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Editoriali

La Ue alla prova dei fatti

QUI EUROPA www.ildiariodellavoro.it 

La Ue alla prova degli impegni assunti

 

 

Il 28 gennaio prossimo la Commissione Europea dovrà approvare il regolamento dell’Istituzione del programma di sostegno alle riforme - EMPL/9/00330; a questo proposito sarà importante tenere conto delle indicazioni lasciate in eredità dalla precedente Commissione in base all’esperienza sviluppata e guardando allo sviluppo della programmazione e l’utilizzo delle risorse. La proposta della Commissione Juncker -qui sinteticamente esposta- prevede una data di applicazione a decorrere dal 1° gennaio 2021 ed è indirizzata a un’Unione di 27 Stati membri, in linea con la comunicazione da parte del Regno Unito dell’intenzione di ritirarsi dall’Unione Europea e dall’Euratom ai sensi dell’articolo 50 del trattato dell’Unione Europea, pervenuta al Consiglio europeo in data 29 marzo 2017.

Le riforme strutturali sono cambiamenti che modificano, in modo duraturo, la struttura dell’economia e il quadro istituzionale e normativo entro il quale le imprese e le persone operano. Il loro scopo spesso è quello di affrontare gli ostacoli al buon andamento dei motori della crescita attraverso la riorganizzazione, ad esempio, dei mercati del lavoro, dei prodotti e dei servizi e dei mercati finanziari, in modo da incoraggiare la creazione di posti di lavoro, gli investimenti e la produttività. Possono anche mirare al miglioramento dell’efficienza e della qualità della pubblica amministrazione, nonché dei servizi e dei benefici offerti dallo Stato ai propri cittadini. Se accuratamente scelte e attuate, le riforme strutturali possono accelerare il processo di crescente convergenza sociale ed economica tra gli Stati membri, sia all’interno che all’esterno della zona euro, e rafforzare la resilienza delle loro economie. Gli effetti di tale convergenza e del rafforzamento della resilienza potrebbero portare a una maggiore prosperità e a un funzionamento stabile e regolare dell’Unione economica e monetaria (UEM) nel suo insieme. L’attuazione efficace delle riforme strutturali è necessaria al fine di migliorare la coesione, aumentare la produttività, creare posti di lavoro, incentivare gli investimenti e garantire una crescita sostenibile.

Nell’ultimo decennio l’economia europea è cresciuta a una velocità mai vista prima, sostenuta da un elevato tasso di occupazione, dal recupero degli investimenti e dal miglioramento delle finanze pubbliche. L’attuale situazione economica dell’Unione è relativamente positiva e questo offre l’opportunità di mettere in atto numerose riforme necessarie. Tuttavia, l’attuazione delle riforme è avanzata lentamente e in modo disomogeneo tra gli Stati membri e non è stata soddisfacente in tutti i settori, con impatti negativi sulla convergenza e sulla resilienza delle economie degli Stati membri dell’Unione europea e, di conseguenza, dell’Unione nel suo insieme. In questo contesto, compiere progressi nell’attuazione delle riforme negli Stati membri non appartenenti alla zona euro sulle modalità della loro adesione alla zona euro potrebbe avere un impatto positivo su quest’ultima nel suo insieme. Pertanto, l’attuazione delle riforme negli Stati membri che si stanno muovendo verso l’adozione della moneta unica merita particolare attenzione. 

Una delle ragioni a cui si deve la lenta attuazione delle riforme è la scarsa capacità amministrativa. Un’altra ragione risiede nel fatto che i benefici delle riforme strutturali si concretizzano il più delle volte solo nel lungo termine, mentre i costi economici, sociali e politici che ne derivano spesso vanno sostenuti a breve termine. I governi nazionali possono pertanto decidere di astenersi dal portare avanti determinate riforme a causa, ad esempio, di un’insufficiente capacità amministrativa di condurre riforme, degli alti costi politici a breve termine o degli effetti negativi su alcuni segmenti della popolazione. I governi che decidono di intraprendere un processo di riforma in alcuni casi non assistono ai risultati finali, in quanto la durata di un ciclo elettorale è spesso più breve del tempo necessario per l’attuazione di riforme maggiori. La conseguenza di ciò è che le riforme necessarie vengono spesso posticipate, abbandonate o persino cancellate.

La Commissione Juncker, basandosi sulla visione esposta nella relazione dei cinque presidenti, ha concentrato le priorità della Commissione nel processo del semestre europeo sul “triangolo virtuoso”: incentivare gli investimenti, perseguire riforme strutturali e garantire politiche fiscali responsabili. Al fine di promuovere le riforme strutturali, il discorso sullo stato dell’Unione 2017 del presidente Juncker, insieme ai documenti di riflessione sull’approfondimento dell’Unione economica e monetaria e sul futuro delle finanze dell’UE,ha suggerito di attenersi al programma di sostegno alle riforme strutturali (SRSP) della Commissione, proponendo uno strumento dedicato, lo strumento per la realizzazione delle riforme, per fornire incentivi finanziari agli Stati membri volti all’attuazione delle riforme. 

Il raggiungimento di una maggior convergenza verso strutture economiche resilienti è stato considerato altrettanto importante per gli Stati membri che si preparano all’adesione alla zona euro.Questi orientamenti politici si sono concretizzati in una comunicazione della Commissione sui nuovi strumenti di bilancio per una zona euro stabile nel quadro dell’Unione (6 dicembre 2017). La comunicazione ha proposto la creazione, nell’ambito del quadro finanziario pluriennale post 2020 (QFP) 1 , di uno strumento per la realizzazione delle riforme volto a sostenere la messa in atto delle riforme individuate nel contesto del semestre europeo e lo svolgimento di un programma di follow-up dell’SRSP, e che avrebbe previsto anche uno strumento di convergenza dedicato a sostenere la preparazione all’adesione alla zona euro.

La comunicazione della Commissione su un nuovo e moderno QFP post 2020 2 , elaborata in vista della riunione informale dei leader del 23 febbraio 2018, ha confermato tale intenzione annunciando che lo strumento per la realizzazione delle riforme e lo strumento di convergenza dovrebbero fornire un forte sostegno e incentivi a un’ampia gamma di riforme in tutti gli Stati membri. Ha inoltre indicato la presenza di una linea di bilancio per tutti gli strumenti, nell’ordine di almeno 25 miliardi di euro nel corso di un periodo di sette anni.Per ultima, la comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni “Un bilancio moderno al servizio di un’Unione che protegge, che dà forza, che difende - Quadro finanziario pluriennale 2021-2027”  del 2 maggio 2018 ha confermato questa scelta. Ha annunciato un nuovo e potente programma di sostegno alle riforme, che offrirà assistenza tecnica e sostegno finanziario alle riforme a livello nazionale con un budget complessivo di 25 miliardi di euro. 

Questo nuovo programma sarà distinto ma complementare ai futuri fondi dell’Unione definiti dal regolamento (UE) XXX/xxx (successore del CPR).In questo contesto, la Commissione propone un nuovo programma di sostegno alle riforme (il programma), comprensivo di tre strumenti distinti e complementari: (i) lo strumento per la realizzazione delle riforme, sotto forma di strumento di sostegno finanziario; (ii) un programma di follow-up dell’SRSP, sotto forma di strumento di assistenza tecnica; e (iii) uno strumento di convergenza, per fornire sostegno specifico e mirato agli Stati membri non appartenenti alla zona euro (chiamato anche “strumento di convergenza”). Il programma mira pertanto a sostenere i governi e le autorità pubbliche degli Stati Membri, laddove venga richiesta assistenza tecnica o presentate proposte di impegni di riforma, negli sforzi compiuti per progettare e attuare riforme strutturali a sostegno della crescita. In questo modo, intende contribuire all’obiettivo generale di rafforzare la coesione, la competitività, la produttività, la crescita e l’occupazione. Ciò potrebbe avere un impatto positivo anche sulla realizzazione del pilastro europeo dei diritti sociali.

Per il conseguimento di tali obiettivi, il programma dovrà fornire incentivi finanziari sufficienti a compiere riforme di natura strutturale e assistenza tecnica che rafforzi la capacità amministrativa degli Stati membri di fronte alle sfide affrontate dalle istituzioni, dalla governance, dalla pubblica amministrazione e dai settori economici e sociali. Tenendo conto di questo proposito, assistenza tecnica mirata e incentivi finanziari saranno a disposizione di tutti gli Stati membri, ivi compresi nell’ambito dello strumento di convergenza quegli Stati membri la cui moneta non è l’euro e che abbiano compiuto passi dimostrabili verso l’adozione della moneta unica entro un determinato periodo di tempo.

Testo integrale Proposta di REGOLAMENTO DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO che istituisce il programma di sostegno alle riforme COM/2018/391 final - 2018/0213 (COD)

Alessandra Servidori

Vero le elezioni regionali : ebbene sì avanti con il merito e la democrazia

Appello a  sostegno di Giuliano Cazzola capolista di +Europa, Pri, Psi per Bonaccini, nelle elezioni regionali del 26 gennaio 2020

 Giuliano Cazzola è da anni uno dei difensori più appassionati e rigorosi dell’ancoraggio europeo dell’Italia e uno degli avversari più intransigenti della vulgata sovranista, che ha contagiato larga parte di quell’elettorato popolare e moderato, di cui pure Cazzola è stato nella sua storia recente un riconosciuto rappresentante politico e istituzionale.

Da sindacalista, dirigente pubblico e studioso, in particolare, del welfare e della previdenza non ha mai esitato a difendere l’esigenza di riforme del mercato del lavoro e del sistema pensionistico, spesso in posizioni orgogliosamente minoritarie,  che lo hanno esposto anche a rischi personali, oltre che a un’ostilità diffusa.

Sul tema del rapporto con le regole e le scelte europee in materia di governance economica, disciplina di bilancio e regolamentazione dei mercati, Cazzola ha dimostrato lo stesso rigore e la medesima intransigenza nel contrastare quell’irresponsabile disegno antieuropeo, che è divenuto il connotato prevalente ed inquietante di larga parte della politica italiana.

Oggi, in coerenza con la battaglia di tutta una vita, Giuliano Cazzola è il candidato capolista di +Europa, Pri e Psi, a Bologna, per le elezioni della sua regione, l’Emilia Romagna, che negli anni recenti ha fatto buon uso, nell’interesse delle comunità amministrate, di tutti i vantaggi offerti dall’integrazione europea a un’economia dinamica e a istituzioni politiche efficienti.

Questa coalizione di forze laiche, libertarie e progressiste potrebbe forse rappresentare il nucleo di una nuova unità d'azione di tutti coloro che si oppongono alla deriva sovranista dei nostri giorni.

Noi sottoscrittori di questo appello, che lo stimiamo e che abbiamo condiviso, con lui, tante comuni esperienze, esprimiamo il nostro sostegno alla candidatura di Giuliano Cazzola per quello che può rappresentare sia in Emilia Romagna sia sul piano nazionale, dove servono voci e menti libere e coraggiose come la sua, per fermare e sconfiggere la deriva sovranpopulista, che tenta di resuscitare quei disvalori che, con ottimismo risultato eccessivo, consideravamo espulsi per sempre dalla storia dell’Europa.

 

Roberto Alvisi,  associazionismo volontario per la disabilità

Alessandro Barbano, giornalista e scrittore

Paolo Biffis, già docente universitario

Margherita Boniver, già ministro e sottosegretario di Stato

Marco Cianca, giornalista

Luigi Covatta, direttore di Mondoperaio

Franco Debenedetti, imprenditore, già parlamentare

Alessandro De Nicola, avvocato

Rosa Filippini, ambientalista

Elsa Fornero, economista, già ministro

Walter Galbusera, Fondazione Anna Kuliscioff

Michele Magno, opinionista e saggista

Massimo Mascini, giornalista

Mariangela Pani, giornalista

Gianfranco Parenti, tecnico aziendale, già assessore Comune di Bologna

Nunzia Penelope, giornalista

Fabio Alberto Roversi Monaco, Magnifico Rettore Alma Mater dal 1985 al 2000

Giorgio Santini, già senatore e leader sindacale

Alessandra Servidori, presidente nazionale di TutteperItalia

Serena Sileoni, docente universitaria

Carlo Stagnaro, opinionista e saggista

Carlo Tognoli, già sindaco di Milano e ministro

Santo Versace, imprenditore nel made in Italy, già deputato

Sandra Zinelli, imprenditrice

Politiche per la famiglia e Il Lavoro....

 

ALESSANDRA SERVIDORI   POLITICHE PER LA FAMIGLIA E  IL LAVORO  www,il sussidiario.net 

Siamo in una recessione demografica che si sta cronicizzando, con conseguenze di medio e lungo periodo peggiori di quella economica. Gli squilibri della popolazione italiana sono arrivati a livello tale che siamo il primo Paese in Europa che ha visto scendere i nuovi nati sotto il numero degli attuali ottantenni. C’è un dato particolarmente allarmante che spesso sfugge: vero è che vi sono motivi di carattere economico nella denatalità (famiglia che mantiene i giovani nel nucleo, mancanza di abitazioni per coppie, un mercato del lavoro che chiede figure professionali poco reperibili, mancanza di flessibilità lavorativa per le madri, pochi servizi), ma non vanno sottovalutati altri aspetti importanti che attengono agli stili di vita e a processi culturali consolidati che non si modificano con interventi di sostegno. Il fenomeno della denatalità è in parte dovuto agli effetti “strutturali” indotti dalle significative modificazioni della popolazione femminile in età feconda, convenzionalmente fissata tra 15 e 49 anni.

In questa fascia di popolazione, le donne italiane – sottolinea l’Istat – sono sempre meno numerose e – aggiungiamo – la fertilità maschile è drasticamente in calo. Secondo il Registro Nazionale sulla Procreazione Medicalmente Assistita dell’Istituto superiore di Sanità, tra le coppie che si rivolgono ai centri specializzati per avere un figlio, la percentuale di uomini infertili è del 29,3% e l’età non rappresenta l’unico fattore responsabile. Negli uomini italiani in generale viene riportato che il numero dei gameti è diminuito del 50% rispetto al passato. A nuocere sulla qualità degli spermatozoi (aumentando quindi il rischio infertilità) ci sono spesso le condizioni lavorative: quelle che espongono a radiazioni, a sostanze tossiche o a microtraumi. Influiscono negativamente anche gli inquinanti prodotti dal traffico urbano e il fumo di sigaretta.

Per far fronte a questo grave problema, quel che soprattutto serve all’Italia, più che togliere o aggiungere bonus e singole misure, è un approccio diverso, un cambio di paradigma sul modo in cui sono intese le politiche per le nuove generazioni e le scelte familiari. Con la capacità di produrre un impatto trasformativo sulla vita delle persone e sulle varie dimensioni del benessere sociale. Questo significa far diventare le politiche familiari parte centrale delle politiche di sviluppo del Paese: non solo per la denatalità, ma anche per ridurre le diseguaglianze e per una più solida crescita. Promuovendo l’autonomia dei giovani e rafforzando gli strumenti di conciliazione tra lavoro e famiglia si mettono i cittadini nelle condizioni di realizzare meglio i propri obiettivi di vita, e le famiglie con figli di proteggersi dal rischio povertà. A livello collettivo si riducono gli effetti dell’invecchiamento della popolazione, si rafforza la crescita economica aumentando la platea (per la maggiore natalità, ma anche per la combinazione al rialzo, con occupazione femminile e giovanile) di chi è attivo e produce ricchezza nel Paese.

Perché è ormai chiaro quali sono i fattori che portano a un continuo posticipo della creazione di una relazione stabile di coppia e della nascita del primo figlio. Quello che ai giovani italiani manca è la possibilità di passare dal sostegno passivo da parte dei genitori a un investimento pubblico in strumenti di attivazione e abilitazione, che consenta a essi di diventare parte attiva e qualificata nei processi di sviluppo del Paese. È la trasformazione dei giovani da condizione passiva ad attiva a fare la differenza, non tanto il passaggio dal carico sui genitori all’assistenza dello Stato. Poi altrettanto chiaro è il secondo nodo che frena, invece, la progressione oltre il primo figlio. Se con la nascita del primogenito ci si trova in difficoltà ad armonizzare impegno esterno lavorativo e interno alla famiglia, difficilmente si rilancia con la nascita di un secondo. Le donne italiane sono schiacciate in difesa, indotte a vedere al ribasso il numero di figli anziché allineare al rialzo l’occupazione femminile.

Dal Report sulla natalità e fecondità nel 2018 anche gli strenui difensori del pensionamento anticipato non possono non riconoscere che la crescente denatalità in sinergia perversa con l’invecchiamento creerà un mare di guai sia per quanto riguarda sia il mercato del lavoro, sia il sistema pensionistico. Il picco dell’invecchiamento colpirà l’Italia nel 2045-2050 quando si riscontrerà una quota di ultrasessantacinquenni vicina al 34%. In Italia le politiche di sostegno alle famiglie sono sempre state scarse, marginali, frammentarie. Abbiamo la necessità di politiche più generose e incisive, che allarghino i gradi di libertà per chi desidera assumere responsabilità famigliari verso i piccoli o verso le persone non autosufficienti. E la contrattazione di prossimità dovrebbe allargare il sostegno degli enti bilaterali, che funzionano alla grande per il sostegno al reddito in caso di mancanza di lavoro e per la formazione, alle lavoratrici e ai lavoratori che hanno problemi di flessibilità lavorativa. Un’operazione di sussidiarietà tra persone che nei vari momenti della vita hanno bisogno di più tempo per le cure dei nostri cari. E soprattutto abbiamo bisogno di semplificare tutta la burocrazia che ruota intorno all’accesso dei vari strumenti di sostegno.

È demenziale il sistema di accesso ai bonus per la maternità e paternità carichi di adempimenti modulistici legati a siti mal funzionanti e spesso rimessi in discussione da provvedimenti che si susseguono in maniera barocca e confusa. Stesso problema quando dobbiamo affrontare le pratiche sia per la non autosufficienza, sia per patologie invalidanti. Sulle politiche per la famiglia fondamentali sono le scelte per l’occupazione femminile. Uscire dal mercato del lavoro per un periodo prolungato non è mai una buona scelta per una donna, perché rientrarvi è molto difficile, specie in un Paese come l’Italia che ha un mercato del lavoro formale assai rigido e una domanda di lavoro relativamente scarsa. Si deve aumentare l’indennità del congedo genitoriale, ora ferma al 30 per cento dello stipendio e solo per i primi sei mesi (sui dieci complessivi teoricamente disponibili alla coppia di genitori) e legarvi automaticamente, non su domanda, contributi figurativi. In questo modo, si rafforzerebbe la possibilità di scelta di prendersi tempo per la cura non solo per le madri, specie a basso reddito, ma anche per i padri.

Come ci invita caldamente la Direttiva Pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea del 12 luglio, D UE n. 2019/1158 relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza che noi dobbiamo recepire entro il 2021, il rafforzamento del congedo genitoriale con queste caratteristiche non favorisce solo un riequilibrio dei compiti di cura tra madri e padri. Garantirebbe più tempo genitoriale (materno e paterno) ai bambini nel primo anno di vita, perché più genitori potrebbero permettersi di prendere tutti i dieci mesi dividendoseli tra loro. Fondamentali anche strumenti adatti al crescente numero di lavoratori e lavoratrici con contratti atipici o semi-libero professionali, specie tra i giovani. Questi non solo non hanno accesso ai congedi genitoriali. Non possono neppure permettersi, dal punto di vista professionale, di stare fuori dal mercato del lavoro troppo a lungo.

