a rilanciare la crescita e l’occupazione. Ma non si esauriva in ciò, perché mirava anche a garantire una rete di protezione capace di sostenere i costi sociali del cambiamento che ne sarebbe inevitabilmente derivato e creava il terreno politicamente più favorevole per far avanzare il processo di integrazione europea, anch’esso reso più arduo dalla crisi degli anni ’70. Fu proprio il progetto del mercato interno-ha ricordato Draghi- che consentì all’Europa, a differenza di quello che accadeva su scala globale, di imporre i propri valori al processo di integrazione, di costruire cioè un mercato che fosse, per quanto possibile, libero ma giusto. La regolamentazione dei prodotti poteva essere utilizzata non solo per tutelare i consumatori dai bassi standard qualitativi vigenti in altri paesi e per proteggere i produttori dalla concorrenza sleale, ma anche per porre un freno al dumping sociale ed elevare gli standard delle condizioni di lavoro.
Per questi motivi il mercato interno si accompagnò, a metà degli anni Ottanta, a un rafforzamento delle regole comuni nella CE e dei poteri di controllo giurisdizionale. All’apertura dei mercati si accompagna la protezione della concorrenza leale con la creazione dell’antitrust; gli standard regolamentari divennero più cogenti, ad esempio con l’obbligo dell’indicazione della provenienza geografica per prodotti alimentari specifici. Le clausole di salvaguardia fondamentali del modello sociale europeo furono progressivamente incorporate nella legislazione comunitaria, nelle aree di competenza di quest’ultima. La Carta dei diritti fondamentali ha impedito una corsa al ribasso dei diritti dei lavoratori. È stata introdotta una specifica legislazione per limitare le pratiche di lavoro scorrette, come è avvenuto ad esempio recentemente con la revisione della direttiva sui lavoratori distaccati. La legislazione europea tutela le persone a maggior rischio occupazionale, come nel 1997 la direttiva sui lavoratori a tempo parziale e a tempo determinato. Un anno fa le istituzioni europee hanno sottoscritto il pilastro europeo dei diritti sociali, riguardante le pari opportunità e l’accesso al mercato del lavoro, l’equità delle condizioni di lavoro, la protezione sociale e l’inclusione.
Circa mezzo milione di lavoratori italiani partecipa ai processi produttivi di imprese che risiedono in altri paesi europei ed esportano nel resto del mondo. Dal canto loro, le imprese italiane partecipano, esse stesse, in misura significativa alle catene di valore, con effetti positivi sulla produttività del lavoro. È spesso attraverso questo legame con le catene di valore che specialmente la piccola-media impresa italiana, caratteristica del nostro sistema produttivo, riesce a sopravvivere e a crescere, conservando al Paese, in un mondo sempre più orientato alle grandi dimensioni, una sua caratteristica fondamentale. L’Italia è attraverso il mercato unico e con la moneta unica, strettamente integrata nel processo produttivo europeo. Fra il 1990 e il 1999, prima dell’introduzione dell’euro, l’Italia registrava il più basso tasso di crescita cumulato rispetto agli altri paesi che hanno aderito fin dall’inizio alla moneta unica. Lo stesso accadde dal 1999 al 2008 sempre rispetto a tutti i paesi dell’area. Dal 2008 al 2017 il tasso di crescita è stato superiore solo a quello della Grecia. E, andando indietro nel tempo, la crescita degli anni ’80 fu presa a prestito dal futuro, cioè grazie al debito lasciato sulle spalle delle future generazioni. La bassa crescita italiana è dunque un fenomeno che ha inizio molti, molti anni prima della nascita dell’euro. Si tratta chiaramente di un problema di offerta, evidente del resto anche guardando alla crescita nelle varie regioni del paese. In assenza di presidi adeguati a livello dell’area dell’euro, i singoli paesi dell’unione monetaria possono essere esposti a dinamiche auto-avveranti nei mercati del debito sovrano. Ne può scaturire nelle fasi recessive l’innesco di politiche fiscali pro-cicliche, producendo così un aggravamento della dinamica del debito, come nel 2011-12.
