Dati Istat : donne e servizi per l'infanzia : desolante situazione italiana
ALESSANDRA SERVIDORI www.ilsussidiario.net 22 marzo 2019
Istat ha reso noti i dati censiti per l’anno scolastico 2016/2017 dei servizi socio-educativi per l’infanzia che in Italia sono 13.147, con solo 354.000 posti autorizzati al funzionamento, pubblici in poco più della metà dei casi. L’analisi consegna il trend significativo storico per cui a partire dall’anno scolastico 2011/12 si registra un calo dei bambini iscritti nei nidi comunali e convenzionati e dal 2012 si riducono anche le risorse pubbliche disponibili sul territorio rimanendo nel triennio 2014-2016 sostanzialmente stabili sia gli utenti serviti, sia la spesa dei Comuni. Il parametro europeo fissato dall’Unione è del 33% per sostenere la conciliazione della vita familiare e lavorativa e promuovere la partecipazione delle donne al mercato del lavoro e la percentuale di posti disponibili nel nostro Paese, coprendo solo il 24% del numero di bambini residenti fino a tre anni, è desolatamente inadeguata.Consideriamo che la crisi economica ha comportato un accrescimento dei bisogni di cura, inclusione e contrasto alla povertà, e la dinamica della spesa socio-assistenziale, invece di segnare un incremento, ha registrato nel periodo 2013/2017 una tendenziale stagnazione, pur se con andamenti altalenanti, e peraltro si è andata riducendo in particolare proprio nella componente più importante del welfare territoriale e dei servizi. Tra i fattori che determinano la maggiore incidenza della povertà nelle famiglie con figli minori ci sono l’insufficienza e la frammentazione di prestazioni e servizi pubblici a sostegno dei figli, che siano capaci di favorire la piena occupazione dei genitori, in particolar modo delle donne.
Sono necessarie pertanto politiche di conciliazione tra lavoro e responsabilità familiari che intervengano in maniera coordinata su congedi e permessi, sull’organizzazione del lavoro, su istituti innovativi disciplinati dalla contrattazione collettiva e, soprattutto, sul sistema dei servizi all’infanzia, che risultano ancora troppo scarsamente diffusi. In confronto ai Paesi Ue, l’Italia investe molto meno per l’esclusione sociale rispetto al proprio Pil (0,77% contro 1,8%), per la famiglia e i minori (5,98% contro 8,08%) (dati Eurostat 2018). Secondo la Corte dei Conti, infatti, nel 2017 la spesa per prestazioni assistenziali della Pubblica amministrazione era composta per 38,2 miliardi da misure in denaro e soltanto per poco più di 10 miliardi in servizi, per lo più a carico dei Comuni.Oltretutto si conferma la disomogeneità della spesa media dei servizi per gestire i servizi pubblici o privati convenzionati, molto variabile tra regioni con un minimo di 88 euro l’anno per un bambino calabrese e un massimo di 2.209 euro per bambino trentino con un’ulteriore crescita delle disuguaglianze tra territorio ed ente locale. Fondamentale è l’adozione di politiche pubbliche per l’inclusione educativa, sociale e lavorativa che operino in stretto coordinamento tra loro con la pluralità di strumenti, prestazioni e servizi necessari a ciascuna politica, a partire dalla diffusione e qualificazione del sistema di servizi per le famiglie con carichi di assistenza e cura e per la prima infanzia (integrato con lo 0-6 e il tempo pieno per l’inclusione educativa) e dal rafforzamento degli strumenti per il contrasto alla povertà assoluta e delle politiche attive per l’inserimento lavorativo. Mentre la realtà è che gli interventi verso la famiglia sono scarsi e insufficienti, complessivamente incoerenti, diseguali per categoria lavorativa e rapporto di lavoro, per area territoriale (nord-sud, città-provincia), e in alcuni casi variano in virtù del tipo di legame che unisce la coppia, più che rispetto alla presenza di minori/figli e, d’altronde, il modello preferenziale di riferimento delle politiche continua a essere quello della famiglia di tipo tradizionale per legami, composizione, preferenze, condizione lavorativa dei partner.
Uno degli effetti maggiormente inquietanti di questa situazione è il tasso di povertà appunto delle famiglie con minori che è il più alto in Europa, cresce al crescere del numero di figli, nelle situazioni in cui vi sia un unico percettore di reddito (specie ne casi in cui la madre è molto giovane) e in caso di genitore solo. Il sistema di trasferimenti italiano è il meno efficace nel ridurre la povertà tra i minori e inoltre in Italia non esiste a tuttoggi una tutela universale, né un programma universale virtuoso di sostegno al reddito.Gli studi comparati hanno dimostrato come i paesi che hanno avuto la miglior performance nel ridurre i livelli di povertà tra i minori siano quelli scandinavi che nel corso degli anni ‘90 hanno puntato su: politiche di piena occupazione, in particolare finalizzate a incrementare quella femminile; qualificate politiche sociali (che hanno il merito anche di aver creato un ampio sostegno politico); diritti sociali basati sulla cittadinanza e non sullo status occupazionale; un forte investimento in servizi di cura per l’infanzia per facilitare l’occupazione femminile; una forte enfasi su una migliore redistribuzione della ricchezza; un forte accento posto sulle questioni di equità di genere; un’attenzione sul bilanciamento tra lavoro e famiglia (quindi congedi parentali, educazione e cura per i bambini più piccoli in modo da supportare l’occupazione femminile); una forte volontà di sostegno a livelli di tassazione e spesa sociale elevati.Gli strumenti utilizzati in Italia, spesso di natura economica e associati alle misure di contrasto alla povertà, sono invece stati realizzati attraverso una molteplicità di strumenti sui quali è unanime il giudizio di farraginosità, categoricità, scarsa efficacia distributiva. È fondamentale una misura universale di sostegno al costo dei figli, di reddito minimo in grado di tutelare il cittadino dai rischi sociali, e che sia di supporto non solo alle fasce più deboli ma anche a quelle a rischio di povertà e di esclusione sociale. Allo stesso modo la disponibilità di servizi di cura dell’infanzia, che aiutano in modo sostanziale la conciliazione tra vita familiare e vita lavorativa, consentendo il rientro a lavoro della donna e quindi riducendo la penalizzazione del lavoro della madre.
La spesa locale – essendo il livello locale quello che ha il compito prevalente di erogare servizi e in particolare servizi sociali – è in generale infatti molto bassa rispetto a quella centrale; inoltre, la legislazione, e la cultura stessa dei giuristi italiani – e le ideologie da cui sono ancora influenzati -, sono rimaste a lungo connotate da una legislazione blanda rispetto alla realtà socio-economica, alle mutate condizioni di vita delle famiglie, limitandosi a slogan che dimostravano quanto il Pil sarebbe stato premiato dalla presenza di lavoratrici sul mercato del lavoro ma non procedendo sulle riforme necessarie. Oggi è urgente realizzare politiche di conciliazione tra vita familiare e vita lavorativa, ovvero il set di interventi che possono utilmente rendere più armoniosa e bilanciata la gestione congiunta dei due ambiti anche recuperando le direttive Ue e le indicazioni comunitarie in riferimento alle politiche di conciliazione e di sostegno alla genitorialità, che nel corso degli ultimi anni si sono andate consolidando e fatte più incisive. La Commissione ha adottato nell’aprile 2017 la sua proposta per una direttiva sul bilanciamento tra vita familiare e lavorativa come parte di uno dei tre pacchetti di iniziative connesse Pilastro Sociale. Il tema oggetto di questa proposta, oltre a essere riconducile al principio n. 2 (parità di genere) e al principio n. 3 (parità di opportunità), è infatti esplicitamente richiamato dal principio n. 9 del Pilastro che sancisce “il diritto per i genitori e le persone con responsabilità̀ di assistenza a un congedo appropriato, modalità̀ di lavoro flessibili e accesso a servizi di assistenza e di cura. Gli uomini e le donne hanno pari accesso ai congedi speciali al fine di adempiere le loro responsabilità̀ di assistenza e sono incoraggiati a usufruirne in modo equilibrato”. In buona sostanza dagli odierni dati Istat emerge quante energie il lavoro di cura (materno per definizione, nel nostro Paese) draga dalla partecipazione al mercato del lavoro, e possibilmente da un mercato del lavoro che consista in un impiego full-time. La mancanza di servizi per la cura e le conseguenze che tale mancanza ha sull’occupabilità delle donne è certamente significativa, in un’ottica lavoristica oggi è opportunamente ben sostenuta dalle stesse lavoratrici che non si rassegnano a essere costrette all’interruzione dell’attività lavorativa dopo la nascita del figlio per mancanza di servizi di nido; comunque è sconcertante il dato che dal Rapporto annuale del ministero del Lavoro sulle dimissioni emerge: una donna su quattro lascia il lavoro dopo la maternità.