Abbiamo problemi evidenti che riguardano i servizi e l’organizzazione del lavoro: ampliamento dei servizi di qualità ed economicamente accessibili per la prima infanzia, per favorire non solo la conciliazione di responsabilità famigliari e lavorative, ma anche le pari opportunità tra bambini; estensione della scuola a tempo pieno, per gli stessi motivi; introduzione per legge del diritto al passaggio al tempo parziale reversibile per chi ha un bambino sotto i tre anni con agevolazioni di credito di imposta e contributivo per le aziende che applicano veramente politiche di flessibilità e non fanno finta di essere family friendly. Abbiamo veri problemi sui trasferimenti monetari quali gli assegni per i figli e il sistema di tassazione. Non sono d’accordo per introdurre il quoziente famigliare, perché crea problemi di gettito, di equità, in quanto favorevole ai più benestanti e scoraggia il lavoro di coppia. Mettiamo ordine, razionalizziamo il disordinato e frammentato complesso di trasferimenti monetari esistenti: assegno al nucleo famigliare, assegno per il terzo figlio in casi particolari, detrazioni fiscali per figli a carico, vari bonus bebè. L’istituzione di un unico trasferimento diretto e universale, eventualmente commisurato al reddito famigliare, sarebbe insieme più efficace e più equo.

C’è poi un dato che spesso si affronta quasi con fatica: l’invecchiamento delle parentele ha fatto emergere anche in Italia i bisogni di cura verso persone fragili o non autosufficienti, ma è un evento normale nel corso di vita individuale e famigliare. Il fenomeno è trascurato, rimosso nelle politiche sociali, che continuano ad affidarsi allo strumento dell’assegno di accompagnamento (peraltro nato per altri scopi), ignorando sia la questione della appropriatezza delle cure prestate, sia il sovraccarico sulle famiglie, di fatto per lo più sulle donne, che la necessità di prestare cura comporta e anche qui abbiamo bisogno di uno spostamento a favore dei servizi. Ma tutto rimane fermo. Anzi, per ribadire l’idea che tocchi alle donne nella famiglia provvedere a questi bisogni, si continua sulla strada dell’Opzione donna, che consente alle donne il “privilegio” di andare in pensione prima per poter fare gratuitamente il lavoro di cura necessario, pagando un prezzo altissimo (stimato attorno al 25 per cento) in termini di decurtazione della pensione. Prezzo che invece non verrà pagato dai fortunati (per lo più uomini del Nord) che avranno i requisiti per andare in pensione con quota 100. Che comunque andrebbe tolta così come il reddito di pigrizia. Quelle risorse diamole al sangue fresco del nostro Paese.

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Chi si occupa dei diritti dei delle persone disabili?

Alessandra Servidori    BLOG FORMICHE.NET  8 gennaio 2020

Chi si occupa  dei diritti delle persone disabili ? Sono  oramai frequenti le sentenze che, dirette a definire tali diritti inalienabili, restano inascoltate.  Dopo la Sentenza 2 marzo 2011 n.8254 della Corte di Cassazione che specifica “ a nessuno sia consentito di anteporre la logica economica alla logica della tutela della salute,né diramare direttive che pongano in secondo piano le esigenze dell’ammalato,dopo la famosa Sentenza 275/2016 della Corte Costituzionale che si era espressa severamente stabilendo che «È la garanzia dei diritti incomprimibili a incidere sul bilancio, e non  l’equilibrio di questo a condizionare la doverosa erogazione», interviene nuovamente il Consiglio di Stato che (sebbene utilizzi un lessico non conforme alla definizione della Convenzione Onu per i diritti delle persone con disabilità) con la sentenza n. 1 del 2 gennaio 2020, afferma «I disabili vanno assistiti e basta. La loro assistenza non può dipendere né dalle risorse finanziarie disponibili, né dai posti presso le strutture semiresidenziali.», sentenza questa che si preannuncia come un serio problema di bilancio per quelle pubbliche amministrazioni, anche centrali, che considerano la disabilità un costo tra le varie ed eventuali (del bilancio) . Il consiglio di stato si è pronunciato  sull’incompleto inserimento di un minore (3 giorni su 5) in un centro diurno, perché l’Asl non aveva disponibilità economiche e si era limitata a formare una lista di attesa, erogando un contributo parziale, previsto dalla Regione Veneto a sostegno delle disabilità. Sono stati i  genitori di un minore disabile al 100% e non autosufficiente, hanno chiesto l’annullamento del provvedimento del 25 ottobre 2017 con il quale l'Azienda U.L.S.S. N. 6 del Veneto aveva rigettato la loro istanza-diffida del 25 settembre 2017 per “l'immediato inserimento del minore in un Centro Diurno al fine di permetterne la tempestiva fruizione” e a ottenere dall’Azienda il risarcimento dei “danni, patrimoniali e non patrimoniali, cagionati e cagionandi per un importo non inferiore a 25.000 euro”.L’Azienda sanitaria, respingendo la richiesta, ha sostenuto di essere “tenuta a garantire i livelli essenziali di assistenza socio sanitaria nel rispetto dei vincoli di bilancio assegnati annualmente dalla Regione e dalla Conferenza dei Sindaci”.Il Tar aveva dato ragione all’azienda, sostenendo che anche il diritto alla salute deve essere bilanciato e contemperato con altri beni di rilevanza costituzionale (come in questo caso l’equilibrio del bilancio pubblico e, in particolare, del bilancio regionale), ma il Consiglio di Stato non è dello stesso avviso. In vero il Consiglio di Stato si era già pronunciato con la Sentenza n. 842/2016, rimasta anch’essa inascoltata, sempre in materia di diritti delle persone con disabilità. Quella sentenza del 2016 aveva, ed ha, anch’essa una vasta portata tesa ad incidere sulla formazione del bilancio dello Stato perché incide in materia di requisiti per l’accesso alle misure socio assistenziali legate al parametro ISEE. La sentenza del Consiglio di Stato nel rigettare il ricorso della Presidenza del Consiglio dei ministri contro diverse pronunce del TAR che davano ragione alle persone con disabilità, stabiliva che «le indennità riconosciute ai disabili non sono reddito.». Si deve quindi trovare il modo di scorporare tali somme dalla giacenza media del conto corrente che è uno dei parametri per determinare l’ISEE. Ma come tutti sanno una sentenza, nemmeno se ripetuta, fa la Legge ed occorreva, così come ancora occorre urgentemente, l’ntervento risoluto del legislatore per tradurre in norma di legge, ma che sia cogente per tutte le pubbliche amministrazioni dello Stato, la statuizione del Giudice. La questione ora passa al Parlamento affinché batta un colpo e dia un segnale per il recepimento immediato delle sentenze delle alte magistrature in materia di diritti delle persone con disabilità.

Come va la scuola italiana

Come va la scuola italiana e come potrebbe migliorare secondo il rapporto Ocse.

Il post di Alessandra Servidori   START MAGAZINE  GENNAIO 2020

 Mentre si è chiuso  un anno particolarmente agitato sul versante politico/istituzionale, negli ultimi giorni il Presidente del Consiglio si è trovato a dover nominare due nuovi Ministri – spacchettando le deleghe -in un dicastero che è di fondamentale importanza per il nostro futuro e che troppo spesso è invece trascurato. Proprio l’Ocse nel Rapporto annuale sullo stato di salute della nostra istruzione e formazione a tutti i livelli ci ha posto in fondo alle graduatorie.

Secondo l’indagine 2018 solo in matematica i quindicenni italiani risultano in media con gli altri Paesi; per il resto l’Italia è abbondantemente sotto e addirittura tra il 23esimo e il 29esimo posto per capacità di lettura. Si confermano il divario tra Nord e Sud, tra maschi e femmine e tra licei e istituti professionali. I ragazzi italiani non migliorano nella capacità di leggere e comprendere un testo, un’emergenza nota da tempo e che era già emersa anche nell’ultimo rapporto Invalsi sugli studenti di terza media. Se si guarda alle superiori, siamo sempre sotto la media nel confronto internazionale. E peggioriamo rispetto a rilevazioni di dieci anni fa o del 2000. Dunque ci troviamo in una situazione di forte allarme con la prospettiva di breve e medio termine di rimboccarci le maniche per non rimanere schiacciati .

Dobbiamo assumerci la responsabilità di adottare strumenti nuovi per recuperare. L’Ocse ha lanciato la Bussola degli Apprendimenti 2030, che è stata co-creata con una comunità globale di multi-stakeholder appartenenti a più di 30 Paesi. La bussola degli apprendimenti Ocse 2030 delinea una nuova visione del futuro nel quale gli studenti con la loro “azione” forgeranno un futuro migliore. La bussola definisce anche i tipi di competenze di cui gli studenti avranno bisogno per orientarsi in un mondo che sta diventando sempre più volatile, incerto, complesso e ambiguo (spesso rappresentato come “VUCA”, Volatile, Uncertain, Complex and Ambiguous) ad opera dell’accelerazione dei cambiamenti tecnologici, economici, sociali e culturali. Il senso dell’azione e i tipi di competenze a cui mira la Bussola degli Apprendimenti 2030 sono rappresentati da quelle qualità umane che si ritiene non siano facilmente sostituibili dall’intelligenza artificiale e che quindi rimangono costitutivi della qualità dei valori umani.

L’Ocse lavora con i vari Paesi anche per dirimere le questioni relative al curricolo che studenti, insegnanti, scuole, leader distrettuali, rappresentanti dei governi nazionali e regionali si trovano oggi ad affrontare. Queste questioni includono: il sovraccarico del curriculum, lo scarto tra il curriculum di oggi e le esigenze future, la flessibilità e l’autonomia del curriculum, l’integrazione dei valori nel curriculum, la garanzia di equità nell’innovazione del curricolo e la garanzia di un’ efficace implementazione.

Nell’analizzare questi problemi, sono emersi 12 principi relativi alla progettazione che possono considerarsi duraturi e adatti ai diversi Paesi e alle differenti culture. I curricoli dell’ordinamento scolastico italiano sono stati oggetto di riforma in momenti diversi: nel 2012 per quanto riguarda il primo ciclo di istruzione e nel 2010 per il secondo ciclo.

Va ricordata, tuttavia, la recente riforma dei percorsi dell’istruzione professionale, rinnovati nel 2017 al fine di renderli più consoni ad un rapido inserimento degli studenti nel mondo del lavoro. Per il primo ciclo è stato senz’altro privilegiato un approccio coordinato e integrato degli ambiti disciplinari, i quali concorrono unitariamente alla definizione degli obiettivi di apprendimento e dei traguardi delle competenze. Invece, i curricoli del secondo ciclo si caratterizzano ancora, timidamente ad eccezione di quelli dell’istruzione professionale, per una marcata separazione disciplinare che rende difficile cogliere il reale contributo di ogni disciplina alla definizione del profilo culturale in uscita di ogni percorso di studi. SBRIGHIAMOCI.

Corte dei Conti : ci trasciniamo un Debito pubblico spaventoso

Considerazioni a margine del rapporto della Corte dei Conti sulla programmazione dei controlli e delle analisi per l’anno 2020. Il post di Alessandra Servidori      www.start magazine  6 gennaio 2020

La permanente negativa attualità del Rapporto della Corte dei Conti si ripete di anno in anno in un documento di Programmazione dei controlli e delle analisi che — secondo i magistrati contabili — conferma che il 2020, come gli anni precedenti, “si preannuncia impegnativo per il governo dei conti pubblici. La situazione economica è caratterizzata dalle crescenti incertezze che pesano sul quadro macroeconomico internazionale” e le prospettive dell’economia italiana, “già largamente al di sotto della media europea, ne risentono ulteriormente”.

Una prospettiva di crescita economica pari a zero, rischio per i conti pubblici e aumento dell’inflazione. Relativamente alla crescita del Pil, questa dovrebbe essere pari soltanto al +0,4%, secondo le stime redatte dagli istituti di previsione internazionali, ad un livello da “zero virgola” al quale l’economia italiana si è abituata ormai da diversi anni.

Con spazi di manovra praticamente ridotti a zero per il governo, anche per via delle clausole di salvaguardia che non vengono mai disboscate definitivamente, è difficile aspettarsi di più. Il rischio di aumento del deficit e del debito pubblico, non appare in linea con gli obiettivi concordati con la Commissione Europea. Anche perché, le promesse fatte dal precedente governo di tagliare spesa pubblica e tax expenditures non sono state rispettate nella manovra appena approvata in Parlamento. Al contrario, l’esecutivo giallorosso ha pensato bene di aumentare ancora di più le tasse sui consumi e modificare le norme che regolamentavano la tassazione delle partite Iva attraverso il regime forfettario, che è stato parecchio ridimensionato.

Sarebbe stato utile intervenire, almeno in prospettiva con la recente manovra, tagliando la spesa pubblica, specie quella locale che incide per il 60% sugli equilibri complessivi, al netto di quella per interessi — previdenza e dei trasferimenti ai vari livelli —. È poi malamente confermato l’accento sul fatto che esiste un assioma secondo cui la spesa pubblica centrale è cattiva e quella locale no, ma analizzando il Rapporto e le cifre non c’è una minima idea di invertire la rotta.

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     Il dramma italiano è il buco nero dei conti pubblici che prende il nome di finanza locale. È una sorta di bancomat, utilizzato dagli amministratori locali nei confronti dello Stato centrale, che non richiede rendicontazione ma la Corte Costituzionale, nel governo Monti che aveva tentato di mettere qualche paletto, ha cassato tutte norme che prevedevano una qualche forma di controllo.

Ci sono ragioni di carattere strutturale e disordini di carattere amministrativo: i vari livelli governativi che si sovrappongono e si contraddicono, le municipalizzate, le comunità montane, i bacini idrici e poi regioni, comuni, municipi, consorzi di varia natura e specie e via dicendo. Un magma insondabile.

Due gli strumenti sono disponibili ai fini del controllo: il patto di stabilità interno e il Siope, un sistema informatizzato che consente di avere in tempo reale il flusso dei pagamenti. Ma che nulla possono dire sulla tipologia della spesa: il cosiddetto “socialismo municipale” che è composto da più di ottomila partecipazioni in società dei soli capoluoghi regionali e delle regioni è incontrollabile. Per dimostrare che quel 60% di risorse che gli enti locali utilizzano sia usato correttamente sarebbe fondamentale anche a quel punto per aumentare l’imposizione fiscale. Sono indispensabili l’adozione di eventuali terapie fondate su l’analisi generale della situazione economica e sociale, che deve essere condivisa. Dopodiché ci possono essere terapie di destra o di sinistra vincolando l’azione di governo.

La difficoltà nell’impostare la politica economica del governo deriva dal fatto che mancano i presupposti utili ad un positivo sviluppo. A partire da un’analisi condivisa della situazione e delle relative priorità. E nel contesto dato, l’autonomia differenziata non è una soluzione percorribile perché attribuire ad alcune realtà territoriali la facoltà di legiferare su importanti materie quali istruzione, sanità, lavoro, ambiente senza un quadro nazionale di riferimento comporterebbe la frammentazione di diritti costituzionali indisponibili che, in quanto tali, non possono essere esigibili a geometria variabile. Nè si può attribuire risorse trasferendole dallo stato centrale a singoli territori basandosi sulla spesa storica perché significa cristallizzare le disuguaglianze esistenti. E ancora meno accettabile legare i trasferimenti alla capacità fiscale dei territori condizionando il diritto alla salute istruzione lavoro assistenza, alla ricchezza di quella regione.

Il legislatore deve armonizzare i Lep e le leggi quadro anche per l’attuazione del federalismo fiscale e la disciplina di un sistema perequativo efficace fondato sulla necessità di redistribuire risorse territoriali in funzione del soddisfacimento dei comuni e di una controllata rendicontazione effettiva. È ormai indispensabile definire gli obiettivi di servizio qualitativi e quantitativi ai quali regioni e enti locali si devono attenere nel rispetto dei Lep individuando i fabbisogni standard con fondi perequativi per ciascuna funzione finanziati dalla fiscalità generale e ripartiti secondo indicatori socio-economici assegnando al soggetto istituzionale l’esercizio di vincolo di solidarietà di una comunità.

Pillole e scadenze della manovra

 ALESSANDRA SERVIDORI Leggiamo la manovra  di bilancio    2 GENNAIO 2020

IL CALENDARIO  

 Gennaio

Se ieri avete già avuto la “sfortuna” di vincere più di 200 euro alle slot machine, e di dover pagare seduta stante una tassa del 20% sul bottino, o più facilmente siete andati dal pasticcere sotto casa e non vi ha dato il solito scontrino fiscale, avrete già capito che questo 2020 sarà molto diverso dagli anni passati. Almeno dal punto di vista delle tasse: è vero che non aumenta l’Iva (ma questa non è una novità, perché gli aumenti vengono rinviati da otto anni), ed è previsto un taglio delle imposte sulla busta paga, ma saltano fuori almeno sei nuovi tributi, si stringono le maglie della flat tax, ed il calendario delle scadenze fiscali viene completamente rivoluzionato.Da ieri intanto lo scontrino elettronico, partito a luglio del 2019 solo per i grandi esercizi, è diventato obbligatorio per tutti. Lo scontrino non ha più valore fiscale (ma ai clienti serve per la garanzia), chi vende o presta servizi non sarà più obbligato a tenere documentazione (come fino a ieri con le copie delle ricevute fiscali), e gli acquisti vengono registrati in via telematica direttamente all’Agenzia delle Entrate.

Cambia anche il regime delle detrazioni fiscali, cioè quelle spese che possono essere scalate dalle imposte da pagare l’anno successivo. Dal 2021 saranno riconosciute solo le detrazioni tracciabili, dunque le spese fatte con una carta di credito, con il bancomat, con un bonifico bancario o con un assegno “non trasferibile”. La regola riguarda tutte le detrazioni, tranne quelle relative alle spese sanitarie, dunque la palestra dei figli, le rette universitarie, l’affitto per gli studenti fuori sede, le erogazioni liberali, le spese funebri, quelle per il veterinario e naturalmente tutte quelle per le ristrutturazioni edilizie (che già devono essere tracciabili). Ma attenzione, perché dal 2021 verranno riconosciute nuove detrazioni su alcune spese per piccoli servizi effettuate quest’anno (con un bonus che arriverà probabilmente a gennaio) e anche a queste si applicherà la regola generale. Meglio, dunque, farle con una carta o un bancomat. Per molti lavoratori che nel 2019 avevano assaporato la flat tax al 15% introdotta dal governo Lega-M5S, il sogno è già finito. Da quest’anno, con la stretta voluta dal nuovo esecutivo, molti di loro saranno di nuovo esclusi dal regime. Per esempio tutti coloro che nel 2019 hanno dichiarato redditi da lavoro dipendente superiori ai 20 mila euro lordi annui, o chi ha sostenuto spese per dipendenti, collaboratori e beni strumentali superiori a un certo livello.