Sono quindi i paesi strutturalmente più deboli ad avere più bisogno che l’UEM disponga di strumenti che prima di tutto diversifichino il rischio delle crisi e che poi ne contrastino l’effetto nell’economia. Nei paesi, quali l’Italia, giunti alla crisi indeboliti da decenni di bassa crescita e senza spazio nel bilancio pubblico, una crisi di fiducia nel debito pubblico si è trasformata in una crisi del credito con ulteriori pesanti riflessi sull’occupazione e sulla crescita. Una maggiore condivisione dei rischi nel settore privato attraverso i mercati finanziari è fondamentale per prevenire il ripetersi di simili eventi. Negli Stati Uniti circa il 70% degli shock viene attenuato e condiviso tra i vari Stati attraverso mercati finanziari integrati, contro appena il 25% nell’area dell’euro. È perciò interesse anche dei paesi più deboli dell’area completare l’unione bancaria e procedere con la costruzione di un autentico mercato dei capitali. I bilanci pubblici nazionali non perderanno mai la loro funzione di strumento principale nella stabilizzazione delle crisi. Nell’area dell’euro gli shock sulla disoccupazione sono assorbiti per circa il 50% attraverso gli stabilizzatori automatici presenti nei bilanci pubblici nazionali, molto di più che negli Stati Uniti.
L’uso degli stabilizzatori automatici da parte dei paesi dipende, tuttavia, dall’assenza di vincoli connessi al loro livello del debito. Occorre dunque ricreare il necessario margine per interventi di bilancio in caso di crisi. Occorre un’architettura istituzionale che dia a tutti i paesi quel sostegno necessario per evitare che le loro economie, quando entrano in una recessione, siano esposte al comportamento prociclico dei mercati. Ma ciò sarà possibile solo se questo sostegno è temporaneo e non costituisce un trasferimento permanente tra paesi destinato a evitare necessari risanamenti del bilancio pubblico, tantomeno le riforme strutturali fondamentali per tornare alla crescita.
Ogni paese ha la sua agenda, ma è solo con esse che si creano le condizioni per far crescere stabilmente: salari, produttività, occupazione, per sostenere il nostro stato sociale. È un’azione che in gran parte non può che svolgersi a livello nazionale, ma può essere aiutata a livello europeo dalle recenti decisioni di creare uno strumento per la convergenza e la competitività. Per affrontare le crisi cicliche future, occorre che i due strati di protezione contro le crisi – la diversificazione del rischio attraverso il sistema finanziario privato da un lato, il sostegno anticiclico pubblico attraverso i bilanci nazionali e la capacità fiscale del bilancio comunitario dall’altro – interagiscano in maniera completa ed efficiente. Quanto maggiore sarà il progresso nel completamento dell’unione bancaria e del mercato dei capitali, tanto meno impellente, sebbene sempre necessaria, diverrà la costruzione di una capacità fiscale che potrà talvolta fare da completamento agli stabilizzatori nazionali. L’inazione su entrambi i fronti accentua la fragilità dell’unione monetaria proprio nei momenti di maggiore crisi; la divergenza fra i paesi aumenta. L’unione monetaria, conseguenza necessaria del mercato unico, è divenuta parte integrante e caratterizzante, con i suoi simboli e i suoi vincoli, del progetto politico che vuole un’Europa unita, nella libertà, nella pace, nella democrazia, nella prosperità. Le sfide che si sono presentate hanno sempre più carattere globale; possono essere vinte solo insieme, non da soli. Per questo che il nostro progetto europeo è oggi ancora più importante. È solo continuandone il progresso, liberando le energie individuali ma anche privilegiando l’equità sociale, che lo salveremo, attraverso le nostre democrazie, ma nell’unità di intenti. Onore al grande, grandissimo Draghi.
Alessandra Servidori
25 Febbraio 2019
Seminario 18 marzo 2019 Bologna
Si terrà a Bologna, il prossimo 18 marzo 2019, il seminario dal titolo "I diritti delle persone fragili e inabili. Dalla parte del lavoro".
Il seminario - organizzato dal Tavolo interistituzionale sulle malattie professionali, TutteperItalia e il Comune di Bologna - sarà un importante momento di riflessione sui diritti delle persone disabili, oltre che un'occasione per presentare l'accordo di programma tra il Comune di Bologna e il Tavolo interistituzionale.
Il seminario si terrà dalle 9.30 alle 16.30 presso Sala Cappella Farnese, Palazzo D’Accursio, Piazza Maggiore 6, Bologna.
Ricordiamo che aderiscono al Tavolo interistituzionale sulle malattie professionali: Tutteperitalia, Istituto Ramazzini di Bologna, Comune di Bologna, Ceslar (università degli Studi di Modena e Reggio Emilia) e le rappresentanze regionali di INAIL, lINPS, CGIL, CISL e UIL.