Perchè l'analisi costi benefici non può essere oggettiva
GRANDI OPERE www.ildiariodellavoro.it
Perché l’analisi costi-benefici non può essere oggettiva
La vicenda del blocco scriteriato delle grandi opere che sta ingessando l’Italia è incardinato su uno slogan “l’analisi costi benefici”. Una tecnica con la quale chiunque può dimostrare una cosa e il suo contrario. Che impostazioni metodologiche diverse e parametri diversi portino a risultati diversi è cosa nota: fin dal 2008, perciò, la Commissione europea ha elaborato linee guida, divenute più articolate e obbligatorie nel 2014. Anche il ministero delle Infrastrutture, per gli stessi motivi, ne ha emesse di proprie, coerenti con quelle europee. Bisogna seguire queste indicazioni per rendere comparabili i risultati e ridurre le possibilità di manipolare lo strumento. L’analisi costi benefici si compone di due parti e non solo di una. L’analisi finanziaria, che analizza i flussi di cassa, cioè gli spostamenti di denaro, e che guarda il progetto da un’ottica particolare, in genere quella del promotore, ma che può anche essere quella dei diversi stakeholder, tra cui lo stato.
È in questa parte di analisi che devono trovare adeguata rappresentazione e valutazione fenomeni come le variazioni del fatturato delle imprese (per esempio, autostrade o ferrovie) o del gettito fiscale. Una seconda parte è l’analisi economica, che prescinde dai flussi monetari e contabilizza i “costi” e i “benefici”: guarda il progetto nell’ottica dell’intera comunità di riferimento, trascurando gli effetti di redistribuzione prodotti dal progetto, già messi in evidenza nell’analisi finanziaria. I “costi” non sono le “spese”: sono il consumo di risorse scarse sottratte a un uso alternativo. C’è una complessa metodologia per valutare i costi a partire dalle spese: queste vanno depurate da ciò che non è consumo di risorsa, come le tariffe o le imposte (che semplicemente trasferiscono una somma tra due soggetti della comunità), ma anche dagli effetti distorsivi che le imperfezioni del mercato possono causare nel sistema dei prezzi.
Se il progetto trasferisce una parte di traffico da un modo all’altro, sarà necessario contabilizzare con cura le variazioni di consumo di risorse che avvengono in entrambi i modi. Ben più complessa è la valutazione dei “benefici”, cioè dell’utilità che i vari soggetti della comunità complessivamente ottengono dalla realizzazione del progetto. Poiché l’analisi usa come metrica la moneta, tutti gli effetti devono essere espressi in valuta: ciò è più facile per i beni e servizi trattati nel mercato, che hanno un prezzo rilevabile; più difficile per gli effetti non di mercato, come molte esternalità. Si usa quindi la “disponibilità a pagare” quale indicatore indiretto del beneficio (per valutare quanto sia fastidioso il rumore, utilizziamo la spesa che viene affrontata per ridurlo). Il passaggio comporta innanzitutto una grave semplificazione: presuppone infatti che tutti i soggetti della comunità abbiamo la stessa capacità di spesa.
Ciò però non è ovviamente vero. Nel dibattito sull’analisi costi benefici della Tav, si è detto che i sussidi pubblici portano a scelte inefficienti. Può essere vero, se sono assegnati in modo errato, tuttavia la loro motivazione corretta è proprio “compensare” la diseguale capacità di spesa, rendendo accessibili servizi essenziali o utili, come il trasporto, a chi non ha sufficiente disponibilità economica. La prima riflessione è che non è uno strumento scientifico di misurazione se non si premette che uno strumento di misurazione di un fenomeno è scientifico quando fornisce lo stesso risultato se viene utilizzato un numero infinito di volte da diversi utilizzatori. Il paradigma costi benefici che serve a valutare la convenienza di un’opera pubblica, invece si basa su un sistema di variabili soggettive.
È competenza, infatti, di chi la utilizza di stabilire sia il metodo da seguire per realizzarla, sia le componenti di costi e benefici da prendere in considerazione, sia l'attribuzione dei valori di questi. Molti di tali valori devono essere valutati perché non tutti i beni hanno un mercato nel senso tradizionale del termine, cioè non tutti i beni hanno un prezzo che si forma nel momento della loro acquisizione. Vi sono, infatti, dei beni che sono pubblici e che non hanno un reale mercato. Questo accade perché tali beni, pur essendo soggetti ad una domanda e ad una offerta, non sono oggetto del diritto di proprietà e, quindi, non possono avere un prezzo di mercato. In questo caso si parla, appunto, di fallimento del mercato. Per esempio tutti i beni ambientali non soggetti a estrazione, come il petrolio, il carbone o i diamanti, sono beni pubblici, in quanto non sono oggetti di diritti di proprietà. Come tali questi beni non hanno un prezzo di mercato e il loro valore deve essere stimato.
La stima monetaria di un qualsiasi bene che, per sua natura non ha un prezzo, è imperfetta in quanto non è oggettiva. Questo accade perché la valutazione dipende dal soggetto che la fa, dal contesto economico, sociale ed ambientale in cui viene fatta, e dal metodo con cui viene fatta la valutazione. L’incertezza della valutazione sui costi benefici di un’opera deriva anche dal fatto che al momento della sua compilazione coloro che la predispongono non possono conoscere quello che sarà, nel lungo periodo, la struttura economica di un paese e le tecnologie presenti nel futuro. Se viene fatta da due gruppi diversi, che non possono avere contatti tra di loro, i risultati potranno essere anche molto diversi e parlando di TAV, che peraltro è stata criticata da molti economisti, dovrebbe essere affidata ad almeno due gruppi di lavoro distinti e valutata con un certo distacco dai politici che sono quelli a cui spetta la decisione finale sull'opera.
Alessandra Servidori
15 Marzo 2019
NON c'è niente da festeggiare
8 Marzo 2019 – Se il Word Economic Forum afferma che solo fra 108 anni il divario di genere si attenuerà non c’è niente da festeggiare e ancora molto da fare.