 Febbraio

A febbraio arriva il momento di fare conoscenza con i nuovi Bonus per gliasili nido e per i bebè, che da quest’anno viene riconosciuto a tutti, anche a chi ha redditi alti. Il contributo per l’asilo è scalettato in tre fasce: 3 mila euro l’anno per chi ha un reddito Isee fino a 25 mila euro, 2.500 euro per chi sta tra 25 e 40 mila euro, 1.500 euro per tutti gli altri.
Il bonus bebè andrà a tutti i bambini nati o adottati nel 2020. Le famiglie che hanno un reddito Isee fino a 7 mila euro avranno 160 euro al mese, quelle che hanno un Isee tra 7 e 40 mila euro riceveranno 120 euro al mese, mentre le altre potranno contare su un assegno mensile di 80 euro. L’assegno sarà erogato per dodici mesi per ciascun figlio e salirà del 20% per un eventuale secondo bebè.
Sempre a febbraio debutta la Rc Auto familiare. Sarà possibile assicurare tutti i veicoli del nucleo familiare applicando la miglior classe di rischio attribuita a uno dei veicoli posseduti.

 Luglio

A luglio si concentrano gran parte delle novità introdotte quest’anno dal governo con la manovra di bilancio e il decreto fiscale. La prima cosa da ricordare è il nuovo limite all’uso del contante, che scatta il primo del mese. Da quel momento il tetto alla possibilità di spendere denaro contante scende da 3 a 2 mila euro, per passare poi a mille euro dal dicembre del 2021.
La stretta sui contanti, insieme alla spinta all’uso della moneta elettronica, è parte della nuova strategia del governo per contrastare l’evasione fiscale, ma rispetto a come era stata impostata nel disegno originale, ha perso un po’ di mordente. Non ci sono più le penalizzazioni, tanto che è saltata anche la sanzione prevista per i commercianti che non accettano pagamenti elettronici, e quasi tutto è affidato agli incentivi.
Tra questi, destinata a scattare dal primo luglio, c’è anche la lotteria degli scontrini, prevista da tempo e sempre rinviata. Per partecipare i cittadini dovranno richiedere un codice apposito su un portale internet che verrà messo in piedi dall’amministrazione fiscale. Il codice andrà poi comunicato al commerciante prima dell’emissione dello scontrino elettronico. Se il pagamento è in contanti bisognerà comunicare al commerciante anche il proprio codice fiscale, che non serve se il pagamento avviene con un bancomat o con una carta di credito, con le quali si avrà una possibilità di vincita doppia. Ogni mese sono previste tre estrazioni con premi da 10, 30 e 50 mila euro, più un’estrazione annuale con un maxi premio da un milione di euro.

Dal primo luglio scatta anche il taglio del cuneo fiscale a favore dei lavoratori dipendenti che guadagnano fino a 35 mila euro l’anno. Lo sgravio si aggiunge al Bonus Renzi da 80 euro al mese, e per il 2020 vale circa 240 euro per chi guadagna fino a 25 mila euro (e già riceve il Bonus Renzi), e il doppio per chi sta tra 26.500 e 35 mila euro annui. Dal 2021, quando l’erogazione del bonus comincerà a gennaio, questi importi raddoppieranno.
Dal primo luglio scatta anche la nuova tassa sulla plastica. Vale 1 euro al chilogrammo e si applicherà alle bottiglie, buste e vaschette in polietilene monouso (come quelle che contengono l’insalata), il tetrapak del latte, i contenitori dei detersivi. Ma verranno tassati anche il polistirolo, i tappi e le etichette di plastica.
La nuova plastic tax si applica anche ai manufatti in plastica usati per la protezione o per la consegna delle merci (come il packaging per elettrodomestici, computer o altre apparecchiature), i rotoli in plastica e le pellicole e film in plastica estensibili. A pagarla saranno le imprese, ma facilmente il costo si scaricherà sul prezzo finale dei prodotti. Federconsumatori stima una spesa di 138 euro a famiglia.

 Settembre

I lavoratori che hanno un’auto aziendale in uso cominciano a fare i conti con la nuova tassa “ecologica” imposta dall’esecutivo con la manovra di bilancio. Il nuovo regime scatta in realtà dal primo luglio, molti dettagli e meccanismi devono essere messi a punto, e i primi risultati concreti rischiano di farsi sentire sulla busta paga di settembre.
Rispetto a come era stata impostata la tassa sulle auto aziendali è stata completamente rivoluzionata e molto alleggerita. Sarà agganciata alle emissioni di anidride carbonica prodotte dai veicoli. Fino a 60 grammi di CO2 per chilometro, e qui si parla sostanzialmente di auto elettriche, il valore fiscale dell’auto aziendale diminuirà rispetto ad oggi. Il costo parametrico scende dal 30% attuale al 25%. Per le auto che emettono tra 60 e 161 grammi di CO2 il parametro resta al 30%, come oggi, mentre è destinata a salire parecchio per le autovetture più inquinanti e di grossa cilindrata. Per le auto che emettono tra 160 e 191 grammi di CO2 il peso fiscale sale al 40% (poi al 50% nel 2021), e sale al 50% (poi al 60% l’anno dopo) per quelle che hanno emissioni superiori.

Il primo settembre sparisce anche il superticket sanitario sulle prestazioni di assistenza specialistica in ambulatorio. E’ una sorta di tassa, da 10 euro, che si aggiunge al normale ticket sulla specialistica, e che viene applicata da molte regioni, anche se non da tutte, creando sperequazioni. Non si paga in Sardegna, Basilicata e in Val d’Aosta, mentre in Emilia-Romagna sono esenti i contribuenti che hanno redditi inferiori a 100 mila euro.
Il 30 settembre scade anche il nuovo termine per la presentazione del modello 730 per la dichiarazione dei redditi, spostato rispetto alla scadenza canonica del 23 luglio.

 Ottobre

Lo slittamento del 730 a fine settembre ci darà più tempo per preparare la documentazione necessaria e anche per pagare, ma nello stesse tempo allontana anche i rimborsi dei crediti d’imposta Irpef. Per i contribuenti che sono lavoratori dipendenti il rimborso delle tasse avverrà con la prima busta paga disponibile, quindi quella di ottobre, mentre per i pensionati potrebbe slittare anche a novembre. In pratica due o tre mesi in più rispetto al solito. Con il termine massimo di presentazione del 730 il 23 luglio, per molti contribuenti il rimborso delle tasse pagate in eccesso arrivava di norma nel mese di luglio, al più tardi in quello di agosto.

Il primo ottobre prossimo scatta anche la contestatissima sugar tax, cioè la nuova tassa sulle bevande zuccherate. Sarà pari a 10 centesimi al litro per le bevande già pronte all’uso e a 25 centesimi al chilo per i prodotti da utilizzare previa diluizione.
Sono esenti dalla tassa solo le bevande edulcorate con meno di 25 grammi di zuccheri per litro. Una tassa simile esiste già in oltre 50 paesi del mondo ed in Europa si paga già in Francia, Portogallo, Belgio, Ungheria, Regno Unito, Irlanda e Norvegia. A versare l’imposta saranno i produttori, ma come sempre succede in questi casi l’aumento delle tasse si scaricherà sul prezzo finale del prodotto, e dunque sui consumatori. La Legge di Bilancio del 2020 definisce in maniera chiara le sanzioni che si applicheranno nel caso di mancato pagamento della sugar tax. Le imprese sono tenute a versare una sanzione amministrativa dal doppio al decuplo dell’imposta evasa, con un minimo di 500 euro. Nel caso di pagamento tardivo, la sanzione sarà pari al 30 per cento dell’imposta, con un minimo di 250 euro.

CANNA IN TERRAZZA..... Demenziale

Alessandra Servidori

Cannabis in terrazza ……! Devastante    29-12-2019

 Come insegnante educatrice non condivido la sentenza che permette la coltivazione domestica della cannabis per i risvolti sociali , sanitari, educativi. Purtroppo, nella nostra società viene spesso veicolato il messaggio che quello che è legale è anche giusto dal punto di vista etico. Sappiamo bene che non è così, ma questo modo di interpretare le azioni può essere molto negativo per i nostri ragazzi .Andare verso la liberalizzazione delle droghe leggere viene fatta passare come una conquista della autoderminazione,una lotta  alla criminalità organizzata che detiene il monopolio della vendita degli stupefacenti: purtroppo non è così. Infatti, rendere legale la coltivazione della cannabis significa ‘normalizzare’ qualcosa di molto pericoloso. Nella mia vita di docente conosco giovani distrutti dagli stupefacenti e il nostro impegno a fianco delle famiglie è costante nel far comprendere i danni ai quali i nostri ragazzi  vanno incontro.  Abbiamo e stiamo insegnando ai nostri studenti anche con lezioni mirate quanto la cannabis non si possa definire leggera perché il fumo produce danni molto importanti  e i giovani sono in un qualche modo la porta aperta  per ricorrere ad altri tipi di stupefacenti  quando avviene una forma di assuefazione ovvero alla diminuzione della loro attività. Ma ci chiediamo che ratio ha una sentenza così quando ci siamo impegnati da anni a fare lezioni laboratori incontri con i giovani sparando delle slide anche emotivamente forti ( come gli effetti del fumo sulla distruzione dei polmoni) quando poi li portiamo a rendere “libera” la loro scelta se autodistruggersi? Nei nostri ragazzi il cervello  è in via di sviluppo e quindi i danni maggiori sono proprio  perché la presenza   di una sostanza chimica perturba il sistema quando è in via di definizione. Prove scientifiche alla mano hanno dimostrato i diversi effetti collaterali nell’uso continuato della cannabis sul sistema nervoso,minor capacità di ragionamento, forme pesanti di psicosi e schizofrenia ed  il rischio di  tumore ai testicoli evidenziato mediamente del doppio di chi non fuma. Ai giovani bisogna comunicare l’idea che le canne  corrodono la salute e che è importante che capiscano l’importanza del problema.Per loro. La sentenza è straordinariamente sbagliata perché banalizzare l’uso delle piantine sul terrazzo come si coltivano le piante officinali è diseducativo, e se la motivazione è quella di contrastarne l’uso dello spaccio è ancora più delirante è stabilire che la coltivazione domestica e a uso personale di cannabis non è reato e incredibilmente assurdo .Tanto più che  pochi mesi fa la stessa Corte  aveva ritenuto illegale la vendita della cd cannabis leggera di una qualità con un principio attivo basso per produrre effetti droganti. Intanto  il paradosso è che è   cresciuta una filiera  di canapa leggera fino a dimensioni importanti: il mondo della canapa industriale made in Italy conta oggi mille negozi, 800 partite Iva agricole specializzate, 1.500 nuove aziende di trasformazione e distribuzione e circa 10mila addetti. Secondo il Consorzio nazionale per la tutela della filiera, si parla di un giro di affari di 150 milioni di euro al 2018, con prospettive di crescita europea pari a 36 miliardi di euro entro il 2021. Nell’ultima manovra sarebbe dovuto comparire un emendamento per regolamentare la produzione di cannabis light, considerata come tale sotto a un tetto dello 0,5% di Thc. La misura è poi saltata ed è venuta fuori la sentenza. Questa è pura nevrosi legislativa.

Dedicata alle persone disabili: non solo il 3 dicembre

Alessandra Servidori 3 Dicembre Giornata internazionale dedicata alle persone disabili     www.Formiche.net 

PROMUOVERE i diritti e il benessere delle persone disabili, così da garantire un rapido cammino verso lo sviluppo inclusivo e sostenibile, in grado di promuovere una società resiliente attraverso l’eliminazione della disparità di genere, il potenziamento dei servizi educativi e sanitari e l'inclusione sociale, economica e politica di ogni cittadino: questo lo scopo della giornata internazionale delle persone con disabilità (3 dicembre), proclamata dall'Onu nel 1981 allo scopo di promuovere i diritti e il benessere dei disabili. Dopo decenni di lavoro delle Nazioni Unite, la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità, adottata nel 2006, ha ulteriormente rafforzato il concetto di promozione dei diritti e del benessere delle persone con disabilità, ribadendo il principio di uguaglianza e la necessità di garantire a tutti piena ed effettiva partecipazione alla sfera politica, sociale, economica e culturale della società. L'Italia, con legge n°18 del 3 marzo 2009 ha recepito la Convenzione che invita gli Stati ad adottare le misure necessarie per identificare e eliminare gli ostacoli che limitano il rispetto di questi diritti imprescindibili (art. 9, accessibilità) - si focalizza sulla necessità di garantire condizioni che consentano di vivere in modo indipendente e di partecipare pienamente a tutti gli aspetti della vita e dello sviluppo. "Nessuno venga lasciato indietro". questo il principio di base di questa giornata, sottolineato anche dall'Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, che mira, in particolare, a un rafforzamento dei servizi sanitari nazionali e al miglioramento di tutte le strutture che permettano un effettivo accesso ai servizi. Le persone con disabilità, infatti, risentono maggiormente dei disagi sanitari, hanno minor accesso all’istruzione, minori opportunità economiche e tassi di povertà più alti rispetto alle persone senza disabilità, e ciò è in gran parte dovuto alla mancanza di servizi adeguati e alle limitazioni nell’accesso alle tecnologie d’informazione, alla giustizia e ai trasporti. Anche il rischio di subire violenza è maggiore, per chi convive con una disabilità, tanto che la probabilità che i bambini disabili subiscano maltrattamenti o soprusi è quattro volte maggiore rispetto a quella dei piccoli normodotati. I fattori di rischio derivano da stigma, discriminazione e ignoranza, così come dalla mancanza di sostegno sociale. Nel 2018 il Governo approvò un ddl   (Delega al Governo per l’adozione di un Codice in materia di disabilità) . Al fine di promuovere, tutelare e garantire il pieno ed eguale godimento dei diritti umani e delle libertà fondamentali da parte della persona con disabilità e porre le condizioni affinché sia effettivamente rimosso qualsiasi ostacolo che ne limiti o impedisca la piena e libera partecipazione alla vita economica, sociale e culturale della Nazione, in attuazione degli articoli 2, 3, 31, 32, 34, 35 e 38 della Costituzione, degli articoli 21 e 26 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nonché in armonia con i princìpi sanciti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, adottata a New York il 13 dicembre 2006 e ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, e con il quadro delle raccomandazioni del Consiglio d’Europa in materia di disabilità, il Governo è delegato ad adottare, entro due anni dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi volti ad armonizzare, riordinare e semplificare, anche innovandole, le disposizioni vigenti in materia di disabilità, anche ai fini della definizione del “Codice per la persona con disabilità”. I decreti legislativi dovevano intervenire : a) definizione della condizione di disabilità; b) accertamento e certificazione; c) disciplina dei benefici; d) sistemi di monitoraggio, verifica e controllo; e) promozione della vita indipendente e contrasto dell’esclusione sociale; f) abilitazione e riabilitazione; g) istruzione e formazione; i) accessibilità e diritto alla mobilità h) inserimento nel mondo del lavoro e tutela dei livelli occupazionali e dunque significava 1) riordinare la disciplina dei congedi parentali per i soggetti che assistono familiari con disabilità e promuovere misure funzionali a realizzare un adeguato rapporto tra attività lavorativa ed esigenze della vita privata, sia a favore della persona con disabilità, sia per i soggetti che prestano attività di cura e assistenza; 2) prevedere agevolazioni, anche di natura fiscale, in favore dei datori di lavoro che attivano politiche ed azioni volte a migliorare le condizioni di lavoro dei dipendenti con disabilità o che assistano familiari con disabilità; 3) promuovere misure volte a rimuovere gli ostacoli alla progressione nella carriera professionale delle persone con disabilità, nonché adeguati programmi di formazione continua volti a contrastarne l’emarginazione per intervenuti mutamenti nelle condizioni del mercato del lavoro; 4) individuare profili professionali riservati a persone con disabilità, definendone i relativi percorsi di formazione, abilitazione ed inserimento lavorativo, riordinando anche la normativa in materia di collocamento mirato delle persone con disabilità al fine di assicurarne il diritto effettivo. Dall'attuazione delle deleghe recate dall’articolo 1- recita il testo- non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. A tale fine, agli adempimenti previsti dai relativi decreti legislativi le amministrazioni competenti provvedono attraverso una diversa allocazione delle ordinarie risorse umane, finanziarie e strumentali, allo stato in dotazione alle medesime amministrazioni. In conformità all'articolo 17, comma 2, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, qualora uno o più decreti legislativi determinino nuovi o maggiori oneri che non trovino compensazione al proprio interno, i medesimi decreti legislativi sono emanati solo successivamente o contestualmente all'entrata in vigore dei provvedimenti legislativi, ivi compresa la legge di bilancio, che stanzino le occorrenti risorse finanziarie. Dunque quando il ddl è arrivato alla Ragioneria dello Stato e dunque al Ministero  tesoro, bilancio, economia il parere è stato negativo perché comunque tale ddl prefigurava un riordino troppo oneroso, irrealizzabile stando la spesa pubblica già in deficit. La ragioneria ha dichiarato che l’attuazione del documento, malgrado venga dichiarata in linea di principio l’invarianza finanziaria, è suscettibile di generare oneri di ingente entità. La Ragioneria dello Stato  non ammette  una visione di welfare in deficit, che paventa previsioni catastrofiche per la finanza in generale, oppure siamo di fronte all’incapacità di chi ha redatto il disegno di legge?La Ragioneria dello Stato,  dichiara che l’integrazione degli attuali Livelli di assistenza per la disabilità può avvenire unicamente attraverso il taglio di altri livelli di assistenza, non ritiene sia possibile reperire risorse in altri contesti.I tecnici del Ministero della Famiglia e Disabilità dal canto loro non si pongono il problema del reperimento delle risorse. Permane in ogni caso, stando a quanto riportato dalla ragioneria, un documento che sotto il profilo economico-finanziario, è contraddittorio. Il fatto è che comunque la questione disabilità e riassetto della spesa pubbblica  e sussidiaria ha senza dubbio necessità di essere rimodulata perché la situazione in Italia è veramente emergenziale.

 

 

Mettiamo a fuoco la verità sul Fondo salva Stati

Alessandra Servidori

BASTA ALLARMISMI INGIUSTIFICATI !  E mettiamo a fuoco la verità sul Fondo salva Stati 

Sul Fondo Salva Stati mi sono fatta una opinione studiando la storia e i dossier degli uffici studi parlamentari e gli atti a disposizione di tutti. Mi auguro di essere il più chiara possibile.

