Un 8 marzo guardando avanti
Analisi sincera e lucida del documento COMMISSION STAFF WORKING DOCUMENT 2014 Report on equality between women and men- (allegato )
La strategia “Europa 2020” stabilisce l’obiettivo strategico di una crescita intelligente, sostenibile e socialmente inclusiva, basata su alti tassi occupazionali e sostenuta da coesione sociale e territoriale. Queste priorità vengono declinate secondo obiettivi quantitativi da raggiungere entro il 2020, tra cui rilevanti l’obiettivo di un’occupazione al 75% della popolazione di età compresa tra 20 e 64 anni, la riduzione di 20 milioni del numero delle persone che vivono a rischio di povertà e esclusione sociale, la riduzione del tasso di abbandono scolastico dall'attuale 15% al 10% e l’aumento dal 31% al 40% della quota di giovani 30 -34enni laureati. Non crediamo di essere severe se ancora oggi in piena crisi economica non ancora superata la dimensione di genere è decisamente carente nella strategia Europa 2020. Non solo manca un riferimento esplicito alla prospettiva di gender mainstreaming ma, diversamente da quanto stabilito nella precedente Agenda di Lisbona, manca anche un obiettivo occupazionale disaggregato per sesso e, dunque, l’obiettivo quantitativo di occupazione femminile da raggiungere entro il 2020. Diversamente negli orientamenti per le politiche occupazionali, contengono, invece, la raccomandazione di integrare la parità di genere in tutte le politiche e più precisi riferimenti alle misure per le donne Questi orientamenti raccomandano agli Stati di incrementare la partecipazione al mercato del lavoro e l’occupazione femminile, di ridurre il divario salariale di genere e la segmentazione del mercato del lavoro e di migliorare la formazione professionale delle donne nei settori scientifico, matematico e tecnologico.
Negli orientamenti per combattere la povertà si raccomandano strategie di inclusione attiva e modernizzazione dei sistemi di protezione sociale con previsione di misure di sostegno al reddito e servizi adeguati per i gruppi più vulnerabili tra cui, in particolare, le donne e le famiglie monoparentali. L’inclusione nell’Agenda Europa 2020 dell’ obiettivo strategico della riduzione della povertà sembrerebbe suggerire una sensibilità nuova verso gli obiettivi sociali conformemente alla rilevanza che essi hanno acquisito nel Trattato di Lisbona che, pur senza alcun significativo trasferimento di competenze all’UE, fa riferimento all’art.3 all’economia sociale di mercato e include all’ art.9 la cosiddetta clausola sociale orizzontale che dovrebbe permettere di promuovere la dimensione sociale in tutte le politiche dell’Unione .Gli aspetti centrali dell’Agenda Europa 2020 e le linee guida occupazionali si situano in continuità con l’Agenda di Lisbona e la precedente Strategia Europea per l’Occupazione (SEO), in particolare rispetto alle politiche di flessibilizzazione del mercato del lavoro nella convinzione che ciò avrebbe incentivato la creazione di posti di lavoro. La Seo allo scopo di aumentare l’occupazione femminile, nelle linee guida hanno raccomandato un insieme di politiche per rimuovere gli ostacoli alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro e promuovere la conciliazione di responsabilità familiare e lavorative tramite congedi parentali, servizi di cura per bambini e anziani e l’incentivazione della flessibilità di contratti, tempi e condizioni lavorative. Mentre incentivava lo sviluppo di contratti di lavoro flessibili e atipici di cui le donne son state le prime destinatarie, la Commissione europea ha raccomandato di evitare l’eccessiva precarizzazione del lavoro e di assicurare un equilibrio tra flessibilità del mercato e sicurezza dei lavoratori/trici, tramite adeguamento e modernizzazione dei sistemi di sicurezza sociale e politiche attive del mercato del lavoro accompagnate da adeguate politiche di formazione, istruzione, servizi sociali. Noi sappiamo bene che le politiche occupazionali sono di competenza nazionale così come lo sono quelle relative ai sistemi di sicurezza sociale rispetto a cui l’UE si limita solo a stabilire degli standard minimi. Sotto la pressione congiunta dei tagli della spesa pubblica e delle riduzioni dei contributi per aumentare la competitività delle imprese, tutti i sistemi previdenziali hanno subito la competizione tra gli stati membri nelle riforme al ribasso. Da qui il diffuso squilibrio tra flessibilità e sicurezza e la diffusa precarizzazione del lavoro, innanzi tutto di donne e giovani. Siamo ben consapevoli che la combinazione degli effetti della crisi economica e di quelli indotti dalle politiche di austerità messe in atto dai governi e in larga parte indotte dall’Unione Europea ha contribuito a rivelare a pieno i limiti della governance europea, acuendo le tensioni già presenti nelle politiche dell’Agenda di Lisbona e della SEO e aggravando lo squilibrio tra flessibilità e sicurezza, tanto più che le politiche dell’UE hanno messo al primo posto la riduzione del deficit e del debito pubblico e e non proprio mettendo in evidenza la necessità di politiche per rilanciare crescita economica e domanda di