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Eurostat recentemente segnala che in Italia oltre al carico di lavoro a casa, in media superiore a quello degli uomini, le difficoltà lavorative delle donne, nella fascia d’età compresa tra i 25 e i 49 anni, aumentano in corrispondenza dell’aumento del numero di figli e a questo incremento corrisponde una diminuzione del tasso di occupazione: dal 62,2% per le donne italiane senza figli si scende al 58,4% per le donne con un figlio (percentuale ben lontana dalla media europea, pari al 72,5%), fino ad arrivare al 41,4% nel caso di donne con tre e più figli, dimostrando così come la situazione del lavoro femminile in Italia sia ancora fortemente connessa a quella familiare. La legge di bilancio 2019 (L. 145/2018) non ha introdotto ulteriori misure volte alla conciliazione vita – lavoro rispetto a quelle preesistenti . Anzi l'articolo 1, c. 485 riconosce alle lavoratrici la facoltà di astenersi dal lavoro esclusivamente dopo il parto, entro i cinque mesi successivi allo stesso, a condizione che il medico competente attesti che tale opzione non porti pregiudizio alla salute della donna e del bambino e questo francamente pone dei problemi e ritengo che questa modifica sia sbagliata. Se è vero che la gravidanza non è una malattia e che moltissime donne, hanno lavorato fino all’ultimo mese perché godevano di buona salute e avevano una professione che glielo consentiva, questa modifica è tutta a carico della lavoratrice che rischia così di trovarsi di fronte a un ricatto. La scelta di quanto e come lavorare, non è completamente in capo al lavoratore e da qui deriva il forte rischio di trasformare la possibilità prevista in un obbligo. Tre mesi di maternità dopo il parto spesso risultano insufficienti, considerando lo stato dei servizi all’infanzia in gran parte del nostro Paese. L’idea di far scegliere alle donne quando assentarsi prima del parto è sicuramente il modo peggiore di affrontare una questione assai complessa come quella della maternità per le donne lavoratrici. Prima andrebbero adeguati i servizi e cambiata la normativa sul lavoro e soprattutto, andrebbe cambiata quella mentalità che considera le madri lavoratrici delle professioniste a metà. Al contrario una mamma che lavora è una donna che moltiplica tutto ma non bisogna cadere piuttosto nella trappola della ‘superdonna’. Semplicemente le donne, se vogliono, fanno figli. Un governo non aiuta le donne con un mese in meno di maternità, ma con servizi in più. Con questo provvedimento del Governo si svalutano importanti diritti conquistati in passato dalle donne. Lo spirito è quello di un orientamento individualista e non di una tutela sociale della maternità, con la conseguente svalutazione dei significati simbolici legati all’evento. Da tempo nel nostro Paese si assiste ad un calo demografico inarrestabile : si registra una media di 1,32 figli per donna, con 449mila nascite nel 2018, 120mila in meno rispetto a dieci anni fa. Annualmente l’Ispettorato Nazionale del Lavoro pubblica il monitoraggio nazionale delle convalide delle dimissioni e delle risoluzioni consensuali delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri che dà conferma della stretta correlazione tra maternità e disoccupazione. Dall’ultimo report fine 2018, nel corso del 2017 il numero complessivo di dimissioni e risoluzioni consensuali convalidate a livello nazionale è stato pari a 39.738 (dato in crescita del 5% rispetto a quello rilevato nel 2016, pari a 37.738), di cui 37.248 dimissioni volontarie che hanno riguardato soprattutto le lavoratrici madri, a cui sono riconducibili 30.672 provvedimenti (il 77% del totale); di contro, 9.066 riguardano i lavoratori padri, un numero contenuto anche se in aumento in termini assoluti. Un altro provvedimento discutibile e “no buono”della legge finanziaria è l'articolo 1, c. 486 che pone a carico dei datori di lavoro, pubblici e privati, che stipulano accordi per lo svolgimento dell'attività lavorativa in modalità agile (smart working), l'obbligo di dare priorità alle richieste delle lavoratrici nei tre anni successivi alla conclusione del congedo di maternità, ovvero ai lavoratori con figli disabili che necessitino di un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale. Questo - al di là del fatto che snatura lo smart working, che non è innanzitutto una soluzione di conciliazione famiglia-lavoro ma uno strumento di innovazione dei processi organizzativi - rischia di innescare meccanismi che, invece di favorire le donne, accentuino ancora di più l’onere della cura sulla sfera femminile. Non è chiaro infatti perché in caso di figli con disabilità si vogliano favorire (giustamente) entrambi i genitori, mentre per la cura destinata alla prima infanzia l’attenzione sia esclusivamente sulle madri. Altro provvedimento sicuramente non dalla parte delle donne è “ quota 100”. Inps ci consegna dati certi da cui si evince come una manovra 'maschile' e 'settentrionale', ovvero una manovra la cui platea di beneficiari è composta principalmente da uomini, e in secondo luogo da uomini e donne residenti nelle regioni del Nord Italia. Riforme previdenziali opportune per garantire sostenibilità al sistema dei conti pubblici, non possono subito rimediare alle 'imperfezioni' di un mercato del lavoro in cui la componente femminile ha numerose difficoltà in termini di accesso, equità retributiva, segregazione orizzontale e verticale, difficoltà di work life balance e dunque scarsa contribuzione e basse pensioni. Ma quota 100 e opzione donna oltre a non sanare, in fase di ritiro dal lavoro, i gap di genere connessi alle differenti storie lavorative di uomini e donne li ribadiscano, favorendo ancora una volta una ridotta platea di beneficiari maschi.
LA LEZIONE DI DRAGHI : studiate giovani, studiate!
EUROPA IL DIARIO DEL LAVORO
Cronaca di una lezione magistrale di Mario Draghi
In una atmosfera maestosa, degna dell’illustre ospite, solo lontanamente disturbata dalla manifestazione dei centri sociali e degli studenti (che in sostanza ce l’avevano con il Ministro dell’Istruzione Bussetti, il quale peraltro ha disertato l’appuntamento), l’Università di Bologna ha conferito la laurea ad honorem in giurisprudenza a Mario Draghi. Tra le motivazioni “Ha difeso i principi e i valori dei Trattati dell’Unione Europea e l’interesse pubblico”. Toni pacati e delle grandi occasioni, in una atmosfera di grandi eventi,Bologna la Dotta ha incoronato colui che ha difeso con coraggioso ingegno la razionalità economica di una costruzione comunitaria fondata 20 anni fa su un mercato e una moneta concepiti come obiettivi di cogliere i frutti dell’apertura dell’economia strettamente legati a quelli di attutirne i costi per i più deboli e come recuperare, negli anni delle crescenti disuguaglianze, oggi rappresenti la sfida delle classi dirigenti degne di questo nome.
La lezione magistrale di Mario Draghi si è aperta ricordando che si è celebrato il ventesimo anniversario della nascita dell’euro. Sono stati due decenni molto particolari. Nel primo si è esaurito un ciclo finanziario espansivo globale durato trent’anni; il secondo è stato segnato dalla peggiore crisi economica e finanziaria dagli anni ’30. Da entrambi possiamo trarre utili lezioni, per ciò che occorre ancora fare. L’unione monetaria è stata un successo sotto molti punti di vista. Dobbiamo allo stesso tempo riconoscere che non in tutti paesi sono stati ottenuti i risultati che ci si attendeva, in parte per le politiche nazionali seguite, in parte per l’incompletezza dell’unione monetaria che non ha consentito un’adeguata azione di stabilizzazione ciclica durante la crisi. Occorre ora disegnare i cambiamenti necessari perché l’unione monetaria funzioni a beneficio di tutti i paesi e realizzarli il prima possibile, ma spiegandone l’importanza a tutti i cittadini europei e soprattutto ai nostri giovani.
La globalizzazione ha complessivamente accresciuto il benessere in tutte le economie, soprattutto di quelle emergenti, ma è oggi chiaro che le regole che ne hanno accompagnato la diffusione non sono state sufficienti a impedirne profonde distorsioni. Ma dal 1973 al 1985 la risposta dei governi alla bassa crescita fu di aumentare i deficit di bilancio : i disavanzi pubblici furono in media il 3,5% del PIL nei futuri paesi dell’area dell’euro a 12, il 9% in Italia. Negli stessi paesi la disoccupazione salì in media dal 2,6 al 9,2% e dal 5,9 all’8,2% in Italia. Per rilanciare la crescita, l’Europa aveva già a disposizione uno strumento efficace: il mercato unico che puntava a rilanciare la crescita e l’occupazione. Ma non si esauriva in ciò, perché mirava anche a garantire una rete di protezione capace di sostenere i costi sociali del cambiamento che ne sarebbe inevitabilmente derivato e creava il terreno politicamente più favorevole per far avanzare il processo di integrazione europea, anch’esso reso più arduo dalla crisi degli anni ’70. Fu proprio il progetto del mercato interno-ha ricordato Draghi- che consentì all’Europa, a differenza di quello che accadeva su scala globale, di imporre i propri valori al processo di integrazione, di costruire cioè un mercato che fosse, per quanto possibile, libero ma giusto. La regolamentazione dei prodotti poteva essere utilizzata non solo per tutelare i consumatori dai bassi standard qualitativi vigenti in altri paesi e per proteggere i produttori dalla concorrenza sleale, ma anche per porre un freno al dumping sociale ed elevare gli standard delle condizioni di lavoro.