Il Meccanismo europeo di stabilità (MES) è una organizzazione istituita nel 2012, sulla base di un Trattato intergovernativo, per fornire assistenza finanziaria ai Paesi dell'eurozona, nel caso in cui tale intervento risultasse indispensabile per salvaguardarne la stabilità finanziaria dell'area valutaria complessivamente considerata e dei suoi Stati membri. Il MES ha affiancato e poi sostituito due strumenti transitori di stabilizzazione finanziaria: il Meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria (MESF) e il Fondo europeo di stabilità finanziaria (FESF). Secondo l'approccio esposto nel Trattato istitutivo , la prima linea di difesa dalle crisi di fiducia in grado di compromettere la stabilità della zona euro dovrebbe essere rappresentata dal rigoroso rispetto del quadro giuridico dell’Unione europea, del quadro integrato di sorveglianza di bilancio e macroeconomica, con particolare riguardo al patto di stabilità e crescita, del quadro per gli squilibri macroeconomici, delle regole di governance economica dell’Unione europea e del Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell'unione economica e monetaria (cosiddetto Fiscal Compact). Il MES si configura dunque come uno strumento residuale rispetto a tali presidi e può fornire un sostegno alla stabilità articolato in una serie di azioni, alle quali sono associate condizioni rigorose (principio della "rigorosa condizionalità"), proporzionate alla tipologia di assistenza finanziaria cui si intende fare ricorso.

Nel dicembre 2017, la Commissione europea ha presentato una proposta di regolamento volta a integrare il MES nell'ordinamento istituzionale dell'UE, trasformandolo in un Fondo monetario europeo (FME). L'istituzione di un meccanismo permanente di stabilità dell'area euro è infatti esplicitamente prevista dall'articolo 136 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE), secondo cui gli Stati membri la cui moneta è l'euro possono istituire un meccanismo di stabilità da attivare ove indispensabile per salvaguardare la stabilità della zona euro nel suo insieme. Il medesimo articolo specifica, inoltre, che la concessione di assistenza finanziaria necessaria nell'ambito di tale meccanismo deve prevedere una "rigorosa condizionalità".

La proposta della Commissione non ha, tuttavia, generato un accordo sulla trasformazione dell'organismo. L'Eurogruppo del 13 giugno 2019 e, successivamente, il Vertice euro del 21 giugno hanno portato a una diversa soluzione che prevede una revisione del Trattato istitutivo del MES.

In base al vigente Trattato istitutivo, siglato il 2 febbraio 2012 ed entrato in vigore l'8 ottobre 2012, a seguito della ratifica dei 17 Stati membri dell'Eurozona (a cui si sono aggiunti in seguito la Lettonia e la Lituania), il MES è costituito quale organizzazione intergovernativa nel quadro del diritto pubblico internazionale con sede in Lussemburgo. Ne sono membri tutti i 19 Paesi dell'Eurozona (Austria, Belgio, Cipro, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Portogallo, Slovacchia, Slovenia, Spagna) e l'adesione è aperta agli altri Stati membri dell'UE.

Il capitale sottoscritto totale è di circa 704 miliardi di euro, di cui circa 80 miliardi sono stati effettivamente versati dagli Stati membri aderenti. La ripartizione delle quote è basata sulla partecipazione al capitale versato della Banca centrale europea (BCE). Con 125,3 miliardi di euro sottoscritti (di cui 14,3 effettivamente versati), l'Italia è il terzo Paese per numero di quote del capitale del MES (17,7%), dopo la Germania, che ha sottoscritto quote per 190 miliardi di euro, di cui 21,7 effettivamente versati (26,9% del totale), e la Francia, che ha sottoscritto quote per 142 miliardi di euro, di cui 16,3 effettivamente versati (20,2% del totale). Tra gli altri principali sottoscrittori vi sono la Spagna, con 83 miliardi di euro (pari all'11,8% delle quote) e i Paesi Bassi con 40 miliardi di euro (pari al 5,6% delle quote). L'organo al quale spettano le decisioni principali del MES è il Consiglio dei governatori (Board of Governors) composto dai Ministri responsabili delle finanze degli Stati membri della zona euro e presieduto dal Presidente dell'Eurogruppo, Mario Centeno. Il Trattato individua un ulteriore organo al quale, direttamente o su delega del Consiglio dei governatori, vengono attribuiti poteri decisionali: il Consiglio di amministrazione (Board of Directors), composto da 19 funzionari esperti (senior civil service officials), nominati dai governatori tra persone di elevata competenza in materia economica e finanziaria. Nel Consiglio di amministrazione l'Italia è rappresentata dal Direttore generale del tesoro. Alle riunioni di tale organo possono prendere parte in qualità di osservatori la Commissione europea e la BCE. Il vertice amministrativo dell'organismo, infine, è affidato a un Direttore generale che partecipa alle riunioni del Consiglio dei governatori, presiede quelle del Consiglio di amministrazione, è il rappresentante legale del MES, oltreché il capo del personale, e ne gestisce gli affari correnti sotto la direzione del Consiglio di amministrazione. Le decisioni relative alla concessione di assistenza finanziaria agli Stati aderenti sono adottate dal Consiglio dei governatori secondo la regola del comune accordo (unanimità dei membri partecipanti alla votazione, senza contare le eventuali astensioni). Al fine di rendere più flessibile il sistema decisionale in circostanze straordinarie in cui appare minacciata la stabilità finanziaria ed economica della zona euro, è previsto il voto a maggioranza qualificata dell'85% del capitale, qualora la Commissione e la BCE evidenzino la necessità di decisioni urgenti. In tali casi, in cui viene meno la regola del comune accordo, ai fini della decisione diviene rilevante il numero di diritti di voto di ciascun Stato aderente, proporzionale alla quota di partecipazione al capitale versato. Pertanto, in base all'attuale distribuzione dei diritti di voto Germania, Francia e Italia mantengono la possibilità di determinare, con la propria scelta individuale, l'esito delle votazioni a maggioranza qualificata previste nei casi d'urgenza.L'assistenza finanziaria del MES può essere offerta, previa domanda da parte di uno Stato aderente, nel caso in cui una situazione critica dal punto di vista nazionale minacci la stabilità finanziaria dell'intera zona euro e degli Stati membri che ne fanno parte. La fornitura di assistenza finanziaria ha, come conseguenza, la definizione di condizioni che lo Stato debitore è chiamato a rispettare, più o meno rigorose in ragione dello strumento di assistenza finanziaria scelto. Tali condizioni possono fare riferimento ad azioni e programmi da attuare per ottenere un miglioramento del bilancio dello Stato, o a parametri per i quali viene fissato un obiettivo quantitativo da rispettare, lasciando allo Stato la definizione degli strumenti da utilizzare a tal fine.

L'obiettivo del MES è, dunque, quello di salvaguardare la stabilità finanziaria della zona euro nel suo complesso e dei suoi Stati membri (articolo 12 del Trattato). A tal fine, il meccanismo può intervenire per fornire un sostegno alla stabilità dei Paesi aderenti che si trovino in gravi difficoltà finanziarie o ne siano minacciati, sulla base di condizioni rigorose, commisurate allo specifico strumento di sostegno utilizzato. In particolare, il MES può:

 fornire assistenza finanziaria precauzionale a uno Stato membro sotto forma di linea di credito condizionale precauzionale o sotto forma di linea di credito soggetto a condizioni rafforzate (articolo 14 del Trattato);

 concedere assistenza finanziaria a un membro ricorrendo a prestiti con l'obiettivo specifico di sottoscrivere titoli rappresentativi del capitale di istituzioni finanziarie dello stesso Paese membro (articolo 15);

 concedere assistenza finanziaria a un membro ricorrendo a prestiti non connessi a uno specifico obiettivo (articolo 16);

acquistare titoli di debito degli Stati membri in sede di emissione (articolo 17) e sul mercato secondario (articolo 18).

 

L'articolo 13 del Trattato definisce la procedura per l'attivazione di tali strumenti di sostegno. Le disposizioni in vigore prevedono che ciascuna delle azioni suddette sia associata alla definizione di condizioni proporzionate all'impegno richiesto, elaborate attraverso un percorso negoziale che coinvolge lo Stato interessato e la Commissione europea nella stipula di un protocollo d'intesa (memorandum of understanding, MoU). Prima di definire il protocollo, la Commissione europea, di concerto con la BCE, valuta anche la sostenibilità del debito pubblico dello Stato interessato. È prevista anche la possibilità di integrare la capacità di prestito del MES attraverso la partecipazione del Fondo monetario internazionale (FMI) alle operazioni di assistenza finanziaria. Inoltre, gli Stati membri dell'UE non facenti parte dell'Eurozona possono affiancare il MES, caso per caso, in un'operazione di sostegno alla stabilità prevista a favore di Stati membri dell'eurozona. Al termine del programma di assistenza finanziaria, la Commissione europea e la BCE eseguono missioni di controllo ex-post, alle quali partecipa anche il FMI se ha contribuito finanziariamente al programma medesimo, per valutare se lo Stato che ha beneficiato dell'assistenza finanziaria continui ad attuare politiche di bilancio sostenibili e se sussista il rischio che non sia in grado di rimborsare i prestiti ricevuti.

La proposta della Commissione europea volta a integrare pienamente il MES nell'ordinamento istituzionale dell'UE, trasformandolo in un Fondo monetario europeo (FME), non ha trovato il necessario consenso. La riforma del MES è divenuta comunque oggetto di una diversa soluzione, che prevede una revisione del Trattato istitutivo del MES, lasciando inalterata la natura di organizzazione intergovernativa del meccanismo.

Facendo seguito al mandato ricevuto dal Vertice euro del 14 dicembre 2018, l'Eurogruppo del 13 giugno 2019 ha raggiunto un accordo su una proposta di riforma del MES, nell'ambito di un più ampio pacchetto di interventi secondo cui la revisione del meccanismo viene collegata alla definizione di uno strumento europeo di bilancio per la convergenza e la competitività e al completamento dell'Unione bancaria. Il successivo Vertice euro del 21 giugno ha preso atto dell'accordo e ha chiesto all'Eurogruppo di proseguire i lavori in modo da consentire il raggiungimento di un accordo sull'intero pacchetto nel dicembre 2019 così da consentire prontamente l'avvio del processo di ratifica negli Stati membri.

 

 Su cosa e come è stato raggiunto un accordo.  (Di seguito per sommi capi)  

 

a)Con la modifica del Trattato istitutivo, oltre a sostenere la stabilità dei Paesi aderenti, il MES fornirebbe un dispositivo di sostegno (backstop) al Fondo di risoluzione unico istituito dal Regolamento (UE) n. 806/2014, sotto forma di linea di credito rotativo.  Il MES sarebbe destinato a supportare la risoluzione delle crisi sia con riferimento alle finanze pubbliche degli Stati membri che alle relative istituzioni bancarie e finanziarie, integrandosi nel quadro del Meccanismo di risoluzione unico delle banche e delle società di intermediazione mobiliare che prestano servizi che comportano l’assunzione di rischi in proprio (Single Resolution Mechanism, SRM), complementare al Meccanismo di vigilanza unico (Single Supervisory Mechanism, SSM).

In particolare, il nuovo articolo lato prevederebbe  che, se il Comitato di risoluzione unico (Single Resolution Board, SRB) dovesse chiedere l'attivazione del dispositivo di sostegno, il Consiglio dei governatori potrebbe decidere di istituirlo sulla base di una proposta del Direttore generale.Le decisioni sui prestiti e sulle erogazioni al Fondo dovrebbero essere prese dal Consiglio di amministrazione, secondo la regola del comune accordo, sulla base dei criteri identificati in sede di revisione (elencati nel nuovo allegato IV, incluso nel Trattato). Fra tali criteri, figurano il rispetto dei principi di continuità del quadro giuridico in materia di risoluzione bancaria, neutralità di bilancio nel medio periodo e di "ultima istanza", per cui al dispositivo di sostegno si può fare ricorso solo nel caso in cui risultino esauriti i mezzi del Fondo di risoluzione unico e il Comitato presenti comunque una capacità di rimborso sufficiente a ripagare integralmente a medio termine i prestiti ottenuti tramite il dispositivo di sostegno.

b) La procedura semplificata per la linea di credito condizionale precauzionale.Con riferimento all'assistenza finanziaria precauzionale (ovvero l'apertura di linee di credito a Paesi che ne fanno richiesta), sarebbe introdotta una procedura semplificata per i Paesi in grado di garantire il rispetto di specifici requisiti, indicati nell'allegato III del Trattato modificato.

 

c)Il riparto di competenze fra i soggetti chiamati a garantire l'attuazione del Trattato .Con la modifica del Trattato istitutivo, verrebbe ridefinito il riparto di competenze fra i soggetti chiamati a garantire l'attuazione del Trattato. In particolare, una posizione comune dovrebbe stabilire le nuove modalità di cooperazione tra il MES e la Commissione europea nell'ambito dei programmi di assistenza finanziaria, nel pieno rispetto del quadro giuridico dell'UE. Nel novembre 2018, il MES e la Commissione europea hanno firmato una posizione comune sulla loro futura cooperazione, nella quale è stato prospettato che l'effettiva ripartizione dei compiti deriverebbe dall'esatta portata dei criteri di ammissibilità e dalla condizionalità associata alle specifiche azioni di sostegno. Commissione e MES dovrebbero procedere ad incontri periodici e scambi di informazioni in relazione alle loro specifiche competenze.

d) Nella preparazione dell'assistenza finanziaria, la Commissione dovrebbe assicurare la coerenza fra le misure adottate e il quadro di coordinamento della politica economica, La valutazione della situazione macroeconomica e finanziaria degli Stati membri. L'introduzione delle clausole d'azione collettiva con approvazione a maggioranza unica, europea, lavorando sulla base delle proprie previsioni di crescita e delle ulteriori stime effettuate, mentre il MES dovrebbe valutare, nella prospettiva del creditore, le potenzialità di accesso al mercato da parte degli Stati membri e i relativi rischi. Nel caso in cui la collaborazione non dovesse portare a una posizione comune, alla Commissione europea spetterebbe la valutazione generale sulla sostenibilità del debito pubblico mentre al MES quella della capacità di rimborso del prestito da parte dello Stato membro interessato.

 Si precisa anche che il MES non dovrebbe essere usato per coordinare le politiche economiche tra i suoi membri, mentre si conferma il testo vigente per cui, in merito alle controversie fra parti contraenti, o tra dette parti e il MES, relative all'interpretazione e applicazione del Trattato, sarà competente la Corte di Giustizia dell'Unione europea.

e)La valutazione della situazione macroeconomica e finanziaria degli Stati membri

Con la riforma dell'articolo 3 del Trattato, verrebbe specificato che, ove necessario per prepararsi internamente a poter svolgere adeguatamente e con tempestività i compiti attribuitigli dal Trattato, il MES può seguire e valutare la situazione macroeconomica e finanziaria dei suoi membri, compresa la sostenibilità del debito pubblico, e analizzare le informazioni e i dati pertinenti.

f) Per quanto riguarda la negoziazione della condizionalità e il successivo monitoraggio, che il Trattato in vigore riserva alla Commissione europea, quest'ultima e il MES dovrebbero definire la loro collaborazione in un protocollo d'intesa, preservando il ruolo e le prerogative istituzionali derivanti dai trattati.

g) L'introduzione delle clausole d'azione collettiva con approvazione a maggioranza unica

Con la riforma dell'articolo 12 del Trattato, sarebbero modificate le clausole d'azione collettiva con l'introduzione, a partire dal 1° gennaio 2022, per i titoli di Stato della zona euro di nuova emissione con scadenza superiore a un anno, anche delle clausole d'azione collettiva con approvazione a maggioranza unica.

 

La modifica più rilevante alla procedura di concessione del sostegno prevista dall'articolo 13 appare quella per cui il Direttore generale dovrebbe affiancare la Commissione e la BCE nella valutazione della domanda di sostegno presentata da uno Stato membro del MES. Sulla base di tali valutazioni, spetterebbe sempre al Direttore generale la redazione di una proposta da sottoporre all'approvazione del Consiglio dei governatori relativa all'esito della richiesta e la preparazione di una proposta di accordo su un dispositivo di assistenza finanziaria, comprese le modalità e condizioni finanziarie e la scelta degli strumenti, che dovrà poi essere adottata dal Consiglio dei governatori. Il Direttore generale dovrebbe inoltre affiancare la Commissione europea e la BCE nell'attività di monitoraggio delle condizioni cui è associato il dispositivo di assistenza finanziaria, salvaguardando la piena indipendenza degli Stati, pur con la precisazione per cui tale indipendenza dovrebbe essere esercitata in modo tale da salvaguardare la coerenza con il diritto dell'Unione europea, sulla cui applicazione vigila la Commissione europea. Al Consiglio di amministrazione, infine, verrebbe assegnato il compito di adottare specifiche linee direttrici inerenti alle modalità di applicazione dell'assistenza finanziaria precauzionale e direttive particolareggiate inerenti alle modalità di attuazione del dispositivo di sostegno al Fondo di risoluzione unico. Il percorso di definizione degli accordi di cooperazione dovrebbe concludersi entro il dicembre del 2019 e la posizione comune dovrebbe essere aggiornata a seguito dell'adozione delle modifiche al trattato del MES.

 

NON E’ VERO CHE IL PARLAMENTO NON E’STATO INFORMATO

 

 IL MES NEL PARLAMENTO ITALIANO E NEL PARLAMENTO EUROPEO

Il 24 gennaio 2018 la 5a Commissione permanente del Senato (Programmazione economica, bilancio) ha adottato una risoluzione (Doc XVIII, n. 232 della XVII Legislatura) sulla proposta di trasformazione del Meccanismo europeo di stabilità in un Fondo monetario europeo.

In occasione delle Comunicazioni del Presidente del Consiglio dei ministri in vista delle riunioni del Consiglio europeo di fronte all'Assemblea del Senato, il presidente Conte ha fatto riferimento agli emendamenti al Trattato sul MES nelle seguenti occasioni:

- il 19 giugno 2019, in occasione delle Comunicazioni rese in vista del Vertice del 20 e 21 giugno 2019. Riferimento al MES è contenuto anche nella risoluzione 6-00065 (senatore Patuanelli e altri), approvata nel corso della seduta. Si veda anche la corrispondente seduta della Camera dei deputati; - il 19 marzo 2019, in occasione delle Comunicazioni rese in vista del Vertice del 21 e 22 marzo 2019. Si veda anche la corrispondente seduta della Camera dei deputati; - l'11 dicembre 2018, in occasione delle Comunicazioni rese in vista del Vertice del 13 e 14 dicembre 2018. Si veda anche la corrispondente seduta della Camera dei deputati; - il 27 giugno 2018, in occasione delle Comunicazioni rese in vista del Vertice del 28 e 29 giugno 2018. Si veda anche la corrispondente seduta della Camera dei deputati.   Si rileva inoltre il dibattito avvenuto presso l'Aula della Camera dei deputati il 31 luglio 2019 in occasione dello svolgimento di un'interrogazione a risposta immediata in merito all'iter della riforma del Trattato sul MES, anche ai fini del coinvolgimento degli organi parlamentari competenti (3-00919). Il Parlamento nelle sue articolazioni è stato messo dal Governo, come avrebbe dovuto, in grado di esaminare  le proposte di modifica del MES ,  ma non per consentire al parlamento di esprimersi con atto di indirizzo e sospendere ogni determinazione definitiva finché il Parlamento non si pronunci". Il  Presidente Conte informerà il Parlamento e chiederà nei successivi  minuti di accettare  la risoluzione  soprattutto per non fare brutta figura in Europa .. Si poteva fare di più e meglio e con i tempi richiesti, ma è troppo affermare  che Conte abbia attentato alla Costituzione, ma il percorso compiuto ha visto sempre e costantemente i partiti di maggioranza e minoranza coinvolti e convocati a discutere insieme. Chi non c’era ora non può accusare chi c’era  e ha rappresentato il nostro Paese alle condizioni date. Che francamente, diciamolo, sono disastrose per la politica.  

