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LETTERA APERTA ALLE DONNE Alessandra Servidori- Presidente nazionale TUTTEPERITALIA-Lettera aperta ad alcune donne amiche e... Read more
INNOVAZIONE E PARI OPPORTUNITÀ a cura di Alessandra Servidori Studiose insieme contro il Virus e oltre                  Nuova professionalità Giugno 2020    INNOVAZIONE E PARI OPPORTUNITÀa cura di... Read more
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Astuccio sulle patologie oncologiche, invalidanti, ingravescenti Pubblichiamo il pdf dell'astuccio/opuscolo sulle patologie oncologiche, invalidanti,... Read more
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No,Vasco Rossi no Alessandra Servidori      no Vasco Rossi no  Rimango perplessa, molto perplessa e anche... Read more
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Sostegno ai familiari dei disabili Alessandra Servidori Vaccinazione obbligatoria per il personale di nidi   e sostegno ai... Read more
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PILLOLE di STABILITA' -11 Gennaio 2016     PROF .ALESSANDRA SERVIDORI  -  DIRETTORE CESLAR-UNIMORE Pillole LEGGE DI STABILITA’  Sono... Read more

Dottoresse in prima linea. Ma non solo

Dottoresse in prima linea. Ma non solo.

https://www.ilvaloreitaliano.it/le-dottoresse-in-rivolta-a-napoli-qui-non-esistono-signorine/

Curioso e allo stesso tempo interessante il caso scoppiato all’ Ospedale San Giovanni di Dio di Frattamaggiore, di competenza dell’Asl Napoli 2 Nord, dove é in corso una vera e propria battaglia contro il gender gap da parte delle dottoresse, stufe di sentirti chiamare ‘signorine’ dai pazienti che così si rivolgono a loro lungo i corridoi o negli studi quando richiedono specifiche. Possibile, dicono esauste, che negli stessi corridoi i colleghi uomini debbano essere chiamati dottori mentre la nostra professione non emerga e venga messa in secondo piano solo perché siamo donne? A detta delle dottoresse, che hanno deciso di affiggere sulla porta dell’ambulatorio un cartello singolare: “In questi ambulatori non esistono ‘signorine’ ma le dottoresse”, si tratta di atteggiamento sessista di alcuni pazienti.

La tematica é delicata e non é la prima volta che le donne sottolineano un arretratezza culturale in ambito professionale ed accademico. Ricordate, in questo caso con atteggiamento opposto, il caso della direttrice d’orchestra di Sanremo, Beatrice Venezi che aveva esplicitamente chiesto, creando non poche polemiche sul palco dell’Ariston, di essere chiamata direttore e non direttrice. La motivazione era stata per chi non la ricordasse: “Per me contano altre cose: la preparazione, il modo in cui si fanno le cose. La mia professione ha un nome che é ‘direttore d’orchestra’.

Ma cosa si era nascosto dietro al suo desiderio, si erano chiesti in molti dato il dibattito infuocato che ne era emerso sui social e sui media, annientare l’ipocrisia del politically correct ad ogni costo, oppure far intendere tra le righe che il titolo é autorevole solo se al maschile?

Il linguaggio se ben utilizzato e con le giuste declinazioni al femminile può essere effettivamente uno strumento potente per scardinare antichi stereotipi di genere? Su tale questione, data la sua competenza, abbiamo deciso di interfacciarci con la Professoressa Alessandra Servidori, docente, esperta di  welfare, politiche attive del lavoro e diritto antidiscriminatorio, nonché Presidente Nazionale Associazione TutteperItalia, che ringraziamo per la gentile disponibilità. Eccovi le sue parole sul caso dell’ospedale di Napoli, corretto l’atteggiamento ‘simbolico’ messo in atto dalle dottoresse?

Napoli, le dottoresse si ribellano: ‘Qui non esistono signorine’

Così la Servidori: “La scelta delle dottoresse dell’ospedale napoletano è comprensibile e comunque è utile per approfondire un atteggiamento molto comune che segna anche una arretratezza culturale in ambito professionale e accademico. Promuovere l’uso di un linguaggio non discriminatorio e attento alle differenze di genere nella comunicazione istituzionale, nei documenti e negli atti amministrativi, negli eventi pubblici e nella quotidianità accademica e sociale è ancora complicato.

Il linguaggio è uno degli ambiti in cui si producono e si perpetuano stereotipi e pregiudizi di genere e, al contempo, chi scrive è convinta che il linguaggio può essere strumento potente per scardinare antiche consuetudini, sostenere il cambiamento e, nel caso specifico, promuovere una cultura più equa e meno asimmetrica, che riconosca e valorizzi in  pari misura la presenza e i ruoli di donne e uomini in ciascun ambito della sanità  e, più in generale, nella vita accademica e  comunemente sociale.