Per questi motivi il mercato interno si accompagnò, a metà degli anni Ottanta, a un rafforzamento delle regole comuni nella CE e dei poteri di controllo giurisdizionale. All’apertura dei mercati si accompagna la protezione della concorrenza leale con la creazione dell’antitrust; gli standard regolamentari divennero più cogenti, ad esempio con l’obbligo dell’indicazione della provenienza geografica per prodotti alimentari specifici. Le clausole di salvaguardia fondamentali del modello sociale europeo furono progressivamente incorporate nella legislazione comunitaria, nelle aree di competenza di quest’ultima. La Carta dei diritti fondamentali ha impedito una corsa al ribasso dei diritti dei lavoratori. È stata introdotta una specifica legislazione per limitare le pratiche di lavoro scorrette, come è avvenuto ad esempio recentemente con la revisione della direttiva sui lavoratori distaccati. La legislazione europea tutela le persone a maggior rischio occupazionale, come nel 1997 la direttiva sui lavoratori a tempo parziale e a tempo determinato. Un anno fa le istituzioni europee hanno sottoscritto il pilastro europeo dei diritti sociali, riguardante le pari opportunità e l’accesso al mercato del lavoro, l’equità delle condizioni di lavoro, la protezione sociale e l’inclusione.
Circa mezzo milione di lavoratori italiani partecipa ai processi produttivi di imprese che risiedono in altri paesi europei ed esportano nel resto del mondo. Dal canto loro, le imprese italiane partecipano, esse stesse, in misura significativa alle catene di valore, con effetti positivi sulla produttività del lavoro. È spesso attraverso questo legame con le catene di valore che specialmente la piccola-media impresa italiana, caratteristica del nostro sistema produttivo, riesce a sopravvivere e a crescere, conservando al Paese, in un mondo sempre più orientato alle grandi dimensioni, una sua caratteristica fondamentale. L’Italia è attraverso il mercato unico e con la moneta unica, strettamente integrata nel processo produttivo europeo. Fra il 1990 e il 1999, prima dell’introduzione dell’euro, l’Italia registrava il più basso tasso di crescita cumulato rispetto agli altri paesi che hanno aderito fin dall’inizio alla moneta unica. Lo stesso accadde dal 1999 al 2008 sempre rispetto a tutti i paesi dell’area. Dal 2008 al 2017 il tasso di crescita è stato superiore solo a quello della Grecia. E, andando indietro nel tempo, la crescita degli anni ’80 fu presa a prestito dal futuro, cioè grazie al debito lasciato sulle spalle delle future generazioni. La bassa crescita italiana è dunque un fenomeno che ha inizio molti, molti anni prima della nascita dell’euro. Si tratta chiaramente di un problema di offerta, evidente del resto anche guardando alla crescita nelle varie regioni del paese. In assenza di presidi adeguati a livello dell’area dell’euro, i singoli paesi dell’unione monetaria possono essere esposti a dinamiche auto-avveranti nei mercati del debito sovrano. Ne può scaturire nelle fasi recessive l’innesco di politiche fiscali pro-cicliche, producendo così un aggravamento della dinamica del debito, come nel 2011-12.
Sono quindi i paesi strutturalmente più deboli ad avere più bisogno che l’UEM disponga di strumenti che prima di tutto diversifichino il rischio delle crisi e che poi ne contrastino l’effetto nell’economia. Nei paesi, quali l’Italia, giunti alla crisi indeboliti da decenni di bassa crescita e senza spazio nel bilancio pubblico, una crisi di fiducia nel debito pubblico si è trasformata in una crisi del credito con ulteriori pesanti riflessi sull’occupazione e sulla crescita. Una maggiore condivisione dei rischi nel settore privato attraverso i mercati finanziari è fondamentale per prevenire il ripetersi di simili eventi. Negli Stati Uniti circa il 70% degli shock viene attenuato e condiviso tra i vari Stati attraverso mercati finanziari integrati, contro appena il 25% nell’area dell’euro. È perciò interesse anche dei paesi più deboli dell’area completare l’unione bancaria e procedere con la costruzione di un autentico mercato dei capitali. I bilanci pubblici nazionali non perderanno mai la loro funzione di strumento principale nella stabilizzazione delle crisi. Nell’area dell’euro gli shock sulla disoccupazione sono assorbiti per circa il 50% attraverso gli stabilizzatori automatici presenti nei bilanci pubblici nazionali, molto di più che negli Stati Uniti.
L’uso degli stabilizzatori automatici da parte dei paesi dipende, tuttavia, dall’assenza di vincoli connessi al loro livello del debito. Occorre dunque ricreare il necessario margine per interventi di bilancio in caso di crisi. Occorre un’architettura istituzionale che dia a tutti i paesi quel sostegno necessario per evitare che le loro economie, quando entrano in una recessione, siano esposte al comportamento prociclico dei mercati. Ma ciò sarà possibile solo se questo sostegno è temporaneo e non costituisce un trasferimento permanente tra paesi destinato a evitare necessari risanamenti del bilancio pubblico, tantomeno le riforme strutturali fondamentali per tornare alla crescita.
Ogni paese ha la sua agenda, ma è solo con esse che si creano le condizioni per far crescere stabilmente: salari, produttività, occupazione, per sostenere il nostro stato sociale. È un’azione che in gran parte non può che svolgersi a livello nazionale, ma può essere aiutata a livello europeo dalle recenti decisioni di creare uno strumento per la convergenza e la competitività. Per affrontare le crisi cicliche future, occorre che i due strati di protezione contro le crisi – la diversificazione del rischio attraverso il sistema finanziario privato da un lato, il sostegno anticiclico pubblico attraverso i bilanci nazionali e la capacità fiscale del bilancio comunitario dall’altro – interagiscano in maniera completa ed efficiente. Quanto maggiore sarà il progresso nel completamento dell’unione bancaria e del mercato dei capitali, tanto meno impellente, sebbene sempre necessaria, diverrà la costruzione di una capacità fiscale che potrà talvolta fare da completamento agli stabilizzatori nazionali. L’inazione su entrambi i fronti accentua la fragilità dell’unione monetaria proprio nei momenti di maggiore crisi; la divergenza fra i paesi aumenta. L’unione monetaria, conseguenza necessaria del mercato unico, è divenuta parte integrante e caratterizzante, con i suoi simboli e i suoi vincoli, del progetto politico che vuole un’Europa unita, nella libertà, nella pace, nella democrazia, nella prosperità. Le sfide che si sono presentate hanno sempre più carattere globale; possono essere vinte solo insieme, non da soli. Per questo che il nostro progetto europeo è oggi ancora più importante. È solo continuandone il progresso, liberando le energie individuali ma anche privilegiando l’equità sociale, che lo salveremo, attraverso le nostre democrazie, ma nell’unità di intenti. Onore al grande, grandissimo Draghi.
Alessandra Servidori
25 Febbraio 2019
Seminario 18 marzo 2019 Bologna
Si terrà a Bologna, il prossimo 18 marzo 2019, il seminario dal titolo "I diritti delle persone fragili e inabili. Dalla parte del lavoro".
Il seminario - organizzato dal Tavolo interistituzionale sulle malattie professionali, TutteperItalia e il Comune di Bologna - sarà un importante momento di riflessione sui diritti delle persone disabili, oltre che un'occasione per presentare l'accordo di programma tra il Comune di Bologna e il Tavolo interistituzionale.
Il seminario si terrà dalle 9.30 alle 16.30 presso Sala Cappella Farnese, Palazzo D’Accursio, Piazza Maggiore 6, Bologna.
Ricordiamo che aderiscono al Tavolo interistituzionale sulle malattie professionali: Tutteperitalia, Istituto Ramazzini di Bologna, Comune di Bologna, Ceslar (università degli Studi di Modena e Reggio Emilia) e le rappresentanze regionali di INAIL, lINPS, CGIL, CISL e UIL.
Avvenire Cattolici orgogliosi e vivacemente in pista!