La violenza sulle donne sul lavoro e spesso anche indirette

VIOLENZA DI GENERE

Le violenze sulle donne sono molte, anche sul lavoro e spesso indirette

Autore: Alessandra Servidori    www.ildiariodellavoro.it 

 

Celebrare la giornata internazionale contro la violenza sulle donne significa allargare lo sguardo sulla condizione delle donne lavoratrici e non, non per loro volontà. Dal Report Istat del  Novembre 2019 a proposito di conciliazione: in Italia l’ 11,1%  è la percentuale di donne con almeno un figlio che non hanno mai lavorato per prendersi cura dei figli  mentre è 3,7% la media europea. 38,3% la quota di occupate 18-64enni con figli sotto i 15 anni che hanno modificato aspetti professionali per conciliare lavoro e famiglia e per i padri con le stesse caratteristiche il valore è 11,9%.In Italia i tassi di occupazione più bassi si registrano tra le madri di bambini in età prescolare: 53% per le donne con figli di 0-2 anni e 55,7% per quelle con figli di 3-5 anni. Per il lavoro delle madri è cruciale il titolo di studio: è occupato oltre l’80% delle madri con la laurea contro poco più del 34% di quelle con titolo di studio pari o inferiore alla licenza media. Il divario con le donne senza figli scende da 21 punti percentuali se il titolo di studio è basso a 3,7 punti se pari o superiore alla laurea. Il problema dell’assistenza a familiari malati, disabili o anziani bisognosi di cure è reso sempre più rilevante dall’invecchiamento progressivo della popolazione che interessa il nostro Paese. Nella fascia di età tra i 45 e i 64 anni, in sei casi su dieci sono le donne (un milione 343 mila) ad avere questo tipo di responsabilità: tra queste una su due è occupata (49,7%). Dal confronto con le donne che non hanno questo tipo di responsabilità emerge un divario tra i tassi di occupazione pari a quasi 4 punti percentuali.

L’interruzione lavorativa per chi è occupato o la mancata partecipazione al mercato del lavoro per motivi legati alla cura dei figli riguardano quasi esclusivamente le donne. Nel 2018, tra le donne da 18 a 64 anni che hanno avuto figli nel corso della vita, le occupate o le ex occupate che hanno interrotto l’attività lavorativa per almeno un mese continuativo  allo scopo di prendersi cura dei figli piccoli sono quasi il 50%.

Le difficoltà di conciliazione si fanno più evidenti in presenza di bambini molto piccoli, tra 0 e 5 anni. In particolare, tra le donne con bambini in età prescolare (quasi un milione e 300 mila) la quota di quelle che incontrano ostacoli supera il 39%, arrivando al 46,7% tra quelle che lavorano a tempo pieno. Le madri che lavorano part-time hanno problemi di conciliazione in misura minore (27,5% dei casi). Stessa situazione per i padri, ma con percentuali inferiori: fra loro dichiara di avere un problema di conciliazione il 37%, la quota scende al 25,4% tra quelli in part-time. Ha almeno un problema di conciliazione quasi il 42% di coloro che devono prendersi contemporaneamente cura di figli minori di 15 anni e di familiari non autosufficienti, e il 34,4% di coloro che hanno solo responsabilità di cura verso familiari disabili, malati o anziani.

Sono poi soprattutto le donne ad aver modificato qualche aspetto della propria attività lavorativa per meglio combinare il lavoro con le esigenze di cura dei figli: il 38,3% delle madri occupate, oltre un milione, ha dichiarato di aver apportato un cambiamento, contro poco più di mezzo milione di padri (11,9%). La quota è più alta tra le occupate residenti al Centro-nord (41%), tra quelle con due o più figli minori di 15 anni (41,2%) o con figli in età prescolare (42,6%). Tra le occupate a tempo parziale cinque su dieci hanno modificato almeno un aspetto del proprio lavoro, contro tre su dieci di chi ha un lavoro a tempo pieno. Anche tra le indipendenti quasi il 50% ha modificato un aspetto del lavoro, contro il 36,5% delle dipendenti. La quota è superiore alla media tra le donne che svolgono una professione qualificata o impiegatizia (42,1% e 43,5% rispettivamente) mentre è leggermente più bassa tra le addette al commercio e servizi (36,8%). Invece, tra le madri operaie oppure occupate in professioni non qualificate solo una su quattro ha modificato aspetti del proprio lavoro. Le principali modifiche riguardano la riduzione o il cambiamento dell’orario di lavoro. Tra le madri che hanno modificato aspetti del proprio lavoro più di sei su dieci hanno ridotto l’orario e circa due su dieci lo hanno cambiato senza ridurlo. La possibilità di modificare l’orario di inizio o di fine della giornata lavorativa e di assentarsi un’intera giornata per motivi familiari senza dover ricorrere a giornate di ferie, rappresentano importanti strumenti di conciliazione dei tempi vita-lavoro per i dipendenti con responsabilità di cura. Nel 2018 quasi il 39% dei dipendenti tra i 18 e i 64 anni (6 milioni e 862 mila) ha dichiarato di occuparsi di figli con meno di 15 anni o di prendersi regolarmente cura di parenti non autosufficienti di 15 anni e più; tra questi un terzo ha affermato di poter modificare l’orario di inizio o fine della giornata lavorativa ogni volta se ne presenti la necessità mentre il 28,4% solo in casi particolari.

Tra le madri di figli di 0-14 anni che dichiarano di non utilizzare i servizi circa il 15% ne avrebbe bisogno; tale quota sale al 23,2% per chi ha figli tra 0 e 5 anni, a 19,1% tra le non occupate e al 17,5% per le residenti nel Mezzogiorno. Le motivazioni per le quali non si ricorre all’utilizzo dei servizi sono perché troppo costosi (9,6%) oppure assenti o senza posti disponibili (4,4%). In particolare, lamentano costi troppo alti le madri con figli di 0-5 anni (15,6%) e le non occupate (12,9%), le quote più alte per la mancanza dei servizi sono sempre tra le madri di figli in età prescolare (6%) e le residenti nel Mezzogiorno (5,5%).

 Dunque, il problema che ci si trova ancora ad affrontare è quello della scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro, tenendo conto della società contemporanea in cui è in aumento il numero delle donne che vuole lavorare, è in aumento la popolazione anziana e quindi bisognosa di cure e ci si trova anche di fronte al dato di fatto che molti uomini vogliono partecipare attivamente al lavoro di cura, ma non sono incoraggiati a farlo.  Il problema accomuna le donne in tutta Europa però  sono differenti tra vari Stati le politiche adottate e ne dimostra la varietà una ricerca comparata interessante compiuta da un gruppo di ricercatori di ANPAL. C’è una stretta connessione tra la distribuzione delle responsabilità di cura tra uomini e donne e la sotto rappresentazione delle donne nell’occupazione. Le donne sono sempre più qualificate, superando persino gli uomini in termini di risultati scolastici in Europa, ma rimangono notevolmente sottorappresentate nel mondo del lavoro rispetto agli uomini. Nel 2017 il divario occupazionale di genere (età 20-64 anni) nell’UE ha raggiunto 11,5 punti percentuali.

Affrontare il problema della sotto rappresentazione delle donne nel mercato del lavoro, significa affrontare uno dei suoi principali fattori trainanti, che è sicuramente l’ineguale distribuzione delle responsabilità di cura tra donne e uomini. Altri fattori, come i disincentivi economici, compreso il divario di retribuzione tendono a rafforzare lo sbilanciamento dei carichi familiari a svantaggio della componente femminile. La genitorialità e le altre responsabilità di cura sembrano, quindi, essere una delle principali cause delle differenze occupazionali tra donne e uomini Le madri tendono ad essere meno rappresentate sul mercato del lavoro rispetto alle donne senza figli in tutti i livelli di istruzione e in tutti i tipi di famiglia. Il divario occupazionale di genere è particolarmente elevato per le donne poco qualificate e i genitori soli Nel complesso, la quota sproporzionata di responsabilità di cura assunta dalle donne ha come conseguenza che siano più assenti dal posto di lavoro, che prendano con maggior frequenza congedi più lunghi rispetto agli uomini, e siano costrette a ridurre l’orario di lavoro e in alcuni casi ad abbandonare del tutto il mercato del lavoro.

L’elaborazione di politiche di conciliazione vita lavoro può avere un forte impatto nel rafforzare o attenuare l’influenza del lavoro di cura sui risultati occupazionali delle donne. La concessione di congedi retribuiti tende ad aumentare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro consentendo loro di prendersi cura di un figlio o di un parente a carico, rafforzando al tempo stesso il loro rientro nel mercato del lavoro subito dopo la nascita del bambino o diversi anni dopo. Norme minime sulla durata del congedo sono stabilite nelle direttive sul congedo di maternità e sul congedo parentale e, sebbene esistano requisiti minimi in termini di retribuzione per il congedo di maternità, non esistono requisiti per la retribuzione del congedo parentale. Sebbene le modalità di lavoro flessibili, in particolare il telelavoro e lo smart working, siano di più facile fruizione grazie alle moderne tecnologie e abbiano dimostrato di migliorare l’equilibrio globale lavoro-vita privata e la produttività, l’organizzazione del lavoro tende tuttavia a rimanere rigida, ancorata alla presenza sul posto di lavoro sulla base dell’orario di lavoro. Anche le difficoltà di accesso ai servizi formali di custodia dei bambini possono indurre molte donne a ridurre l’orario di lavoro o a ritirarsi dal mercato del lavoro. La disponibilità dei servizi di cura per l’infanzia è un problema, in quanto la domanda di questi servizi supera l’offerta. Inoltre, spesso esiste un ampio divario tra la fine del congedo di maternità/parentale e il momento in cui si rende disponibile per i genitori un posto in un asilo, costringendo i genitori a trovare, ove possibile, soluzioni informali per poter ritornare entrambi nel mercato del lavoro.

Le politiche di conciliazione tra lavoro e vita privata, se ben concepite e implementate in alcuni stati Europei   possono sostenere l’indipendenza economica e il benessere di uomini e donne, in particolare consentendo una più equa ripartizione delle responsabilità di cura. Al contrario la loro mancanza conduce a rafforzare gli stereotipi di genere e ad incrementare le diseguaglianze tra uomini e donne tra lavoro retribuito e lavoro di cura non retribuito. Le politiche  assunte da alcuni Paesi relative ai congedi - disposizioni relative al congedo di maternità, al congedo parentale, al congedo di paternità e al congedo per assistenza ai familiari malati o disabili - si concentrano sulla possibilità, per le persone con responsabilità di cura di rimanere nel mondo del lavoro. La loro logica in relazione alla partecipazione femminile al mondo del lavoro è quella di dare alle donne, che spesso si occupano di un’ampia parte dell’assistenza informale, l’opportunità di conciliare l’occupazione con il lavoro di assistenza.

L’impatto potenziale di questa tipologia di politiche dovrebbe essere quello di riequilibrare l’utilizzo dei congedi stessi tra uomini e donne. L’utilizzo dei congedi da parte dei padri è una questione difficile da affrontare, ma vitale sia dal punto di vista culturale che economico: uno dei temi di maggior attenzione è la retribuzione dei congedi che spesso non è sufficiente affinché il padre ne possa usufruire. Dove il lavoro flessibile è attuato come un diritto universale e viene  ad essere percepito come reciprocamente vantaggioso per i dipendenti e i datori di lavoro si riesce ad offrire alle famiglie una maggiore flessibilità  spostandosi verso un riequilibrio degli impegni lavorativi e familiari non limitati alle donne. Le misure di work life balance hanno dimostrato di essere dirimenti per rimuovere gli ostacoli all’occupazione femminile, anche se a livello europeo sono sempre le donne che usufruiscono in misura maggiore di queste politiche e gli uomini tendono a limitarne l’utilizzo, dei progressi si sono comunque avuti soprattutto nei paesi che hanno coniugato servizi di cura accessibili, convenienti e di qualità.

 È noto, inoltre, che la partecipazione delle donne al mercato del lavoro risponde a (dis)incentivi fiscali, per cui la pressione fiscale relativamente più elevata può avere un impatto negativo sproporzionato sui risultati occupazionali. La stragrande maggioranza delle persone che percepisce un secondo reddito in coppia sono per lo più donne. L’introduzione, poi, di misure di flessibilità organizzativa significa introdurre un maggior bilanciamento nella ripartizione dei carichi di curaL’assenza di queste politiche tende comunque a rafforzare gli stereotipi tradizionali per quanto riguarda i ruoli di genere sul lavoro e a casa e, di conseguenza, ad ostacolare un maggiore coinvolgimento delle donne nel mercato del lavoro. Un tasso di partecipazione femminile più elevato può aumentare la parità di genere, promuovere la crescita economica e contribuire a migliorare la sostenibilità dell’attuale stato sociale, soprattutto alla luce dell’invecchiamento della popolazione. È perciò necessario intervenire con politiche strutturali e innovative - e non disperdere energie e risorse una tantum per niente sistematiche - che seguano il cambiamento sia del mercato del lavoro che l’evolversi della struttura della famiglia.

Bisogna investire su una cultura che consideri la conciliazione vita lavoro non un mero affare femminile, perché è a questo livello che si giocano i diritti dei cittadini europei. Ciò nella consapevolezza che le esperienze qui analizzate mettono in evidenza che permangono sostanziali disuguaglianze di genere nel lavoro retribuito e non retribuito, anche in quei paesi in cui sono state adottate politiche per la famiglia estensive.

Alessandra Servidori


25 Novembre 2019

 

La giornata contro la violenza sulle donne

Sorridi donna
sorridi sempre alla vita
anche se lei non ti sorride.
Sorridi agli amori finiti
sorridi ai tuoi dolori
sorridi comunque.
Il tuo sorriso sarà
luce per il tuo cammino
faro per naviganti sperduti.
Il tuo sorriso sarà
un bacio di mamma,
un battito d’ali,
un raggio di sole per tutti.

Alda Merini

 ..in occasione della giornata contro le violenze di ogni tipo sulla donna ..

Lia De Zorzi

LIA DE ZORZI VICE PRESIDENTETUTTEPERITALIA

LIA DE ZORZI        VICE PRESIDENTE TUTTEPERITALIA 

Come co-autrice della guida amichevole sui caregiver e a valle dell’interessantissimo evento organizzato per la sua presentazione il 12 novembre presso il Parlamentino dell’Inail e caratterizzato da relazioni davvero avvincenti, ritorno sul tema per esprimere qualche ulteriore considerazione personale.

Parlando di caregiver, il tema è quello dell’aiuto al disabile finalizzato a renderne dignitosa la quotidianità e un primo punto che mi preme affrontare è proprio la chiarezza terminologica fra “invalido”, “portatore di handicap” e “disabile”, spesso usati come equivalenti.

Infatti, nonostante la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 13 dicembre 2006 – recepita in Italia con legge 3 marzo 2009, n. 18 - prevedesse che l’unica definizione da adottare era quella di “disabile”, i tre distinti termini sono rimasti per indicare tre distinti filoni normativi che danno accesso a benefici molto diversi fra loro, molto sinteticamente così riassumibili:

Invalidità. Si basa sulla presenza di infermità fisiche e/o psichiche e sensoriali che comportano un danno funzionale permanente suscettibile di valutazione “quantitativa” medico legale; può essere “civile”, “previdenziale”, “previdenziale INAIL”, da “causa di servizio” o da “causa di guerra” a seconda sia del momento causale sia dello status di cittadino o di lavoratore, ognuna prevista da una o più leggi diverse, comportando di conseguenza Commissioni valutatrici afferenti a Enti diversi. Il suo riconoscimento avviene riferendosi a tabelle percentualistiche o a soglie e comporta sostanzialmente l’accesso a prestazioni economiche, a esenzione da tickets, a vantaggi sul raggiungimento del limite pensionistico per la vecchiaia. Di solito, al grado più elevato di invalidità – inabilità totale ovvero inabilità assoluta, se previdenziale Inps – è prevista, come prestazione subordinata e svincolata dal reddito, anche una Indennità che può essere concessa solo se si integra il requisito previsto e non è cumulabile ad altre analoghe prestazioni di diverso ambito. Ad es. sia nell’invalidità civile che in quella previdenziale INPS, i requisiti per conseguire l’Indennità di accompagnamento sono soltanto: a) impossibilità di deambulare senza l'aiuto permanente di un accompagnatore; b) non essere in grado di compiere gli atti quotidiani della vita. In Inail, le menomazioni che danno questo diritto, sono elencate in apposita tabella proprietaria del Testo unico (d.p.r. 1124/1965); in ambito causalità di servizio, invece esiste sia  l’indennità d’assistenza e d’accompagnamento, attribuita se presente una delle menomazioni di cui alla Tabella E sia  l’indennità di assistenza e accompagnamento aggiuntiva in caso di invalidi  a) affetti da cecità bilaterale assoluta e permanente accompagnata dalla perdita dei due arti inferiori o superiori  b) affetti dalla perdita anatomica dei quattro arti fino al limite del terzo superiore delle gambe e degli avambracci.

Handicap. Si basa sulla presenza di un processo di svantaggio sociale o di emarginazione causato da infermità fisiche e/o psichiche e sensoriali che comportano difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa, per cui la sua valutazione diventa “qualitativa” e non solo medico legale, esigendo la co-presenza di un esperto e di un operatore sociale. La legge prevede due “situazioni”: una di “base”, che è quella appena descritta, ed una “grave” in cui la riduzione dell'autonomia personale, correlata all'età, è tale da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione. La legge, nei suoi 44 articoli, correla alle descritte situazioni la possibilità di godere di benefici, servizi, riserve di alloggi e agevolazioni, fiscali e sociali. Tuttavia, il maggior interesse è focalizzato sulle agevolazioni lavorative - permessi, congedi, avvicinamenti - che solo con il riconoscimento dello stato di handicap grave (artt. 33c o.3) possono essere fruite. Un cenno particolare riguardo i congedi retribuiti, molto interessanti per il caregiver: istituiti inizialmente dalla Legge 388/2000 all’art. 80 co. 2, sono stati inseriti nel D. Lgs. 26 marzo 2001, n. 151 all’art. 42  co. 5 come successivamente modificato dal D. Lgs. 18 luglio 2011, n. 119 che ha rivisto la platea dei fruitori inserendo una ben precisa gerarchia molto stringente su cui desidero ritornare, avendo l’attuale disegno di legge in discussione sui caregiver ripreso integralmente il concetto.

Disabilità. E’ un termine per consuetudine riferito alla legge 12 marzo 1999, n. 68 - "Norme per il diritto al lavoro dei disabili" e indica persone in età lavorativa riconosciute invalide in uno dei diversi ambiti sopra indicati secondo precise e differenti soglie: a) se civile, superiore al 45 per cento; b) se INPS, ai sensi all'articolo 1, comma 1, della legge 12 giugno 1984, n. 222; c) se tecnopatica/infortunistica previdenziale, superiore al 33 per cento accertata da Inail; d) se di servizio o di guerra, ascritta a categoria di tab. A di cui al dPR 23 dicembre 1978, n. 915, e successive modificazioni.