lavoro. Nel settore pubblico le politiche di austerità hanno determinato blocco delle assunzioni o tagli di personale, tagli o congelamento dei salari, riduzione dei servizi. Tutto ciò ha colpito particolarmente le donne con l’aumento del carico di lavoro di cura privato e la perdita di posti lavoro, rappresentando le lavoratrici il 70% dei dipendenti pubblici (media UE-27). Un quadro della gravità dell’impatto della crisi e delle politiche di austerità si può dedurre la riduzione dei gender gap che il Report registra rispetto al tasso di occupazione, disoccupazione, inattività e alle retribuzioni, è ,infatti, il risultato molto più del peggioramento delle condizioni degli uomini che del miglioramento di quelle delle donne. Nella crisi la disoccupazione è aumentata sia per le donne che per gli uomini.In conseguenza del fatto che sono stati più duramente colpiti settori a prevalenza maschile come l’industria e l’edilizia, gli stati in cui la disoccupazione maschile supera quella femminile Ci si deve però aspettare che la disoccupazione femminile subisca nuovi aumenti dal momento che ulteriori tagli di personale nel settore pubblico sono programmati per il futuro in vari stati. Mentre l’occupazione maschile (20-65 anni) è diminuita passando dal 77,7 % del 2007 al 74,5% nel gennaio 2014, l’occupazione femminile è un po’ aumentata passando dal 62,1% al 63%, rimanendo però di ben 12 punti percentuali inferiore a quella maschile, differenza che diventa di 25 punti percentuali se si considerano i tassi occupazionali di genitori di bambini piccoli. Nella crisi disoccupazione e occupazione femminile sono entrambe aumentate perché molte donne sono entrate nel mercato del lavoro per compensare la perdita di lavoro o la riduzione del salario degli uomini. Tuttavia le donne costituiscono ancora i 2/3 dei 63milioni di inattivi nell’UE anche se il gender gap nei tassi di inattività si è ridotto rispetto al 2007 di più di 2 punti percentuali essendo cresciuta pure l’inattività maschile. Se le donne non svolgono più il ruolo di maggiori vittime nel mercato del lavoro come durante le passate crisi economiche, essendo questo ruolo svolto oggi dai giovani, è vero che la grande crescita del part-time involontario durante la crisi nasconde vere e proprie forme di parziale disoccupazione. Per quanto riguarda il tasso di occupazione femminile esso potrà esser raggiunto solo nel 2038 e ci vorranno più di 70 anni per chiudere il gap retributivo tra uomini e donne che nel 2014 è nella media UE di 16 punti percentuali (nel 2010 era di 18 punti). E’ poi incalcolabile il tempo entro cui si potrebbe annullare il gap nelle pensioni medie che è di ben 39 punti percentuali. Sono infatti soprattutto le pensionate over 65, insieme con le madri singole e le immigrate, a esser le più rappresentate tra i gruppi a rischio povertà ed esclusione sociale (il 26,9% di donne è a rischio povertà nell’UE-27 a fronte del 24,8% di uomini la cui povertà è comunque aumentata, ossia 12 milioni di donne in più degli uomini). Lontano dal diminuire secondo gli obiettivi dell’agenda “Europa 2020”, la popolazione a rischio povertà è infatti aumentata di circa 6 milioni di unità arrivando a includere il 24,2% dei nuclei familiari dell’UE. Dunque la valutazione d’impatto di genere e la prospettiva di gender mainstreaming sono per lo più deficitarie (con la parziale eccezione di pochi stati quali l’Austria, l’Olanda o la Finlandia) nei Programmi Nazionali di Riforme che la Commissione Europea valuta e monitora nel quadro del Semestre Europeo. Noi in Italia con le recenti leggi delega sulla occupabilità e conciliazione e congedi sia nel pubblico che nel privato qualche miglioramento lo possiamo almeno far valere. Però è ancor più grave che, nelle Country Specific Recommendations che la Commissione invia agli stati, la prospettiva di genere sia stata assente o marginale, per lo più ridotta a delle raccomandazioni specifiche per aumentare l’occupazione femminile attraverso politiche di conciliazione, quando, invece, uno studio di alcune esperte indicava ben 83 indicatori per l’inclusione della prospettiva di genere nella valutazione della Strategia Europa 2020 nel quadro del Semestre europeo. Le raccomandazioni agli stati membri sulla promozione dell’occupazione e della partecipazione femminile al mercato del lavoro, accompagnate da raccomandazioni rispetto alla disponibilità di asili nido e di servizi per gli anziani e alla riduzione dei disincentivi fiscali al lavoro delle donne,i risultano difficili da seguire dal momento che, in forza dei tagli nella spesa pubblica, la disponibilità di posti nei nidi e nelle scuole materne è, come s’è detto, diminuita in vari paesi e il principio di sussidiarietà tra pubblico e privato è ancora poco agito. Ancora una volta la lotta alla povertà femminile è declinata solo come rimozione delle barriere alla partecipazione al mercato del lavoro, con una tendenziale identificazione tra inclusione sociale attiva e inclusione nel mercato del lavoro, tra misure sociali antipovertà e workfare, particolarmente svantaggiosa per le donne e per le persone che non possono lavorare. A