ALESSANDRA SERVIDORI AVVENIRE Febbraio 2019
La premessa è che condivido la proposta di contribuire al confronto costruttivo sull’impegno dei cattolici italiani a servizio del paese solidale e coeso. Un dialogo e un percorso per rimuovere tutti gli impedimenti che si sovrappongono al pieno sviluppo della persona declinando i principi dell’uguaglianza sostanziale che connota le democrazie emancipate e impegnate a garantire e realizzare concretamente l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica economica e sociale del paese. Non sono la sola convinta che se la congiuntura continuerà ad essere negativa difficilmente aumenterà l'occupazione, e in particolare quella stabile dei nostri giovani: anzi, aver reso difficoltoso il ricorso al lavoro a termine comporterà il forte rischio che il saldo occupazionale sia significativamente negativo. Il cd Decreto Dignità non solo ha contribuito paradossalmente a invertire il tasso di crescita occupazionale, che fino alla sua entrata in vigore era in aumento, ma ragionevolmente costituirà un elemento di ostacolo alle assunzioni durante la congiuntura negativa, e ancor più in recessione creando ulteriore povertà. La modestia degli obiettivi perseguiti :pensioni a quota” 100 “ che costa un patrimonio a tutti gli italiani e interessa una esigua minoranza di lavoratori al Nord; sostegno al reddito che incrementa più la burocrazia che la domanda esterna ;assenza di investimenti pubblici e di sostegno alle imprese,velleitarie ipotesi di nazionalizzazione di aziende decotte come Alitalia ;disintermediazione caparbia delle forze e risorse sociali che ,per nostra fortuna, non hanno esaurito la vitalità dei corpi sociali. Se si intende come mi auguro prendere in mano la tradizione niente affatto disprezzabile delle aggregazioni popolari si deve farlo con la capacità di reinventarle in termini nuovi e cioè inclusivi e non ideologici e privi di pensieri unici di democrazia delle disuguaglianze e fantasiosi “beni comuni”; si deve riuscire ad avvicinare i cittadini italiani ad una idea di Italia ed Europa che rappresenta il riempire insieme di contenuti nuovi il diritto di cittadinanza per farne non una cittadinanza accessoria ma una vera pacificazione ,contemporaneamente anche della regione mediterranea attraverso nuove forme di cooperazione per garantire pace e stabilità favorendo un vero patto non solo simbolico ma costituente tra istituzioni e cittadini. L’Italia e L’Europa devono tenere in vita un welfare che garantisca la redistribuzione del reddito in forme tali che una vasta maggioranza di relativamente poveri possa condividere l’operato del governo e apprezzare l’investimento per lo sviluppo economico difendendo la società aperta e promuovendo azioni a difesa del pluralismo e del dialogo. L’identità sia italiana che Europea si rilancia sconfiggendo attraverso la discussione pubblica le paure fomentate da tanti allo scopo di rimettere in circolo culture e fedi sconfitte dalla storia con progetti politici in grado di affrontare le cause delle disuguaglianze che spesso costituiscono una scelta politica e non la conseguenza di uno stato di necessità. Bisogna aggiungere all’uguaglianza dei diritti l’uguaglianza delle opportunità e delle responsabilità essendo consapevoli che un sistema assistenziale che trae le proprie risorse sottraendole agli investimenti si autodistrugge. I sistemi di welfare devono incoraggiare il lavoro e non scoraggiarlo : si tratta di offrire agli italiani e italiane europei ed europee idee e progetti in grado di garantire una nuova dimensione politica dell’Italia e dell’Unione nel nome di un ritrovato patriottismo inclusivo ,economico, sociale , italiano ed europeo. Dunque un rinnovato Appello ai liberi e forti, che si riconoscono negli ideali di giustizia e libertà , rivolgendosi allo stesso tempo al ‘cuore’ e alla ‘testa’ degli italiani,ovvero in grado di mettere assieme ‘valori’ e ‘competenze’ e fede che significa speranza.
Sempre meno nascite in Europa e in Italia : una popolazione europea in declino e politiche italiane inadeguate.
BLOG www.formiche.net
Alessandra Servidori
Sempre meno nascite in Europa e in Italia : una popolazione europea in declino e politiche italiane inadeguate.
Eurostat ha presentato il suo Rapporto allarmante sulla grave crisi demografica dell’Europa.Una popolazione in declino è una popolazione che invecchia ed è e sarà ancora di più il problema più radicale e il più grave che dovremo affrontare.L’unione ha raggiunto una popolazione di 509,4 milioni nel 2015 ma prevede che la sua popolazione raggiungerà i 518 milioni solo nel 2080- cioè tra 60 anni- scendendo a 407 milioni se non importerà persone perché senza migrazione calerà inesorabilmente.Perché a lungo l’impronta demografica dell’Europa verso il basso è stata nascosta dall’immigrazione e dagli aumenti della longevità :la popolazione è rimasta la stessa anche se le percentuali di natalità sono diminuite.La Germania ha la metà della popolazione con più di 47 anni con l’Italia e Austria che seguono e sono tra le più vecchie società del mondo.Il mezzo secolo in cui la fertilità nativa europea è stata al di sotto del rimpiazzo è stato anche un mezzo secolo di immigrazione di massa.La Svezia ha una popolazione musulmana dell’8,1% e raggiungerà il 30% entro il 2050.Gli Europei sono portati a trascurare o ignorare il problema demografico ma l’immigrazione soprattutto quella proveniente dall’Africa sarà inevitabile perché incontrollabile a causa di guerre mentre l’Africa e dunque i giovani africani sono destinati a raddoppiare la loro popolazione in quanto la questione demografica e sociale è evidentemente in grandissima .l’ungheria e l’italia combattono allo stesso odo per allontanare sia l’immigrazione che l’emigrazione chiudendo porti e confini crescita ma dobbiamo avere ben presente che per mantenere la popolazione attiva all’Italia serve e servirà milioni di immigrati . Il calo demografico nel 2018 nostrano è grande : dava al primo gennaio 2019 la popolazione italiana a 60 milioni cioè 391 mila persone in meno rispetto al l’anno precedente e abbiamo 2,2 milioni di italiani con più di 85 anni che sono il 3,6% dei residenti.Diminuiscono le nascite con 9.000 bambini in meno del 2017 e il tasso di fecondità pari a 1,32 figli per donna e sempre più avanti l’età della maternità intorno all’età media di 32 anni. Lo stato sociale del ventesimo secolo è ovviamente messo a dura prova perché il calo del numero dei lavoratori e lavoratrici e dunque contribuenti rende il debito pubblico più difficile da ripagare in particolare come da noi che siamo fortemente indebitati. Dobbiamo dunque renderci conto che viviamo in una epoca di migrazione di massa e dobbiamo gestire l’integrazione prima di tutto e non possiamo arrestare l’immigrazione e l’emigrazione dei nostri giovani sapendo, per fare numeri veri, che le uscite dal nostro pese continuano essere numerosissime così sono 120mila i nostri giovani partiti nel 2018 contro 47 mila rimpatriati .Mantenere costante il rapporto tra pensionati e lavoratori è un obiettivo irrinunciabile e occorrono milioni di persone in età lavorativa che mantengano vitale l’Italia.Incentivi per natalità,orari di lavoro flessibili e sostegno alle imprese senza investire in sviluppo economico non basta : ci vuole una politica di rilancio dell’occupazione giovanile, femminile e sostegno alla famiglia perché con stipendi medi al primo impiego di 830 euro il sussidio di 780 euro del “reddito di pigrizia” è un elemento di disincentivazione alla ricerca del lavoro con un rischio reale dei piccoli lavoretti offerti( mini jobs cocopro) e il resto compensato con il sussidio,e la diminuzione dell’occupazione che galoppa con i centri per l’impiego intasati da domande e percorsi solo sulla carta e irrealizzabili. Secondo Istat l’80% dei disoccupati non rientrerebbe nel reddito di cittadinanza( ma in Italia si stanno organizzando per le truffe sull’Isee incontrollabili) ma i lavoratori extra comunitari non residenti in Italia e tanti altri sono esclusi dal programma lotta alla povertà e potrebbero accettare salari rifiutati dai beneficiari del reddito del governo penta stellato, e sapendo che gli sconti per le aziende che assumono quelli che hanno il reddito penta stellato si applicano solo ai contratti dei tempi indeterminati,poco probabili per i lavoratori a bassa competenza che rappresentano il 64% dei beneficiari, dunque l’esclusione degli stranieri è uno svantaggio per tutti e per l’Italia. Il cambio di passo della politica deve essere immediato. Pena la distruzione del nostro paese..