 

Chi è il caregiver, oggi?  Con questo termine si designa indubbiamente l’”assistente familiare” che si prende cura a titolo gratuito di un proprio congiunto che versa in condizione di handicap grave accertato e, malgrado non ci sia e non debba esserci una differenziazione di genere, la prevalenza femminile nell’espletamento di questa funzione è un dato di fatto.

L’opera offerta con disponibilità full time - senza massimali orari secondo un gradiente di disponibilità e di conciliazione fra vita lavorativa e familiare - e senza alcuna contrattualizzazione viene prestata sia direttamente accudendo, sorvegliando, somministrando terapie che indirettamente provvedendo agli interessi economici e/o amministrativi, a sostegno dunque della qualità di vita del disabile.

E’ palese come, in conseguenza della gravosità dell’impegno, dell’indeterminatezza del tempo di dedicazione al disabile e per il coinvolgimento emotivo con quest’ultimo, il “caregiver” sia esposto a sviluppare fenomeni anche opposti e paradossali di ipercoinvolgimento o di distacco emotivo: in ogni caso, la reiterata “usura” induce effetti sulla salute stessa del caregiver, che progressivamente sviluppa (Burden del caregiver familiare) un crescendo di stress – di cui risente tutto il suo nucleo familiare e la persona accudita - e di depressione fino al burnout e alla riduzione dell’aspettativa personale di vita, tanto maggiore quanto più la dedicazione al disabile avviene in età giovanile.

Il fenomeno non può e non deve essere più sottovalutato o peggio sottaciuto perché, in Italia, oltre 7 milioni di persone di nazionalità italiana assistono parenti in casa, con un forte impatto in termini di lavoro perso o non acquisito e di flusso economico non incrementato da reddito diretto o attivamente effuso per spese di cura.

Questi dati descrivono una realtà silenziosa e, di fatto, molto variegata: se da un lato abbiamo il caregiver puro che non lavora o che ha dovuto lasciare il lavoro per dedicarsi al/ai disabile/i presenti in famiglia, dall’altro abbiamo il lavoratore che non può neppure permettersi di abbandonare il lavoro, dilatando la sua giornata di impegno molto al di là dell’orario di servizio, smesso il quale inizia quello di assistenza.

Per quanto detto, in quest’ultima caso, oggi solo qualora ci sia stato un riconoscimento di handicap in condizione di gravità è possibile fruire di agevolazioni lavorative, permessi e congedi, che persino la giurisprudenza di Cassazione, in recenti orientamenti, ritiene finalizzati imprescindibilmente alla cura del disabile ma anche al reintegro di energie del lavoratore che assiste il disabile o del disabile stesso, qualora lavori.

Malgrado, però, ci sia un gran parlare del “caregiver” e pur esistendo in Italia esempi virtuosi di valorizzazione della figura del caregiver in leggi regionali (es.  L.R. Emilia-Romagna 28 marzo 2014, n. 2), in momenti sperimentali di studio (Progetto europeo PRODOME) o mediante attivazione di tutele specifiche, come del tutto di recente è accaduto in Inail …  per giungere ad una legge che ne dia una definizione univoca e ad essa correli diritti e facility, il percorso è ancora frastagliato, anche se oggi è agevolato dall’emanazione della Direttiva UE sul Work-Live Balance.

Attualmente è a buon punto il ddL 1461 che ha riunificato ben sei diverse iniziative.

Buonissima cosa, ma la mia esperienza di medico valutatore mi porta a vederne alcuni risvolti critici quando dal momento astratto definitorio si passerà al momento concreto dell’applicazione.

Gli articoli del ddL ricalcano praticamente quanto già introdotto dal D. Lgs. 119/2011; a mio avviso, questo comporterà alcune conseguenze che non sposteranno di molto quanto già è oggi, per considerazioni sul piano sia medico legale sia economico.

Questi paiono essere i punti di perplessità:

  1. A.  la definizione di caregiver descrive in buona sostanza quello che oggi è il lavoratore che fruisce dei permessi previsti dalla legge 104/1992 o dei congedi ex lege 151/2001, anche se parrebbe intuirsi che può applicarsi anche a un “non” lavoratore. Quali i limiti definitori?

 

4   La genericità definitoria: caratterizzare il disabile di cui il caregiver, per essere definito tale, deve occuparsi come un familiare “che a causa di malattia, anche oncologica, infermità o disabilità, anche croniche o degenerative, non sia autosufficiente e in grado di prendersi cura di sé, sia riconosciuto invalido in quanto bisognoso di assistenza globale e continua di lunga durata” significa di fatto modificare alcuni parametri valutativi medico legali inserendo qualificazioni ambigue e forse anche ormai sul piano scientifico anacronistiche:

  • § Oncologiche: riferimento davvero pleonastico, essendo una delle prime cause di concessione del co.3, quando in effervescenza di disabilità
  • § Malattia, infermità e disabilità: termini assolutamente non equivalenti e forieri di pretese confondenti sul piano valutativo, laddove con l’unica locuzione “a causa di infermità sia divenuto disabile e versi in condizioni di permanente non autosufficienza tale da richiedere un intervento di assistenza globale e continuativa” sarebbe sussumibile idoneamente ogni situazione finora descritta. In particolare, il riferimento alla permanenza e non alla cronicità è più appropriato sul piano medico legale, ricomprendendo concettualmente proprio le situazioni di “lunga durata” in cui non è prevedibile la fine, e sgancia sia dal vincolo temporale (quanto dura il “lunga”?) sia dal concetto, concettualmente più clinico, di cronicità decisamente ambiguo in sede valutativa, perché quasi tutte malattie sono croniche e molte di esse non producono alcuna disabilità.

 

4   La rigidità della gerarchia: nella pratica concreta esistono moltissimi casi in cui sono i parenti/affini a più lasso legame ad occuparsi del disabile o perché i parenti/affini più stretti sono mancanti per morte, malattie, vecchiaia o perché sono disinteressati totalmente alla cura del loro caro: in queste situazioni il disabile è di fatto abbandonato a se stesso. Questa particolare legge dovrebbe invece svincolare da una gerarchia codicistica l’individuazione della figura del caregiver, nel vero e unico interesse del disabile limitandosi a far riferimento al concetto di familiare o affine rimanendo il vincolo dell’unicità della nomina in capo ad un solo soggetto.

 

4   I Contributi figurativi: non viene chiarito se sono riassorbiti i due anni di congedo già previsti dalla legge 151/2001, consistendo quindi in un beneficio di 1 anno in più, o se ad essa si aggiungono. Nessuna previsione circa la possibilità di proseguire volontariamente l’assicurazione come caregiver: di fatto, tutta la platea di persone che hanno abbandonato o non iniziato il lavoro per dedicarsi full time al disabile restano in un limbo assicurativo che non tratteggia un roseo futuro.

 

4   La trimestralità delle dichiarazioni: sembra davvero un eccesso di burocratizzazione sicuramente ispirato agli adempimenti del lavoro domestico; tuttavia qui si verte in un particolarissimo tipo di lavoro solo latamente assimilabile a quello domestico svolto da domestiche per lo più estranee. Qui si verte in un tipo di lavoro più di carattere infermieristico-assistenziale che di mera pulizia / accudimento domestico; quindi, questo riferirsi all’INPS trimestralmente quando, fra l’altro sono previste stringenti adempimenti per l’atto di nomina, sembra davvero un inutile gravame sulla già difficile vita del caregiver.

 

  1. B.   Serio appare il timore che in assenza di una legge sulla non autosufficienza e di un remake della legge 104/1992 - che è e rimane una grandiosa legge di ampio respiro sociale con una vision davvero ancora d’avanguardia in tutela dell’uomo nel momento della sua fragilità - la platea di beneficiari si allarghi a tutta quella oggi fruitrice dei permessi ex art. 33 co. 3 della citata legge 104/1992 … annacquando, per così dire, l’intento primario del legislatore e disperdendo in molti rivoli le risorse economiche disponibili per garantire quella tutela “orientata”, cui oggi aspirerebbero molte persone pesantemente provate dall’accudimento domestico del loro caro.

Infatti, oggi esiste un solo grado di gravità cui rapportarsi quando si decide in merito al conferimento del co.3. dell’art. 33 e che, una volta accordato, apre la strada all’esigibilità di tutte le tutele analizzate.

Ed è proprio qui che il legislatore dovrebbe agire rimodulando la legge.

E’ di tutta palese evidenza che la “gravità” pur presente si dispiega in un gradiente progressivo, non sufficientemente descritto dall’attuale definizione di legge; molteplici sono le situazioni bisognevoli di presenza e di aiuto, ma l’impegno erogato e il livello di usura da e in chi assiste è direttamente proporzionale in termini di logorio alla qualità della disabilità che emendano.

In altre parole, i bisogni sono ben diversi, anche in termini psicologici, se si deve assistere il piccolo minore diabetico che necessita di insulina e il sordocieco con ulteriore malattia neuro-degenerativa o il mieloleso a livello cervicale per trauma stradale o ancora l’anziano allettato con piaghe da decubito.

Oggi, tutte queste situazioni sono meritevoli del riconoscimento di handicap grave, ma domani chi li assiste può essere definito in ogni caso caregiver?

Forse sì o forse no ... personalmente tenderei per questa seconda ipotesi, valorizzando una differenziazione e una gradualità nell’impegno.

Mi piacerebbe, infatti, che il legislatore prendesse in considerazione l’ipotesi di garantire al caregiver estese tutele previdenziali e vantaggi nel re-inserimento agevolato al lavoro in caso di cessazione dalla funzione di caregiver, correlando questa figura solo a chi si occupa di disabili gravissimi, lasciando inalterate o appena ritoccate le agevolazioni attuali per chi si occupa di disabili gravi. Nel contempo, mi piacerebbe che dopo il comma 3 fosse inserito un comma 3-bis ad esempio del seguente tenore:

“Qualora la minorazione di grado elevato, singola o plurima, stabilizzata o ingravescente, scarsamente responsiva a terapie e riabilitazione, abbia reso totalmente non autosufficiente la persona suscettibile di riconoscimento di indennità di accompagnamento di cui alla legge 11 febbraio 1980, n. 18, non revisionabile ai sensi del DM economia e finanza 2 agosto 2007, o comunque definita non autosufficiente ai sensi dell'allegato 3 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri n. 159 del 2013, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo, globale e di durata, anche prospettica, non inferiore ad un anno nella sfera individuale e in quella di relazione, LA SITUAZIONE ASSUME CONNOTAZIONE DI GRAVITÀ ELEVATA. Le situazioni riconosciute di gravità elevata determinano priorità nei programmi e negli interventi dei servizi pubblici per il disabile e per il suo caregiver.”

Dott.sa LIA DE ZORZI è Vice Presidente dell’Associazione Nazionale TutteperItalia Medico legale .Esperta di Politiche sociali è Coordinatore Centrale Inps-Ha scritto numerosi testi scientifici tra i quali la Tutela Previdenziale della malattia  della parentalità e dell’handicap- Editore Giuffrè- E’  autrice insieme ad Alessandra Servidori della Guida Amichevole per Assistenti familiari (caregiver)  su attualità normative e misure operative per chi assiste i familiari. Ottobre 2019 .

 

30 anni di Convenzione Internazionale sui diritti dell'infanzia :a che punto siamo

DIRITTI      www.ildiariodellavoro.it 

30 anni di Convenzione Internazionale sui diritti dell’Infanzia: a che punto siamo (anche in Italia)

 

Il 20 novembre 1989 a NY fu firmata la Convenzione Internazionale per la difesa dei diritti dell’infanzia, ben delineata nei 54 articoli che la compongono. Successivamente 194 Stati l’hanno ratificata e l’Italia nel 1991 fu tra i primi che l’assunse, con la legge del 27 maggio 1991 n. 176, Ratifica ed esecuzione della convenzione sui diritti del fanciullo, pubblicata nella G.U. 11 giugno 1991, n. 135, S.O. Per garantire il rispetto dei diritti enunciati nella Convenzione, nella parte seconda è stato istituito un Comitato Onu sui Diritti dell’Infanzia. Il Comitato ha il compito di esaminare i progressi dei vari Stati nella messa in pratica degli obblighi sanciti dalla Convenzione. Secondo il Rapporto che il Comitato redige,  è argomentato  giuridicamente l’assunto secondo cui le  violazioni più gravi sui bambini costituiscono una grave trasgressione delle norme di diritto internazionale applicabile ai conflitti armati, ossia il diritto e le norme a tutela dei diritti umani. Il mandato del Rappresentante Speciale  è l’affermazione, come obbligo morale della comunità internazionale, della necessità di tutelare e vigilare sul rispetto dei diritti dei bambini e far cessare l’impunità che segue la commissione di tali crimini.

Le violazioni più gravi vengono commesse nei contesti di conflitto. Secondo le stime di Save the Children, sono 420 milioni i bambini che oggi vivono in zone di guerra. In particolare, l’Asia è il continente dove il maggior numero di bambini – circa 195 milioni – vive in aree di conflitto, seguita dall’Africa – 152 milioni. Un dato preoccupante riguarda il Medio Oriente: il 40 % dei bambini conosce la guerra fin dalla nascita. Oggi, a 30 anni dall’adozione della Convenzione, si registrano dei progressi significativi sulla condizione dei bambini nel mondo (fonte Global Childhood Report 2019 di Save the Children). A proposito di matrimoni forzati e spose bambine, il numero è sceso di 10 milioni (47 milioni del 2000, 37 milioni nel 2017) e quello delle gravidanze precoci di 3 milioni (16 milioni registrate nel 2000, 13 milioni nel 2016).

Inoltre, è importante evidenziare che, rispetto a 20 anni fa, le morti infantili sono diminuite di 4,4 milioni all’anno (da 9,8 a 5,4 milioni); il numero di bambini affetti da malnutrizione è sceso di 49 milioni (dai 198 milioni di casi registrati nel 2000 agli attuali 149 milioni); 115 milioni di bambini in più hanno avuto accesso all’istruzione (si è passato dal 74% di accesso all’istruzione del 2000 all’attuale 82%) e 94 milioni di bambini in meno sono coinvolti in lavori minorili (246 milioni nel 2000, 152 milioni nel 2016).Ad oggi, i maggiori progressi in termini di tutela dell’infanzia si registrano in Sierra Leone, Ruanda, Etiopia e Niger, mentre i paesi più a misura di bambino sono Singapore, Svezia e Finlandia, con l’Italia all’ottavo posto.

Nel 1997 in Italia è stato istituito  l’Osservatorio nazionale per l’infanzia e l’adolescenza insieme alla Commissione parlamentare per l’infanzia e l'adolescenza, dalla legge 451/1997 ed è attualmente regolato dal DPR 14 maggio 2007 n. 103 che ne affida la presidenza congiunta al Ministro del lavoro e delle politiche sociali e al Ministro con delega per le politiche della famiglia. L’osservatorio coordina amministrazioni centrali, Regioni, enti locali, associazioni, ordini professionali e organizzazioni non governative che si occupano di infanzia. L’Osservatorio nazionale ha il compito di predisporre documenti ufficiali relativi all’infanzia e all’adolescenza: il Piano nazionale di azione e di interventi per la tutela dei diritti e lo sviluppo dei soggetti in età evolutiva, elaborato ogni due anni con l’obiettivo di conferire priorità ai programmi riferiti ai minori e di rafforzare la cooperazione per lo sviluppo dell’infanzia nel mondo.

Il Piano nazionale, acquisito il parere obbligatorio della Commissione parlamentare per l’infanzia e l'adolescenza, è approvato dal Consiglio dei ministri, adottato con decreto del Presidente della Repubblica e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale la Relazione Biennale sulla condizione dell’infanzia in Italia e sull’attuazione dei relativi diritti Lo schema del Rapporto del Governo all’ONU sull’applicazione della Convenzione internazionale sui diritti del fanciullo del 1989, alle scadenze indicate all’art. 44 della Convenzione.

Negli ultimi 10 anni i minori vittima di violenza sono aumentati del 43%. Un numero che preoccupa e che mostra tutta il lavoro che c’è da fare per arginare i reati contro i più vulnerabili. Il dato più allarmante è quello legato alla pedopornografia: nel 2017 gli arresti per detenzione di materiale pedopornografico sono aumentati del 57%.  Per alcuni reati come la violenza sessuale, la pornografia minorile e la tratta di esseri umani le vittime sono soprattutto di sesso femminile. Ma a mietere il maggior numero di vittime sono i maltrattamenti familiari. Solo nel 2017, ben 1.723 bambini sono stati molestati all’interno delle mura domestiche. Grave anche il dato che riguarda le gravidanze precoci. Più di 1.500 le madri minorenni, perlopiù italiane: tra queste 11 hanno meno di 15 anni. Sicilia e Campania sono le regioni con maggior incidenza seguite da Lombardia e Lazio. Spesso queste giovani lasciano agli studi compromettendo così la possibilità di raggiungere una posizione lavorativa altamente specializzata. Per la prima volta il dossier si è occupato di una forma di sfruttamento che si cela dietro le luci della ribalta. In Italia infatti sono più di 2.000 i bambini che fanno parte dello showbiz, un mondo che in alcuni casi documentati da TdH, grava sul sereno sviluppo dei più piccoli.

 Crisi economica, diminuzione degli strumenti di protezione sociale. Sono queste le cause che hanno portato in 12 anni all'aumento vertiginoso delle persone che vivono in condizioni di povertà assoluta, ovvero non potendo sostenere le spese per uno stile di vita accettabile. I numeri non lasciano spazio a ottimismo: dal 2005 gli indigenti sono passati dal 3,3 all'8,4% della popolazione italiana.  A risentire maggiormente delle difficoltà economiche sono i più giovani. Stando ai dati, gli under 18 che vivono in povertà estrema sono più numerosi rispetto alle altre fasce d'età. In un decennio l'impoverimento delle famiglie con figli ha portato all'incremento di bambini e ragazzi indigenti.  A questo aumento si affianca un altro trend: il numero degli over 65 in condizioni di povertà è rimasto pressoché stabile, attorno al 4,5%,  dal 2005 ad oggi.

Ad aumentare è anche il divario tra le varie fasce d'età. Se i livelli precrisi vedevano una distanza di 2 punti percentuali tra la fascia d'età più povera e quella più benestante, oggi la forbice si sta allargando: più l'età cresce, più la ricchezza aumenta con distanze che toccano gli 8 punti percentuale. Secondo il rapporto: "L'aumento della povertà infantile è stato collegato a fenomeni che minano la coesione sociale: mancato sviluppo personale e cognitivo, difficoltà nel trovare un'occupazione stabile , maggiore dipendenza dall'assistenza sociale e un più elevato rischio di dipendenze”. La distribuzione dei minori italiani che rappresentano il 16% della popolazione varia profondamente in base alle diverse aree geografiche. Alcune regioni come Trentino-Alto Adige e Campania sono al di sopra della media nazionale, mentre in Liguria e Sardegna la percentuale è ben al di sotto con tassi inferiori al 14%. Significativa anche le forti differenze che esistono tra le diverse città.  Capofila per numero di under 18 sono tre città del meridione: Napoli, Palermo e Catania dove si stima che i minorenni rappresentino più del 17% della popolazione residente. Le tre città sono anche quelle con il più alto tasso di vulnerabilità sociale. Al quarto posto delle città con maggior concentrazione di minorenni c'è Roma. È proprio nelle periferie che cresce il pericolo di vulnerabilità sociale e materiale.