fronte della marginalità della dimensione di genere nelle politiche di riforma degli stati membri, hanno rappresentato poca cosa e poco hanno potuto i progetti specifici per le donne finanziati dal programma Strategy for Equality between Women and Men 2010-2015, e i 3,2 miliardi destinati nella programmazione 2007-13 dei Fondi Strutturali alla promozione della partecipazione femminile al mercato del lavoro e dei servizi per l’infanzia nei 27 paesi membri. La crisi economica e le politiche di austerità hanno contribuito a rendere difficilmente raggiungibili gli obiettivi occupazionali e di lotta alla povertà dell’Agenda 2020 e a far scivolare ai margini l’uguaglianza delle donne e la dimensione di gender mainstreaming, nonostante esse figurino nel Trattato tra i valori fondanti e tra gli obiettivi che l’UE si impegna a perseguire (artt. 2 e 3.3 TUE). E’ indicativo dello scarso rispetto dell’UE per i diritti il fatto che questi sviluppi si siano verificati proprio quando ha acquisito valore vincolante la Carta dei diritti fondamentali dell’UE che stabilisce all’art. 23 che la parità uomo donna deve essere assicurata in tutti i campi e costituisce il fondamento dell’integrazione della prospettiva di genere in ogni area e riconosce, agli artt. 30-36, tutti i diritti sociali, dal diritto a giuste condizioni di lavoro, al diritto ai congedi di maternità e parentali, al diritto alle prestazioni di sicurezza sociale e all’assistenza sociale e abitativa per coloro che non dispongano di risorse sufficienti.
Il Parlamento Europeo ha comunque approvato le misure di austerità che hanno aggravato la crisi economica e sociale,ha respinto il rapporto Zuber sulla parità di genere nell’Unione Europea che denunciava l’impatto fortemente negativo per le donne delle politiche di austerità. Inoltre, in materia di parità in ambito lavorativo e sociale nessuna nuova direttiva è stata approvata, se si escludono la direttiva, frutto solo dell’Accordo quadro tra le parti sociali, che porta a 4 mesi la durata dei congedi parentali (2010/18/UE), la direttiva sull’uguaglianza e la tutela della maternità delle lavoratrici autonome (2010/41) e la proposta di direttiva in via d’approvazione che prevede che, entro il 2020, ci sia una presenza del 40% di donne nei consigli di amministrazione delle società quotate in borsa con più di 250 dipendenti. Solo nel mese di Marzo 2014, la Commissione Europea ha approvato, dopo lunga pressione da parte del PE, una Raccomandazione – non vincolante - per rafforzare il principio della parità retributiva tra uomini e donne attraverso una migliore trasparenza di categorie e sistemi salariali. Nessun seguito hanno avuto invece la richiesta del PE alla Commissione di proporre una legge quadro che preveda l’istituzione di un reddito minimo garantito, come diritto fondamentale della persona ad una vita dignitosa, e la proposta di direttiva migliorativa della normativa esistente sui congedi di maternità il cui iter legislativo è bloccato da anni per l’opposizione di alcuni governi e delle organizzazioni imprenditoriali. La responsabilità di questi sviluppi, dunque, non è solo del PE ma chiama in causa il processo di decision-making comunitario in cui l’iniziativa legislativa rimane sostanzialmente di competenza della Commissione. Ma sono chiamate in causa soprattutto la mancanza di autonomia mostrata dalla Commissione rispetto ai poteri intergovernativi del Consiglio Europeo e l’indebita estensione informale dei poteri di quest’ultimo che hanno contribuito a ridurre gli spazi democratici e a logorare la legittimità democratica dell’UE. Superare l’attuale crisi di legittimità democratica è condizione indispensabile per ridare vitalità alla costruzione europea e promuovere politiche per la ripresa economica a livello europeo, in uno con la rivitalizzazione delle politiche di pari opportunità tra uomini e donne che tanto importanti sono state nello sviluppo della Comunità europea. Non si può dare fuoriuscita dalla crisi economica senza politiche europee di crescita e sviluppo dell’occupazione, in particolare di quella femminile. Come la stessa Commissione Europea riconosce, per la ripresa economica è cruciale la piena utilizzazione del lavoro e delle professionalità delle donne, tanto più che esse rappresentano oggi il 59% dei laureati e il 46% dei dottorati dell’UE. Per raggiungere l’obiettivo dell’agenda Europa 2020 di una crescita economica intelligente, sostenibile e inclusiva è indispensabile rilanciare la prospettiva di genere e la piena valorizzazione del potenziale umano delle donne per un diverso modello di sviluppo fondato sull’innovazione sociale, sugli investimenti nei servizi di cura per le persone e nella tutela dei diritti e dell’ambiente. Così come, al fine di promuovere politiche di welfare e rispetto dei diritti fondamentali a livello europeo, è indispensabile contrastare l’estensione dei poteri intergovernativi, ridare alla Commissione il suo ruolo compiutamente sovranazionale di equidistanza dai governi e sostenere l’affermazione all’interno del PE di posizioni politiche di equità sociale e di genere.
Alessandra Servidori
8 marzo 2015