RADIO IN BLU 14 FEBBRAIO 2019 straming https:// www.radioinblu.it/streaming/?vid=0_7m7kccy2
Coraggio : sosteniamo i valori e le idee libere e forti
https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/un-patriottismo-inclusivo-italiano-e-anche-europeo
La premessa è che condivido la proposta di contribuire al confronto costruttivo sull’impegno dei cattolici italiani a servizio del paese solidale e coeso. Un dialogo e un percorso per rimuovere tutti gli impedimenti che si sovrappongono al pieno sviluppo della persona declinando i principi dell’uguaglianza sostanziale che connota le democrazie emancipate e impegnate a garantire e realizzare concretamente l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica economica e sociale del paese. Non sono la sola convinta che se la congiuntura continuerà ad essere negativa difficilmente aumenterà l'occupazione, e in particolare quella stabile dei nostri giovani: anzi, aver reso difficoltoso il ricorso al lavoro a termine comporterà il forte rischio che il saldo occupazionale sia significativamente negativo. Il cd Decreto Dignità non solo ha contribuito paradossalmente a invertire il tasso di crescita occupazionale, che fino alla sua entrata in vigore era in aumento, ma ragionevolmente costituirà un elemento di ostacolo alle assunzioni durante la congiuntura negativa, e ancor più in recessione creando ulteriore povertà. La modestia degli obiettivi perseguiti :pensioni a quota” 100 “ che costa un patrimonio a tutti gli italiani e interessa una esigua minoranza di lavoratori al Nord; sostegno al reddito che incrementa più la burocrazia che la domanda esterna ;assenza di investimenti pubblici e di sostegno alle imprese,velleitarie ipotesi di nazionalizzazione di aziende decotte come Alitalia ;disintermediazione caparbia delle forze e risorse sociali che ,per nostra fortuna, non hanno esaurito la vitalità dei corpi sociali. Se si intende come mi auguro prendere in mano la tradizione niente affatto disprezzabile delle aggregazioni popolari si deve farlo con la capacità di reinventarle in termini nuovi e cioè inclusivi e non ideologici e privi di pensieri unici di democrazia delle disuguaglianze e fantasiosi “beni comuni”; si deve riuscire ad avvicinare i cittadini italiani ad una idea di Italia ed Europa che rappresenta il riempire insieme di contenuti nuovi il diritto di cittadinanza per farne non una cittadinanza accessoria ma una vera pacificazione ,contemporaneamente anche della regione mediterranea attraverso nuove forme di cooperazione per garantire pace e stabilità favorendo un vero patto non solo simbolico ma costituente tra istituzioni e cittadini. L’Italia e L’Europa devono tenere in vita un welfare che garantisca la redistribuzione del reddito in forme tali che una vasta maggioranza di relativamente poveri possa condividere l’operato del governo e apprezzare l’investimento per lo sviluppo economico difendendo la società aperta e promuovendo azioni a difesa del pluralismo e del dialogo. L’identità sia italiana che Europea si rilancia sconfiggendo attraverso la discussione pubblica le paure fomentate da tanti allo scopo di rimettere in circolo culture e fedi sconfitte dalla storia con progetti politici in grado di affrontare le cause delle disuguaglianze che spesso costituiscono una scelta politica e non la conseguenza di uno stato di necessità. Bisogna aggiungere all’uguaglianza dei diritti l’uguaglianza delle opportunità e delle responsabilità essendo consapevoli che un sistema assistenziale che trae le proprie risorse sottraendole agli investimenti si autodistrugge. I sistemi di welfare devono incoraggiare il lavoro e non scoraggiarlo : si tratta di offrire agli italiani e italiane europei ed europee idee e progetti in grado di garantire una nuova dimensione politica dell’Italia e dell’Unione nel nome di un ritrovato patriottismo inclusivo ,economico, sociale , italiano ed europeo. Dunque un rinnovato Appello ai liberi e forti, che si riconoscono negli ideali di giustizia e libertà , rivolgendosi allo stesso tempo al ‘cuore’ e alla ‘testa’ degli italiani,ovvero in grado di mettere assieme ‘valori’ e ‘competenze’ e fede. che significa speranza.
Dalla Ue le Nuove Linee guida per educare all'uguaglianza di genere .
QUI EUROPA
Dal Parlamento Ue arrivano le Linee guida per educare all’uguaglianza di genere
www.ildiariodellavoro.it
Il Parlamento Europeo è impegnato a favore dell'uguaglianza di genere e della non discriminazione per motivi di genere e ha pubblicato l’aggiornamento delle Linee guida multilingue per un linguaggio neutrale rispetto al genere. L'uso di un linguaggio sensibile al genere è uno dei modi per attuare questo impegno. Le molte lingue e culture rappresentate in Parlamento significano che non esiste una soluzione "taglia unica" a questo riguardo, ma che occorre cercare soluzioni appropriate in ciascun contesto specifico, tenendo conto dei parametri linguistici e culturali pertinenti. Nel 2008, il Parlamento europeo è stato una delle prime organizzazioni internazionali ad adottare linee guida multilingue per un linguaggio neutrale rispetto al genere. Da allora, molte altre istituzioni e organizzazioni hanno adottato orientamenti simili. In occasione dell’undicesimo anniversario delle linee guida e al fine di riflettere gli sviluppi linguistici e culturali, il gruppo ad alto livello sulla parità di genere e la diversità ha chiesto ai servizi del Parlamento di aggiornare le linee guida linguistiche neutrali rispetto al genere, che forniscono consigli pratici in lingue ufficiali sull'uso di un linguaggio equo e inclusivo di genere.
Dunque, questa edizione aggiornata delle linee guida linguistiche di genere neutro, frutto di una stretta collaborazione tra i servizi linguistici e amministrativi competenti. Il Parlamento europeo continua a impegnarsi come sempre a utilizzare un linguaggio neutrale rispetto al genere nelle sue comunicazioni scritte e orali e ora invito i servizi competenti a sensibilizzare sugli orientamenti aggiornati e sull'importanza del loro uso nelle pubblicazioni e nelle comunicazioni parlamentari. Il linguaggio neutrale rispetto al genere o di genere è più che una questione di correttezza politica. Il linguaggio riflette e influenza in modo potente atteggiamenti, comportamenti e percezioni. Per trattare allo stesso modo tutti i generi, dagli anni '80 sono stati impiegati degli sforzi per proporre un uso del linguaggio neutro rispetto al genere / imparziale / non sessista, in modo che nessun genere sia privilegiato e i pregiudizi contro qualsiasi genere non siano perpetuati.
Nell'ambito di questi sforzi, nell'ultimo decennio sono state sviluppate e implementate numerose linee guida a livello internazionale e nazionale. Istituzioni internazionali ed europee (come le Nazioni Unite, l'Organizzazione mondiale della sanità, l'Organizzazione internazionale del lavoro, il Parlamento europeo e la Commissione europea), associazioni professionali, università, importanti agenzie di stampa e pubblicazioni hanno adottato linee guida per l'uso non sessista di lingua, sia come documenti separati o come raccomandazioni specifiche incluse nelle loro guide di stile. Nell'Unione europea, molti Stati membri hanno anche discusso le politiche linguistiche e proposto tali orientamenti a vari livelli. Il principio dell'uguaglianza di genere e della non discriminazione per motivi di genere è saldamente radicato nei trattati e nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, ed è stato approvato dal Parlamento europeo in molte occasioni. La lingua utilizzata in Parlamento dovrebbe quindi riflettere questo.
A tal fine, l'obiettivo di tali orientamenti è di garantire che, per quanto possibile, il linguaggio non sessista e di genere sia utilizzato anche nei documenti e nelle comunicazioni del Parlamento in tutte le lingue ufficiali. Lo scopo di queste linee guida non è quello di costringere gli autori del Parlamento europeo a seguire una serie di regole obbligatorie, ma piuttosto a incoraggiare i servizi amministrativi a tenere in debita considerazione la questione della sensibilità di genere nella lingua ogni volta che scrivono, traducono o interpretano. Va ovviamente sottolineato che i traduttori sono tenuti a rendere i testi fedelmente e accuratamente nella propria lingua. Se un autore usa intenzionalmente un linguaggio specifico per genere, la traduzione rispetterà tale intenzione.