Da sottolineare il fatto dell’istituzione dell’Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza - avvenuta ad opera della legge n. 112 del 12 luglio 2011 che la descrive quale figura specificatamente deputata ad operare per assicurare la piena attuazione e la tutela dei diritti e degli interessi di bambini e adolescenti - che costituisce per la Repubblica italiana un progresso, nel novembre 2011 sia stato  nominato il Garante nazionale dà concretezza alla scelta del nostro Stato di dotarsi, finalmente, di quello che è considerato, a livello internazionale, uno degli strumenti più importanti per la protezione dei diritti e degli interessi delle persone di minore età. Peraltro, con questa legge si è anche dato “nuovo smalto” a quanto sancito, già nel 1947, nella Carta costituzionale la quale, al secondo comma dell'art. 31, stabilisce che la Repubblica "protegge la maternità, l'infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo".

Significativamente il primo articolo della legge n. 112/2011 indica, come sua principale finalità, l’attuazione della Convenzione Onu del 1989 e di altre convenzioni internazionali di protezione dell’infanzia. Con questi organismi già operativi dovremmo sicuramente essere molto più incisivi di quello che siamo visti i deludenti  risultati della tutela dei diritti dei nostri bambini e adolescenti.

 Alessandra Servidori


No alla criminalizzazione dell'educazione sessuale in Polonia

QUI EUROPA    www.ildiariodellavoro.it 

No alla criminalizzazione dell’educazione sessuale in Polonia

Il PE a maggioranza chiede al Parlamento polacco di respingere la controversa proposta di legge che prevede condanne feroci per le insegnanti di educazione sessuale .Il Parlamento avverte che la sicurezza  dei giovani  è oggettivamente a rischio senza adeguata educazione sessuale anche a fronte degli ultimi dati dell’OMS che riguardano una preoccupante intensificazione di patologie  sessuali trasmissibili e si chiede oggettivamente di avere più fondi  per le organizzazioni che offrono educazione sessuale. Nella risoluzione votata oggi, il PE esprime preoccupazione per il disegno di legge polacco che minaccia punizioni fino alla detenzione per gli insegnanti di educazione sessuale.

Nel testo, approvato con 471 voti favorevoli, 128 contrari e 57 astensioni, i deputati hanno condannato il progetto di legge   che prevede di emendare una legge contro la pedofilia in cui gli insegnanti sarebbero puniti fino a tre anni di carcere  e adirittura sono state avanzate proposte per aumentarla fino a cinque anni. Il Parlamento europeo ha condannato tali sviluppi in Polonia, volti a disinformare nonché stigmatizzare e vietare l'educazione sessuale. Ha poi invitato il Parlamento polacco ad astenersi dall'adottare il progetto di legge proposto, che può essere visto come un altro tentativo in Polonia di limitare i diritti sessuali e riproduttivi, come il diritto all’aborto.

E’ al contrario indispensabile proteggere i giovani dagli abusi attraverso una migliore educazione. Anzi nella risoluzione si incoraggiano gli Stati membri a introdurre nelle scuole un'educazione sessuale e affettiva completa e adeguata all'età dei giovani. Inoltre, il Parlamento ha sottolineato come la mancanza di informazioni e di educazione in materia di sessualità metta a rischio la sicurezza e il benessere dei giovani, rendendoli più vulnerabili e meno preparati dinanzi allo sfruttamento sessuale, agli abusi e alla violenza, comprese la violenza domestica e forme di abuso online. Insegnare ai giovani relazioni basate sull'uguaglianza di genere, sul consenso e sul rispetto reciproco può essere il mezzo per prevenire e combattere gli stereotipi e la violenza di genere, l'omofobia e la transfobia. Riconoscendo l'importante ruolo svolto dalla società civile nella trasmissione dell'educazione sessuale, il Parlamento ha anche chiesto che siano messi a disposizione delle organizzazioni interessate  finanziamenti adeguati a livello europeo, sia attraverso il programma Diritti e valori per il 2021-2027, sia attraverso altri progetti pilota. Infine il Parlamento,  invita il Consiglio ad affrontare le presunte violazioni dei diritti fondamentali in Polonia, nel contesto delle sue attuali audizioni sulla situazione nel Paese, conformemente all'articolo 7 del Trattato sull’Unione Europea. 

La proposta polacca è ancora più grave considerando che la Polonia ha ratificato la Convenzione di Istanbul, la Convenzione di Lanzarote, la Convenzione sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna (CEDAW) e la Convenzione sui diritti del fanciullo, ed è tenuta, a norma del diritto internazionale in materia di diritti umani, a fornire l'accesso a un'educazione e a informazioni complete sulla sessualità, compresi i rischi di sfruttamento e abuso sessuale, e a contrastare gli stereotipi di genere nella società. La proposta di legge è ancora più grave considerando che in 20 Stati membri è già obbligatorio fornire una qualche forma di educazione sessuale e sanitaria; che alcuni Stati membri, tra cui la Polonia, non si sono conformati alle norme per l'educazione sessuale in Europa elaborate dall'OMS. L'accesso a informazioni complete e adeguate all'età riguardanti il sesso e la sessualità, e l'accesso all'assistenza in materia di salute sessuale e riproduttiva, compresa l'educazione sessuale, la pianificazione familiare, i metodi contraccettivi e l'aborto sicuro e legale, sono essenziali per creare un approccio positivo e rispettoso alla sessualità e ai rapporti sessuali, come anche la possibilità di avere esperienze sessuali sicure, in assenza di coercizioni, discriminazioni e violenza; incoraggia tutti gli Stati membri a introdurre nelle scuole un'educazione sessuale e affettiva completa e adeguata all'età destinata ai giovani.

Alessandra Servidori


15 Novembre 2019

GUIDA AMICHEVOLE PER CAREGIVER

 WORD CANCER DAY- TUTTEPERITALIA-NoituttiperBologna- UNIMORE- ORDINE DEI-MEDICI-BOLOGNA-

              ISTITUTO RAMAZZINI- INAIL- INPS- ANT-CGIL-CISL-UIL- COMUNE DI BOLOGNA


GUIDA AMICHEVOLE  per le e gli Assistenti  Familiari  (CAREGIVER) Presentata a Roma il 12 novembre 2019

 

Attualità normative, chi è l’assistente familiare ( caregiver), quali misure sono operative in favore per chi assiste i familiari e chi ne può beneficiare, uno sguardo all’Europa

 

Norme vigenti

 

* Legge 27 dicembre 2017, n. 205 (Legge di Bilancio 2018) - All’Art. 1 co. 254, per la prima volta, viene istituito un Fondo statale per il caregiver familiare – come definito nel successivo comma 255 - che viene dotato 20 milioni all’anno a disposizione di iniziative per chi ha il ruolo di cura e assistenza del familiare per un totale di 60 milioni di euro per 3 anni fino al 2020.

Tuttavia, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali non ha ad oggi ancora emanato i decreti attuativi necessari per stabilire le misure specifiche; per cui, anche se la copertura finanziaria esiste, non è ancora noto come si spenderanno le risorse. Il Fondo quindi resta nelle cose da fare del nuovo governo.

 

Legge 30 dicembre 2018, n. 145 (Legge di Bilancio 2019) - pubblicata il 31 dicembre 2018 in Gazzetta Ufficiale. All’Art. 1 co. 483 viene incrementato il Fondo per il caregiver familiare di 5 milioni di Euro per ciascuno dei successivi tre anni, portandolo annualmente a 25 milioni di euro per il 2019, 2020 e 2021. Il co 484 prevede che al termine di ciascun anno finanziario le somme residue del Fondo di cui al co 483 non impegnate sono versate all’entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnate al medesimo Fondo dal Ministro dell’Economia con proprio decreto operando la variazione di bilancio.

Ma ancora una volta, pur esistendo il Fondo, mancano i decreti relativi agli interventi per distribuirli: i disegni di legge sono stati presentati ma sono ancora in fieri all’esame delle Camere.

 L’Assistente familiare (caregiver familiare)

 

Il testo della legge definisce il caregiver familiare come "persona che assiste e si prende cura del coniuge, dell'altra parte dell'unione civile tra persone dello stesso sesso o del convivente di fatto ai sensi della legge 20 maggio 2016, n. 76, di un familiare o di un affine entro il secondo grado, ovvero, nei soli casi indicati dall'articolo 33, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, di un familiare entro il terzo grado che, a causa di malattia, infermità o disabilità, anche croniche o degenerative, non sia autosufficiente e in grado di prendersi cura di sé, sia riconosciuto invalido in quanto bisognoso di assistenza globale e continua di lunga durata ai sensi dell'articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, o sia titolare di indennità di accompagnamento ai sensi della legge 11 febbraio 1980, n. 18”.

Più genericamente, in sintesi, può essere definito come l'assistente familiare volontario che quotidianamente e gratuitamente assiste un parente non autosufficiente.

Questa figura, mai riconosciuta prima da nessuna legge, presta assistenza 24 ore su 24, in modalità: diretta: attraverso atti relativi a bisogni primari che l'invalido non riuscirebbe a soddisfare da solo (lavare, stirare, vestire, medicare, pulire casa, preparare i pasti, somministrare farmaci, cura e igiene della persona); indiretta: sbrigando le questioni amministrative che dovrebbe compiere l'assistito, sorvegliando il familiare in modo attivo (ossia intervenendo in caso di pericolo) o passivo (se allettato).

 

Benefici attualmente operanti

 

LEGGE 104/1992

La legge 104/1992 è una legge quadro, cioè detta i principi dell’ordinamento in materia di diritti e assistenza della persona con handicap.

Nonostante il termine "handicap" sia superato dal più corretto riferimento a "persona disabile", ancor oggi, riferendosi alla legge 104/1992 e per differenziarla dalla legge 68/1999, “handicap” è in uso corrente.

La legge prevede 44 articoli che si occupano della tutela della persona titolare del riconoscimento, definendo le situazioni di handicap e correlando ad esse benefici e agevolazioni.

Solo all’art. 33, la legge si occupa anche del familiare prevedendo specifici permessi, trasferiti oggi al caregiver familiare; qui, nei diversi commi si affrontano importanti aspetti relativi ai permessi a cui ha diritto il caregiver familiare lavoratore e alle relative modalità di loro fruizione.

Diritto: tre giorni anche continuativi di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa

Pre-condizioni:

  • la persona disabile deve essere stata riconosciuta portatrice di handicap in situazione di gravità (Art. 3 co.3 legge 104/1992: Qualora la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l'autonomia personale, correlata all’età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione, la situazione assume connotazione di gravità.)
  • la persona disabile non deve essere ricoverata a tempo pieno,
  • il lavoratore dipendente, pubblico o privato, che l’assiste deve essere coniuge, parente o affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado solo in caso si verifichino previste circostanze (qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti).
  • la persona disabile, se lavora, può fruire per se stessa dei permessi e, oltre la propria persona, può scegliere per la propria assistenza solo un lavoratore; tale scelta è eventualmente revocabile, potendo avvalersi dell’aiuto di un altro lavoratore: sempre però uno per volta.

Unica eccezione: l'assistenza allo stesso figlio; in tal caso il diritto e' riconosciuto ad entrambi i genitori, anche adottivi, che possono fruirne alternativamente

Mentre il disabile non può, quindi, avvalersi di più lavoratori per farsi  assistere (principio del “referente unico”), al lavoratore dipendente è consentito:

„ assistere più persone disabili in situazione di gravità e  di usufruire di 3  giorni (anche continuativi) di permesso mensile per ciascuna di esse;

„ non svolgere lavoro notturno

„ scegliere eventualmente la sede di lavoro se disponibile e/o non essere trasferito senza il suo consenso.

 

DECRETO LEGISLATIVO 119/2011

Il caregiver familiare che assiste persona con handicap in situazione di gravità può – secondo, tuttavia, una ben precisa gerarchia di priorità recentemente novellata (Circ. INPS 49/2019 p.to 2) - anche usufruire di un periodo di assenza retribuita dal lavoro chiamato “congedo straordinario” di cui all’Art. 42 co.5 del D.lgs. n. 151/2001: tale periodo dura al massimo per 2 anni nell’intera vita lavorativa, anche in modo frazionato nel tempo, indipendentemente dal numero di persone disabili che assiste.

 

E’ mantenuto il principio del “referente unico”, secondo cui ogni persona disabile non può essere assistita da più di un lavoratore per volta e il massimo periodo di assistenza di cui può disporre è di 2 anni: in pratica, esiste un doppio vincolo dei 2 anni in capo sia al lavoratore sia al disabile (Circ. INPS 32/2012), con agevolazioni specifiche per i genitori.L’indennità corrisponde alla retribuzione percepita nell’ultimo mese di lavoro che precede il congedo e il tetto massimo complessivo dell’indennità per congedo straordinario e del relativo accredito figurativo è rivalutato annualmente secondo gli indici Istat. I periodi di congedo non sono computati ai fini della maturazione di ferie, tredicesima e TFR ma, essendo coperti da contribuzione figurativa, sono validi ai fini del calcolo dell’anzianità assicurativa.

Riguardo i genitori, anche adottivi, di bambini con handicap in situazione di gravità, gli stessi possono fruire del prolungamento del congedo parentale o, in alternativa, dei riposi orari retribuiti fino al compimento del terzo anno di vita del bambino; in sintesi, possono fruire:

  • se i bambini hanno fino a tre anni di età, in alternativa di
    • tre giorni di permesso,
    • ovvero delle ore di riposo giornaliere,
    • ovvero del prolungamento del congedo parentale;
    • se i bambini hanno oltre i tre anni e fino agli otto anni di vita, in alternativa di
      • tre giorni di permesso,
      • ovvero del prolungamento del congedo parentale;
      • figli oltre gli otto anni di età, tre giorni di permesso mensile.

I giorni fruiti a titolo di congedo parentale ordinario e di prolungamento del congedo parentale non possono superare complessivamente in totale i tre anni.

 

APE SOCIALE

Si tratta di un beneficio a domanda che-in assenza di cause di esclusione/incompatibilità e in presenza di determinati requisiti anagrafici, contributivi e circostanziali - consiste in un’indennità pari all'importo della rata mensile di  pensione calcolata al momento dell'accesso alla prestazione, ma con un tetto massimo di 1.500 euro mensili, percepibile fino al compimento dell’età anagrafica prevista per accedere al trattamento pensionistico di vecchiaia, nel quale poi si transita.

Possono richiederla i residenti in Italia iscritti:

  • all'Assicurazione Generale Obbligatoria dei lavoratori dipendenti,
  • alle forme sostitutive ed esclusive della medesima,
  • alle Gestioni speciali dei lavoratori autonomi,
  • alla Gestione separata.

 

Alla data di accesso al trattamento, devono aver compiuto almeno 63 anni di età e, nel caso di caregiver familiare, avere un’anzianità contributiva versata o accreditata di almeno 30 anni e assistere da almeno sei mesi il coniuge, l’unito civilmente, un parente di primo grado convivente con handicap in situazione di gravità.

In più, soddisfatti i sopracitati requisiti, il caregiver familiare, se ha lavorato per almeno 12 mesi prima del compimento di 19 anni, può accedere alla c.d. pensione precoce, cioè il requisito contributivo per il pensionamento di vecchiaia è ridotto a 41 anni: questo beneficio è una misura strutturale, vale a dire che non necessita il rifinanziamento nelle leggi di bilancio.

Le donne con figli possono usufruire di uno sconto di un anno per figlio ma al massimo si può arrivare a due.È importante sapere che per la stessa persona con handicap in situazione di gravità, è possibile concedere l’APE sociale ad uno solo dei soggetti che nel tempo l’assistono.(per maggiori dettagli: Circc. INPS 99/2017 e 100/2017)

 

INAIL -  Familiari CAREGIVER PER INFORTUNATI SUL LAVORO/TECNOPATICI

*DPR 1124/1965, D.Lgvo 38/00 (dettagli: circ.INAIL 61/2011; DetPres.INAIL 563/2018)

Accanto all’assistenza a infortunati/tecnopatici, INAIL prevede attività rivolte ai familiari conviventi; sono allo studio modifiche al regolamento finalizzate ad ampliare la platea comprendendo anche i familiari non legati da vincolo di unione coniugale. In sintesi:

  • rimborso spese per i casi in cui l’assistito necessita di accompagnatore per sottoporsi alle cure termali/climatiche
  • interventi di sostegno sociale e psicologico a favore dei familiari conviventi
  • progetti per massimizzare l’autonomia e l’indipendenza dell’invalido, sollevando il carico del caregiver, ad es. attraverso la fornitura di sistemi domotici
  • interventi di sostegno per il reinserimento nella vita di relazione familiare, sociale e lavorativa, attraverso il potenziamento delle abilità sociali e dell’autonomia della persona, e l’affiancamento ai familiari nella gestione delle problematiche, favorendo la capacità di predisporre le strategie per fronteggiare la disabilità

 

Proposte evolutive della norma Gli assistenti familiari ( caregiver familiari) costituiscono a livello europeo un esercito di persone, prevalentemente donne, e svolgono quotidianamente un lavoro immane e molto spesso senza alcuna pausa ristorativa.

In Italia, ancora oggi, però la figura del caregiver familiare non è riconosciuta come entità destinataria di autonoma tutela previdenziale, retributiva e di diritti legati alla funzione oggettivamente svolta: come enunciato, si tratta di estrapolare da altre norme alcuni benefici rivolti a persone che si occupano del disabile.

Attualmente, sono SEI i disegni di legge all'attenzione del Parlamento che hanno l'obiettivo di riformare la materia: il 19 maggio 2019 si è concluso il lavoro del cosiddetto Comitato ristretto del Parlamento italiano,l’Organismo chiamato a costruire un testo avente per fine di riunificare le sei proposte di legge in materia presentate, a inizio legislatura, da Pd, Lega, M5stelle e Forza Italia.

Ne è scaturito un disegno di legge, in buona parte condivisibile, un impegno e un confronto lungo e comprensibilmente non semplice: il successivo iter prevede il passaggio al Ministero dell’Economia e delle Finanze per la verifica delle coperture economiche necessarie ad attuare gli interventi previsti e, compito della maggioranza portarlo all’approvazione.

 

In Europa,in altri Paesi dell’Unione Europea – quali Spagna, Francia, Gran Bretagna, Romania, Polonia, Grecia - esiste già specifica tutela, anche se con diverse modalità, per chi assiste i propri cari.