Il linguaggio non è mai uno strumento neutro, perché dà forma e voce al modo in cui gli esseri umani pensano, interpretano la realtà e agiscono nel mondo. Più o meno consciamente, le parole che usiamo possono veicolare e rafforzare asimmetrie, preconcetti e iniquità, oppure possono esprimere l’affermazione di diritti e articolare concetti complessi quali l’esigenza di promuovere la parità nel rispetto delle differenze.

Il linguaggio burocratico-amministrativo e della comunicazione istituzionale, la rappresentazione del genere femminile e, più in generale, dei generi, è stata e continua a essere un problema e una sfida. Negli atti normativi, nei verbali delle commissioni, nei documenti amministrativi e istituzionali si usa costantemente una lingua androcentrica: il maschile è il genere grammaticale dominante, sia al plurale che al singolare, anche in testi che riguardano una persona di sesso femminile o che non si identifica con il genere maschile.

Anche voci autorevoli dell’Accademia della Crusca, che continua a essere il maggior punto di riferimento della linguistica e filologia italiana, invitano a rappresentare donne e uomini con nomi declinati coerentemente al femminile  e al maschile.

Ma nell’ambulatorio ci sono davvero solo dottoresse? Signorine non é offensivo

Detto ciò sicuramente nel contesto  in oggetto  NON si può escludere che nell’ambulatorio lavorino anche altre figure femminili che non sono in possesso di titolo accademico e professionalmente, comunque, elevato e il termine usato comunemente dai pazienti non è offensivo per nessuno.

In questo caso se il cartello è relativo solo al ruolo delle dottoresse può essere limitativo e  offuscare le altre professionalità femminili : non mi pare corretto.

Proprio in questi giorni la Francia mette al bando la scrittura inclusiva cioè quel metodo assunto in piena rivoluzione femminile usato in molti paesi occidentali per promuovere l’uguaglianza di genere alternando nella lettura e nella scrittura un punto mediano cioè un segno e il Ministro dell’Istruzione con circolare stabilisce che è bandito tale metodo perché confonde la lettura e la scrittura e il maschile è assunto (ri/assunto) come una forma neutra adatta sia agli uomini che alle donne.

In Italia la questione  avanza e  nella prossima pubblicazione la casa editrice Effequ ha deciso di sostituire il maschile generico con un asterisco, dunque una opzione grafica per indicare “un neutro” a fronte di tante professioniste che però si rifiutano di femminilizzare il proprio titolo. Ma la scrittura inclusiva in effetti è il contrario di quello che afferma di se stessa perché esclude la lingua dalla sua stessa storia, dal suo passato, dalla sua tradizione, dalla sua logica. Non è la strada giusta.

Molti  cambiamenti non si possono definire ‘spontanei’, ma sono chiaramente frutto di una precisa azione socio-politica. Vi  l’incertezza di fronte all’uso di forme femminili nuove rispetto a quelle tradizionali maschili (è il caso di ingegnera), la presunta bruttezza delle nuove forme (ministra proprio non piace!), o la convinzione che la forma maschile possa essere usata tranquillamente anche in riferimento alle donne.

Ma maestra, infermiera, modella, cuoca, nuotatrice, ecc. non suscitano alcuna obiezione: anzi, nessuno definirebbe mai Federica Pellegrini nuotatore. Le resistenze all’uso del genere grammaticale femminile per molti titoli professionali o ruoli istituzionali ricoperti da donne sembrano poggiare su ragioni di tipo linguistico, ma in realtà sono,  di tipo culturale; mentre le ragioni di chi lo sostiene sono apertamente culturali e, al tempo stesso,  anche fondatamente linguistiche.

Vero è che le resistenze all’uso di un linguaggio inclusivo del genere femminile non sono quindi giustificabili con motivazioni di tipo grammaticale, ma sono piuttosto riconducibili a una resistenza di tipo culturale ad adeguare la lingua ai cambiamenti di status sociale delle donne.  Pare utile e soprattutto educativo e formativo, denominare le professioniste con il loro titolo a volte declinabile al femminile naturalmente oppure anticiparlo con l’appellativo signora.

Si ricorda che nel marzo 2015, presso il Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, venne costituito un gruppo di esperte ed esperti in materia, con lo scopo di predisporre delle linee guida e sensibilizzare all’uso di un linguaggio rispettoso delle differenze di genereil progetto rientra nelle azioni previste dal Piano di azioni straordinario contro la violenza sessuale e di genere (decreto legge n. 93 del 14 agosto 2103, convertito nella legge n. 119 del 15 ottobre 2013). Linee guida dunque, non obbligatorie“.

Ringraziamo di cuore la Professoressa Alessandra Servidori per aver accolto in nostro invito e per averci fornito interessanti spunti di riflessione, confidiamo di poterla avere ancora come gradita ospite su ‘Il Valore Italiano ‘.

 

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