Ciò rende ancora più importante per gli autori di testi in Parlamento essere pienamente consapevoli dei principi del linguaggio neutro rispetto al genere. Per quanto riguarda l'interpretazione, i servizi del Parlamento sono pienamente impegnati a utilizzare un linguaggio neutrale rispetto al genere e ad abbracciare i principi associati di non discriminazione, riconoscimento e uguaglianza. Di conseguenza, queste linee guida sono rese disponibili online e fanno parte della preparazione di un interprete. Mentre gli interpreti sono consapevoli degli standard linguistici neutrali rispetto al genere nelle loro lingue di lavoro, ci sono alcuni vincoli, come l'elevata velocità con cui vengono pronunciati i discorsi, la necessità di rispettare la paternità e le intenzioni degli oratori, evitando interferenze editoriali, così come lo specifico caratteristiche della lingua parlata rispetto alla lingua scritta, che può rendere occasionalmente difficile incorporare un linguaggio neutrale rispetto al genere nell'interpretazione simultanea, un'attività molto rapida e molto intensa.
Questi orientamenti devono riflettere due aspetti specifici del lavoro del Parlamento: in primo luogo, il suo ambiente di lavoro multilingue e, in secondo luogo, il suo ruolo di legislatore europeo. (a) Contesto multilingue Nell'ambiente multilingue del Parlamento europeo, i principi di neutralità di genere nella lingua e nella lingua di genere richiedono l'uso di strategie diverse nelle varie lingue ufficiali, a seconda della tipologia grammaticale di ciascuna lingua. Per quanto riguarda il genere grammaticale nelle lingue ufficiali dell'Unione, è possibile operare una distinzione tra tre tipi di lingue e le strategie di accompagnamento per raggiungere la neutralità di genere: - Lingue di genere naturali (come il danese, l'inglese e lo svedese), dove personale i nomi sono per lo più neutrali rispetto al genere e ci sono pronomi personali specifici per ogni genere. La tendenza generale qui è quella di ridurre il più possibile l'uso di termini specifici per genere. In queste lingue, la strategia linguistica più utilizzata è la neutralizzazione.
Per evitare riferimenti di genere, si possono usare termini neutrali rispetto al genere, cioè parole che non sono specifiche per genere e si riferiscono alle persone in generale, senza riferimento a donne o uomini ("presidente" è sostituito da "presidente" o "presidente" "," poliziotto "o" poliziotta "di" ufficiale di polizia "," portavoce "di" portavoce "," hostess "di" assistente di volo "," preside "o" preside "di" direttore "o" preside ", ecc. ). Questa tendenza neutra rispetto al genere ha portato alla scomparsa delle forme femminili più anziane, con la precedente forma maschile che diventa unisex (ad esempio "attore" anziché "attrice"). Viene utilizzato anche il linguaggio Gender inclusive, sostituendo, ad esempio, "lui" come riferimento generico dai termini "lui o lei". - Lingue grammaticali di genere (come il tedesco, le lingue romanze e le lingue slave), in cui ogni sostantivo ha un genere grammaticale e il genere dei pronomi personali di solito corrisponde al nome di riferimento. Poiché è quasi impossibile, da un punto di vista lessicale, creare forme ampiamente neutre rispetto al genere dalle parole esistenti in quelle lingue, sono stati ricercati e raccomandati approcci alternativi nel linguaggio amministrativo e politico.
La femminilizzazione (cioè l'uso di corrispondenze femminili di termini maschili o l'uso di entrambi i termini) è un approccio che è diventato sempre più utilizzato in questi linguaggi, in particolare in contesti professionali, come i titoli di lavoro in riferimento alle donne. Poiché la maggior parte delle professioni sono state, per tradizione, grammaticalmente maschili, con poche eccezioni, tipicamente per lavori tradizionalmente femminili come "infermiera" o "ostetrica", il sentimento di discriminazione è stato particolarmente forte. Pertanto, iniziarono a essere create equivalenti femminili e sempre più utilizzate per praticamente tutte le funzioni del genere maschile ("Kanzlerin", "présidente", "sénatrice", "assessora", ecc.). Inoltre, la sostituzione del genere maschile generico con forme doppie per referenti specifici ("tutti i consiglieri e tutte le consigliere") è stata accettata in molte lingue. Pertanto, l'uso di termini generici maschili non è più la pratica assoluta, anche negli atti legislativi.
Ad esempio, nella versione tedesca del trattato di Lisbona, il termine generico "cittadini" appare anche come "Unionsbürgerinnen und Unionsbürger".Lingue senza genere (come estone, finlandese e ungherese), in cui non vi è alcun genere grammaticale e nessun genere pronominale. Queste lingue generalmente non richiedono una particolare strategia per essere inclusivi di genere, salvo per i casi molto specifici discussi nelle linee guida particolari per quelle lingue. (b) Il Parlamento europeo come legislatore Il modo in cui il principio della sensibilità di genere nel linguaggio si riflette in un testo dipende anche fortemente dal tipo e dal registro del testo coinvolto. Gli autori dovrebbero fare attenzione a garantire che la soluzione scelta sia appropriata per il tipo di testo e gli usi futuri a cui sarà destinata, garantendo allo stesso tempo una visibilità sufficiente per tutti i generi desiderati.
Ad esempio, ciò che può essere appropriato in un discorso ("Signore e signori") o una forma diretta di indirizzo ("Gentile Signore o Signora" nella parte superiore di una lettera) non soddisferà necessariamente i vincoli formali della legislazione, che deve essere chiaro, semplice, preciso e coerente, e non si presta bene a certe soluzioni redazionali finalizzate alla neutralità di genere che potrebbero creare ambiguità riguardo agli obblighi contenuti nel testo (come l'alternanza di forme maschili e femminili per il pronome generico o l'uso di solo la forma femminile in alcuni documenti e solo il maschile in altri). Pur rispettando la necessità di chiarezza, l'uso di una lingua che non è di genere inclusiva, in particolare il maschile generico, dovrebbe essere evitato per quanto possibile negli atti legislativi. Numerosi organi legislativi negli Stati membri hanno già adottato raccomandazioni in tal senso.
Sebbene i modi specifici per evitare il linguaggio sessista variano da una lingua all'altra, molti dei seguenti problemi sono comuni alla maggior parte delle lingue. La convenzione grammaticale tradizionale nella maggior parte dei linguaggi grammaticali di genere è che per i gruppi che uniscono entrambi i sessi, il genere maschile è usato come forma "inclusiva" o "generica", mentre il femminile è "esclusivo", vale a dire riferendosi solo alle donne. Questo uso generico o neutralizzante del genere maschile è stato spesso percepito come discriminante nei confronti delle donne. La maggior parte delle lingue di genere grammaticali ha sviluppato le proprie strategie per evitare tale uso generico.
Le strategie rilevanti sono descritte nelle linee guida specifiche alla fine di questo opuscolo. Le soluzioni che riducono la leggibilità di un testo, come i moduli combinati ('s / lui', 'lui / lei'), dovrebbero essere evitati. Inoltre, l'uso in molte lingue della parola "uomo" in una vasta gamma di espressioni idiomatiche che si riferiscono a uomini e donne, come la manodopera, il laico, l'uomo, gli statisti, il comitato dei saggi, dovrebbe essere scoraggiato. Con una maggiore consapevolezza, tali espressioni di solito possono essere rese neutrali dal punto di vista del genere. Combinando varie strategie (cfr. Orientamenti specifici), dovrebbe essere possibile, nella maggior parte dei casi, applicare il principio di neutralità di genere e di equità nei testi del Parlamento.
Quando si fa riferimento alle funzioni nei testi del Parlamento, i termini generici sono usati nelle lingue di genere naturali e nelle lingue di genere, mentre la forma maschile può essere usata eccezionalmente nelle lingue grammaticali di genere (ad esempio "chaque député ne peut") soutenir qu'une candidature '). Se il genere della persona è pertinente al punto che viene fatto, o quando si fa riferimento a singole persone, dovrebbero essere usati termini specifici di genere, in particolare nelle lingue di genere grammaticali (ad esempio "la haute représentante de l'Union pour les affaires étrangères et la politique de sécurité '). In linea generale, dovrebbero essere rispettati i desideri di una persona su come vorrebbe essere indirizzata o indirizzata (ad esempio "Madame le Président" o "Madame la Présidente"). Gli avvisi di posti vacanti dovrebbero essere redatti in un modo inclusivo di genere al fine di incoraggiare candidati sia maschili che femminili a presentare domanda.