Nel frattempo, si è sbloccata in Parlamento UE la Direttiva sul work-life balance - 2017/0085 (COD) - DIRETTIVA DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL

CONSIGLIO che, abrogando la direttiva 2010/18/UE del Consiglio sulla quale si stava discutendo dal 2008 giungendo ad una proposta unificante solo nel 2017, si rende garante nei 27 Paesi aderenti all’Unione del “principio delle pari opportunità” sia di genere ma anche, e soprattutto, di “equilibrio tra attività professionale e vita familiare di genitori e prestatori di assistenza che lavorano”.Il Parlamento UE, infatti, il 4 Aprile 2019 ha varato e approvato orientamenti in una direttiva che stabilisce prescrizioni minime relative al congedo di paternità, al congedo parentale e al congedo per prestatori di assistenza e a modalità flessibili per i lavoratori che sono genitori o prestatori di assistenza, i c.d. caregivers (vedasi, in particolare: Articolo 6 – Congedo per i prestatori di assistenza; Articolo 7 – Assenza dal lavoro per cause di forza maggiore; Articolo 8 – Adeguatezza del reddito; Articolo 9 – Modalità di lavoro flessibili).

La Direttiva Ue  2017/0085 mira a garantire che gli Stati membri valutino la necessità di adeguare le condizioni di accesso al congedo parentale e le sue modalità alle esigenze specifiche dei genitori in situazioni particolarmente svantaggiate dovute a disabilità o malattia cronica e alle esigenze dei genitori adottivi.

La disposizione stabilisce la durata massima fissata a due anni del periodo che gli Stati membri hanno a disposizione per recepire la direttiva nel diritto nazionale e comunicare alla Commissione le corrispondenti disposizioni.

A norma dell'articolo 153, paragrafo 3, del TFUE, gli Stati membri possono affidare alle parti sociali l'attuazione della direttiva, qualora le parti sociali lo richiedessero, a condizione che gli Stati membri adottino tutte le misure necessarie per essere sempre in grado di assicurare i risultati prescritti dalla direttiva.

Autrici      Alessandra Servidori e Lia De Zorzi      (testo aggiornato a ottobre 2019)

 

 

 

 

                                             

 

 

 

             

 

 

 

                                           

 

 

 

 

                                  

 

 

 

 

             

 

 

 

                                           

 

 

 

 

                                  

 

 

 

Ilva speculazioni pericolose e poche verità : in pericolo anche il Porto di Taranto

Alessandra Servidori

SU ILVA SPECULAZIONI PERICOLOSE e POCHE VERITA’ :attenzione al PORTO DI TARANTO

Conosco  ILVA da  quando è nata e già allora che ero animata da  sessantottina alle vicende dell’industria italiana, la seguivo per l’opportunità in quel territorio povero di creare lavoro. E dopo tanti errori compiuti sicuramente negli anni sia dallo Stato nazionalizzatore, poi parlamentare ,poi dalla magistratura locale e dalla proprietà Riva e ancora in pochi mesi da un Parlamento e da una classe tutt’altro che dirigente inadeguata ora la vicenda è veramente balorda e soprattutto la verità stenta ad emergere.  Non si può dare la responsabilità alle due aziende indiane e francesi che hanno sottoscritto un contratto  e bisogna capire bene come il Parlamento ha giocato spregiudicatamente su questo polo industriale assolutamente necessario per il bene dello Stato italiano. Da quando è stato sottoscritto l’ultimo accordo che comprendeva nel 2018 anche il piano ambientale così da non incorrere in procedimenti legali dei dipendenti di Arcellor Mittal, la siderurgia ha subito colpi durissimi sia in Italia che a livello mondiale e complice la bulimia della allora Ministra penta stellata Lezzi che si candida ora in Puglia come governatrice cercando di superare il governatore Emiliano pidiessino mal visto dal partito( e non solo) perché dissidente sia sul progetto Tap che sullo sfacelo degli ulivi , è passato in Parlamento un emendamento irresponsabile che annullava la norma ,precedentemente assicurata, della copertura giudiziale che altro non che è la legittima necessità di una multinazionale  che ha messo sul tavolo 4 miliardi e 200 milioni per acquistare lLVA non rispondesse degli sbagli fatti precedentemente da altri. Ora si delira su una possibile nazionalizzazione che NON è possibile perché  entrerebbero in campo prima di tutto altre crisi aziendali come Wirpool, La Perla, Mercatone eccc ma soprattutto il regolamento Europeo giustamente non prevede aiuti di Stato alle aziende . Chiudere Ilva è irresponsabile prima di tutto perché Arcelor Mittal ha vinto il Bando (ora ridicolmente messo in dubbio da altri ministri incompetenti)  passato sotto la lente di ingrandimento della Commissione UE che ne ha valutato  la correttezza, e vero è che la multinazionale era talmente decisa e in buona fede che per acquisire Ilva e investire in Italia ha venduto altre proprietà e scaricare le colpe suArcelor Mittal nascondendo che per primi i renziani e i penta stellati vogliono  e volevano chiedere la fabbrica è dà incapaci  senza subirsene le responsabilità. Inoltre  in Italia abbiamo assolutamente necessità anche per l’indotto di mantenere la produzione di acciaio  e non dover dipendere da altri spendendo molto e non difendendo i posti di lavoro che possono essere sostenuti anche da un impegno di risorse che derivano da quelle ricevute dalla famiglia Riva quando ha chiuso il concordato con i commissari .E infine e questo non è mai stato esplicitato il Porto di Taranto è uno snodo strategico per le industrie italiane e fare dell’Ilva un rottame repellente  come  Bagnoli e Italsider   è da analfabeti  pazzi che giocano con la politica potrebbero arrivare altri appetiti per impadronirsi con pochi soldi di un territorio portuale molto molto importante. E  così l’Italia sprofonda nell’indice della fiducia internazionale.

Diritti Umani :ONU bacchetta l'Italia

ALESSANDRA SERVIDORI    

IL Consiglio ONU per i Diritti Umani, durante la procedura che controlla dal 2008 ogni quattro anni l’operato di tutti gli stati membri,ha reso noto a Ginevra il 4 novembre scorso le note e le raccomandazioni rivolte all’Italia, risultate fortemente critiche in materia diritti di migranti e richiedenti asilo, intolleranza, razzismo e discorsi d’odio, gender gap e violenza sulle donne, debolezze nella legislazione in materia di tortura, ma anche sovraffollamento delle carceri, lunghezza dei processi, questione rom. l"Universal Periodic Review" del Consiglio ONU per i Diritti Umani si  è avvalso per il suo giudizio sull’Italia di tre rapporti:  uno fornito dal nostro Governo,  uno compilato dall’Ufficio dell’Alto Commissariato ONU per i Diritti Umani,  un terzo, che sintetizza le osservazioni e le raccomandazioni delle ONG.

Amnesty International, è stata molto severa nei nostri confronti è ha giudicato l'attuazione delle precedenti raccomandazioni da parte dell’Italia  «ampiamente insufficiente nel periodo in esame, nonostante i progressi compiuti in alcuni settori». Il report presentato dall'ONG passa in rassegna gli aspetti ritenuti più critici: dalla «criminalizzazione della solidarietà» alle violazioni dei diritti dei rifugiati e dei migranti, anche nel contesto della cooperazione con la Libia; dalle «debolezze della legislazione in materia di tortura» all'«operato delle forze di polizia», fino alla «discriminazione nei confronti dei rom in materia di alloggio adeguato».L’Italia, che ha già affrontato due revisioni nel febbraio 2010 e nell’ottobre 2014, è stata incoraggiata da diversi Stati a fare di più anche in tema di uguaglianza di genere e violenza contro le donne. Il rapporto ONU ha sottolineato come, nonostante le numerose leggi atte a combattere la discriminazione di genere, le donne in Italia affrontino ancora parecchie difficoltà nel rivendicare i propri diritti e nel combattere gli stereotipi e nonostante la recente adozione del Codice rosso, il documento mette in evidenza «l'alta prevalenza di violenze di genere perpetrate contro donne e ragazze», e «il basso tasso di denunce, procedimenti e condanne per questo genere di crimini».Molte le raccomandazioni perché l’Italia adotti  una Commissione nazionale indipendente che si occupi di diritti umani. La sua assenza impedisce, di fatto, al nostro Paese di partecipare al dialogo globale sui diritti umani a cui partecipano tutte le Commissioni del mondo. Il prossimo 18 novembre alla Camera è prevista  la discussione dei disegni di legge che ne propongono l’introduzione.

Anche la definizione di “tortura” nella legge 110/2017 è stata oggetto di alcune raccomandazioni. Per il Comitato ONU contro la Tortura, quella dicitura sarebbe «incompleta», aggiungerebbe elementi che rendono il reato difficile da dimostrare e lo concepirebbe come generico, e dunque commettibile da chiunque e non nello specifico da pubblici ufficiali. Il report compilato sull’Italia in vista della Revisione, poi, rileva anche le frequenti segnalazioni riguardo all’«uso di forza eccessiva da parte della polizia e di ufficiali di forze dell’ordine», e la diffusa «impunità di tali atti». L’ONU,  sottolinea che restano anche questioni :  il sovraffollamento delle carceri, la corruzione, la lunghezza dei processi e la questione rom.

ALESSANDRA SERVIDORI    

IL Consiglio ONU per i Diritti Umani, durante la procedura che controlla dal 2008 ogni quattro anni l’operato di tutti gli stati membri,ha reso noto a Ginevra il 4 novembre scorso le note e le raccomandazioni rivolte all’Italia, risultate fortemente critiche in materia diritti di migranti e richiedenti asilo, intolleranza, razzismo e discorsi d’odio, gender gap e violenza sulle donne, debolezze nella legislazione in materia di tortura, ma anche sovraffollamento delle carceri, lunghezza dei processi, questione rom. l"Universal Periodic Review" del Consiglio ONU per i Diritti Umani si  è avvalso per il suo giudizio sull’Italia di tre rapporti:  uno fornito dal nostro Governo,  uno compilato dall’Ufficio dell’Alto Commissariato ONU per i Diritti Umani,  un terzo, che sintetizza le osservazioni e le raccomandazioni delle ONG.

Amnesty International, è stata molto severa nei nostri confronti è ha giudicato l'attuazione delle precedenti raccomandazioni da parte dell’Italia  «ampiamente insufficiente nel periodo in esame, nonostante i progressi compiuti in alcuni settori». Il report presentato dall'ONG passa in rassegna gli aspetti ritenuti più critici: dalla «criminalizzazione della solidarietà» alle violazioni dei diritti dei rifugiati e dei migranti, anche nel contesto della cooperazione con la Libia; dalle «debolezze della legislazione in materia di tortura» all'«operato delle forze di polizia», fino alla «discriminazione nei confronti dei rom in materia di alloggio adeguato».L’Italia, che ha già affrontato due revisioni nel febbraio 2010 e nell’ottobre 2014, è stata incoraggiata da diversi Stati a fare di più anche in tema di uguaglianza di genere e violenza contro le donne. Il rapporto ONU ha sottolineato come, nonostante le numerose leggi atte a combattere la discriminazione di genere, le donne in Italia affrontino ancora parecchie difficoltà nel rivendicare i propri diritti e nel combattere gli stereotipi e nonostante la recente adozione del Codice rosso, il documento mette in evidenza «l'alta prevalenza di violenze di genere perpetrate contro donne e ragazze», e «il basso tasso di denunce, procedimenti e condanne per questo genere di crimini».Molte le raccomandazioni perché l’Italia adotti  una Commissione nazionale indipendente che si occupi di diritti umani. La sua assenza impedisce, di fatto, al nostro Paese di partecipare al dialogo globale sui diritti umani a cui partecipano tutte le Commissioni del mondo. Il prossimo 18 novembre alla Camera è prevista  la discussione dei disegni di legge che ne propongono l’introduzione.

Anche la definizione di “tortura” nella legge 110/2017 è stata oggetto di alcune raccomandazioni. Per il Comitato ONU contro la Tortura, quella dicitura sarebbe «incompleta», aggiungerebbe elementi che rendono il reato difficile da dimostrare e lo concepirebbe come generico, e dunque commettibile da chiunque e non nello specifico da pubblici ufficiali. Il report compilato sull’Italia in vista della Revisione, poi, rileva anche le frequenti segnalazioni riguardo all’«uso di forza eccessiva da parte della polizia e di ufficiali di forze dell’ordine», e la diffusa «impunità di tali atti». L’ONU,  sottolinea che restano anche questioni :  il sovraffollamento delle carceri, la corruzione, la lunghezza dei processi e la questione rom.

Nella ue la parità di genere è ancora una chimera

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Nell’Ue la parita di genere e’ ancora una chimera

 

La Commissione ha attuato negli anni diverse misure per diminuire il divario che si è creato tra sesso maschile e femminile. Infatti nel 2015 è stato adottato il documento dal titolo “Strategic Engagement for Gender Equality 2016-2019” dove vengono indicate le priorità perseguite quali: partecipazione al mondo del lavoro e indipendenza economica femminile; riduzione del “pay gap” e della povertà femminile; eguaglianza tra i sessi a livello di “decision-making”; contrasto alla violenza di genere; promozione dell’eguaglianza di genere a livello globale e nelle relazioni esterne dell’UE.Il valore viene calcolato tenendo conto di più aspetti quali: lavoro, denaro, conoscenza, tempo, potere e salute, violenza sulle donne e disuguaglianze intersezionali. L'UE continua il suo passo lento ma costante  per quanto riguarda i progressi della parità di genere. L'ultimo indice sull'uguaglianza di genere dell'Istituto europeo per l'uguaglianza di genere (EIGE) mostra che il punteggio dell'UE per l'uguaglianza di genere è salito di un punto a 67,4, dall'edizione 2017. La Svezia continua ad essere in testa alla classifica UE, con 83,6 punti, seguita dalla Danimarca con 77,5. La Grecia e l'Ungheria hanno il terreno più ampio da recuperare, con entrambe segnano meno di 52. l’Italia: con un punteggio di 63 punti su 100, è al 14 ° posto nell’UE per l’uguaglianza di genere e sotto di 4,4 punti rispetto alla media UE. Il miglior promotore è il Portogallo, con un aumento di 3,9 punti, seguito da vicino dall'Estonia con 3,1 punti. L'equilibrio tra vita professionale e vita privata e la sua connessione con l'uguaglianza di genere sono al centro dell'attenzione dell'indice di quest'anno. Il congedo parentale è una delle misure politiche importanti per sostenere i genitori che bilanciano le mansioni di cura con il lavoro, ma non è disponibile per tutti. Nell'UE, il 28% delle donne e il 20% degli uomini non sono ammissibili al congedo parentale. L'accesso a servizi di assistenza all'infanzia accessibili e di buona qualità è importante per l'equilibrio tra lavoro e vita privata, ma non sono solo i bambini che hanno bisogno di cure. I tassi di invecchiamento e disabilità sono in aumento nell'UE, il che fa aumentare la domanda di servizi di assistenza a lungo termine per le persone anziane e le persone con disabilità. Le donne in età pre-pensionistica svolgono la maggior parte dell'assistenza informale a lungo termine nell'UE. La differenza è notevole nella fascia di età 50-64 anni: il 21% delle donne e l'11% degli uomini si prendono cura degli anziani e / o delle persone con disabilità almeno diversi giorni alla settimana. Ci stiamo muovendo nella giusta direzione ma siamo ancora lontani dal traguardo. L’ indice, che stabilisce un punto di riferimento per la parità di genere nell'UE, mostra che quasi la metà di tutti gli Stati membri scende al di sotto del segno dei 60 punti. Poiché il nuovo Parlamento e la Commissione dell'UE definiscono e rinnovano le priorità dell'UE per il prossimo quadro strategico, è fondamentale che l'uguaglianza di genere acquisisca velocità ", ha affermato Virginija Langbakk, direttore dell'Istituto europeo per l'uguaglianza di genere (EIGE).  In Italia tra il 2005 e il 2017, il  nostro punteggio  è aumentato di 13,8 punti. L’Italia sta progredendo verso l’uguaglianza di genere a un ritmo molto più rapido rispetto agli altri Stati membri dell’UE. Però in tutti i sei settori considerati dall’indice siamo sotto ai punteggi dell’UE, ma eccelliamo nel campo della salute, per cui raggiungiamo un punteggio di 88,7 su 100. Riteniamo di essere in buona salute: lo pensa il 74% delle donne e l’80% degli uomini.  Sul  punto potere (47,6 punti), sul “tempo” (59,3 punti) e sul “lavoro” (63,1 punti). Purtroppo, L’Italia ha il punteggio più basso di tutti gli Stati membri dell’UE nel settore del lavoro.: il tasso di occupazione  è pari al  53% per le donne e al  73% per gli uomini, e il nostro paese ha mancato l’obiettivo UE 2020 di occupazione nazionale del 67-69% (siamo al 63%).Sul punto tempo addirittura siamo peggiorati tanto che dal 2005 l’Italia ha peggiorato la performance di quasi un punto. Secondo l’indicatore “le donne hanno una probabilità quattro volte maggiore (81%) rispetto agli uomini (20%) di trascorrere del tempo cucinando e facendo i lavori di casa ogni giorno per almeno un’ora. Siamo in miglioramento soprattutto per il potere  dal 2005 siamo saliti di  31,5 punti con  la Legge Golfo Mosca, grazie alla quale tra il 2005 ed il 2018 siamo passati dal 3% al 36% di donne nei CDA delle maggiori società quotate in borsa. Le quote di genere   hanno contribuito all’aumento della percentuale di donne parlamentari che è passata dall’11% nel 2005 al 34% nel 2018; nello stesso periodo la percentuale di donne ministre  è passata dal 9% al 22%.Sul versante conoscenza, siamo migliorati di 7,1 punti dal 2005 al 2018, arrivando a un punteggio di 61,2, e siamo così collocati al 12°  posto nella classifica UE. Come osserva l’indice: “Ci sono miglioramenti sia nella realizzazione che nella partecipazione, oltre alla segregazione di genere” .Sia donne  che uomini si impegnano nell’apprendimento permanente (13% per entrambi), ma il tasso è il settimo più basso dell’Unione.Per quanto riguarda il settore denaro il  punteggio è di 78,8, con un miglioramento di 2,6 punti rispetto al 2005.  Anche se sia uomini che donne guadagnano di più, rimane il gender pay gap: le donne guadagnano il 18% in meno rispetto agli uomini. Peggiore la situazione per le donne sposate: “nelle coppie con figli le donne guadagnano il 30% in meno rispetto agli uomini (il 26% in meno nelle coppie senza figli)”, e il livello di istruzione non aiuta: il divario nei salari tra uomini e donne salari per le donne con livelli di istruzione elevati è del 35%, mentre si riduce a circa il 25% per donne con livelli di istruzione bassi o medi.Il rischio di povertà per le donne è del 20% ed è aumentato per gli uomini dal 16% al 18%. Piu’ vulnerabili sono i genitori single, le donne single e le persone migranti. Siamo convinte che la  direttiva sull'equilibrio tra lavoro e vita privata adottata quest'anno cambierà  il modo di rapportarsi tra  donne e  uomini in Europa. Le regole sosterranno una più equa condivisione delle responsabilità di cura, che consentirà alle donne di rimanere nel mercato del lavoro e assumere ruoli o posizioni dirigenziali sfidanti , ed è una affermazione  di cui è pienamente convinta  Věra Jourová, Commissaria europea per la giustizia, i consumatori e l'uguaglianza di genere.

Alessandra Servidori


04 Novembre 2019

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