In alcune lingue (ad esempio francese e tedesco), titoli come "Madame", "Mademoiselle", "Frau" o "Fräulein" indicavano in origine lo stato civile della donna a cui si applicava il titolo. Questo è cambiato nel corso degli anni e l'uso di tali titoli non riflette più tale stato. La pratica amministrativa sta seguendo questa tendenza. Il titolo "Mademoiselle" viene progressivamente cancellato dalle forme amministrative nei paesi francofoni, lasciando solo la scelta tra "Madame" e "Monsieur". Nei testi del Parlamento, titoli come "Monsieur", "Frau", "Ms", ecc. Vengono spesso semplicemente lasciati a favore del nome completo della persona. Anche il ruolo del Parlamento in quanto legislatore europeo deve essere preso in considerazione quando si cerca di ottenere un linguaggio neutrale rispetto al genere.
Non tutte le soluzioni che potrebbero altrimenti essere applicate possono essere utilizzate nel contesto della legislazione, che richiede chiarezza, semplicità, precisione e coerenza. Sarebbe utile che il Governo italiano traducesse queste linnee guida ( magari facendosi supportare da persone di buona volontà) e le pubblicizzasse sull’esempio di Papa Francesco che ha già dato l’imput per una educazione sessuale anche nelle scuole che sostenga il principio della non discriminazione.
http://www.europarl.europa.eu/cmsdata/151780/GNL_Guidelines_EN.pdf
Alessandra Servidori
PAPA FRANCESCO : "Nelle scuole bisogna un'educazione sessuale...." Non giusto.Giustissimo !
Alessandra Servidori PAPA FRANCESCO : "Nelle scuole bisogna dare un'educazione sessuale...." Non giusto.Giustissimo !
“Nelle scuole bisogna dare un’educazione sessuale, il sesso è un dono di Dio, non è un mostro, è un dono di Dio per amare. Che poi alcuni lo usino per guadagnare soldi o sfruttare è un altro problema. Ma bisogna dare un’educazione sessuale oggettiva, senza colonizzazione ideologica. Se inizi dando un’educazione sessuale piena di colonizzazione ideologica distruggi la persona”, ha detto Papa Bergoglio. Il Santo Padre dà una grande importanza all’educazione sessuale, che ha lo scopo di “far emergere il meglio dalle persone e accompagnarle lungo la strada”. L’importante è saper scegliere i testi giusti. Ma aggiungo, le persone giuste per trasmettere un insegnamento molto importante. Infatti educare alla sessualità e all’affettività significa fornire a giovani di tutte le età gli strumenti per meglio comprendere il sesso all’interno della società. Oggi non è obbligatoria nelle scuole italiane, ma può essere impartita dagli insegnanti, dagli educatori e dal personale ASL a partire dalle elementari. Ad ogni età viene proposto un approccio diverso alla tematica, adeguatamente alla maturità dei giovani . L’educazione sessuale prevede innanzitutto lezioni di biologia e anatomia, in cui si illustra ai ragazzi come avvengono la fecondazione e la nascita; successivamente, di solito in età adolescenziale, le lezioni vertono su argomenti più delicati e profondi, come le malattie sessualmente trasmissibili, la contraccezione e l’aborto. In Italia, dopo numerose proposte di legge non andate a buon fine, la Riforma “la Buona Scuola” intende promuovere nelle scuole di ogni ordine e grado la parità tra i sessi e la prevenzione di ogni forma di discriminazione, senza tuttavia rendere obbligatoria l’educazione sessuale. L’argomento è oggetto di polemiche in quanto da un lato si hanno intellettuali che avvertono l’urgenza di parlare di sessualità con i ragazzi nelle scuole, dall’altro studiosi, esponenti religiosi e associazioni di genitori ritengono la materia troppo delicata per poter essere esposta in classe. Così si rischia di lasciare ancora e sempre di più soli i nostri giovani. Da alcuni studi fatti dall’OMS, dall’Unesco e da altri organismi internazionali risulta che i giovani hanno, nei confronti del sesso, un atteggiamento improvvisato. Cioè conoscono una serie di notizie che provengono dal loro stesso mondo o da internet. Se ne parla poco in famiglia, non se ne parla per niente a scuola. Le conseguenze sono gravi perché si verificano gravidanze indesiderate, è poco frequente l’uso del profilattico col rischio di contrarre malattie sessualmente trasmissibili e ancora peggio si rischiano tutta una serie di comportamenti che portano all’abuso sessuale, alla prevaricazione dei sessi e all’intolleranza verso la diversità. Oggi poi la situazione è aggravata dall’esistenza dei social, che sono stati protagonisti di una spettacolarizzazione negativa del sesso: in più di una circostanza appaiono video o foto di stupri di gruppo e di atti sessuali con conseguenze devastanti per chi ne è stato vittima. Senza pensare solo agli aspetti negativi, anche solo parlare della masturbazione è ancora difficile. Rimane un atto che si compie in segreto, accettata forse tra i maschi. Ma per quanto riguarda le donne, una confidenza del genere è molto difficile da fare anche alla propria migliore amica. Sembra che tutte quelle conquiste ottenute nel corso degli anni passati per avere un clima più sereno nei confronti della sessualità si siano affievolite nelle mani delle nuove generazioni, che si ritrovano una libertà difficile da gestire e da comprendere. E’ dunque opportuno prevedere un’educazione sessuale a scuola perché evidentemente c’è bisogno di un sistema di insegnamento di alcune regole fondamentali, da proporre ad ogni nuova generazione in modo tale da creare una società omogenea nei valori e nel comportamento verso il sesso. Ci sono generazioni di donne e di uomini che hanno imparato a dialogare con il proprio corpo e con le sue esigenze, sono stati educati al rispetto reciproco e della diversità e della valorizzazione dei sentimenti; poi ci sono generazioni che sono state lasciate a se stesse, perché parlare di sesso non era più di moda, l’argomento si era esaurito e soprattutto i genitori erano e sono sovente distratti da alcuni problemi che loro stessi non sanno affrontare nell’ambito della coppia e della famiglia e della relazione . Dunque l’educazione sentimentale e sessuale è una forma di educazione che deve essere rinnovata nel tempo. Dobbiamo poi sapere che per quanto riguarda i paesi dell’Unione Europea tutti tranne Italia, Bulgaria, Cipro, Polonia, Romania hanno reso obbligatoria l’educazione sessuale nelle scuole. Nel Regno Unito nel febbraio 2015 i parlamentari inglesi hanno chiesto che l’educazione sessuale divenisse obbligatoria nella scuola primaria e secondaria. I primi della classe in materia sono i paesi scandinavi, l’Olanda, la Francia e la Germania. Questi paesi si sono dotati di programmi che puntano a ritardare l’età del primo rapporto sessuale, ridurre la frequenza di attività non protette, incrementare l’uso di precauzioni per evitare gravidanze non volute e malattie. Ma anche a riconoscere e smontare gli stereotipi alla base delle discriminazioni di genere e quelli legati all’orientamento sessuale, ad acquisire consapevolezza dei diritti umani, avere rispetto ed empatia per gli altri, costruire relazioni basate sul rispetto. In Italia le proposte però non hanno portato mai a nulla di fatto. Bisogna educare i giovani alla complementarietà tra uomo e donna e alla valorizzazione di un rapporto umano e rispettoso tra i sessi e fare della scuola una comunità inclusiva volta al “superamento di tutte le discriminazioni”.Il comma 16 della legge 107/2015di Riforma su “La Buona Scuola” così recita: “Il piano triennale dell’offerta formativa assicura l’attuazione dei principi di pari opportunità, promuovendo nelle scuole di ogni ordine e grado l’educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni”. Tre righe che hanno scatenato l’inferno e tuttora è al lavoro una commissione occupata a delineare delle linee guida che riempiano questo testo di significato. Nel frattempo tutto il discorso sull’educazione sessuale nelle scuole è nelle mani dei singoli dirigenti scolastici.Ma tutto si risolverebbe con una buona alleanza tra territorio e scuole e dunque tra aziende sanitarie e istituti scolastici di ogni ordine e grado promuovessero nell’ambito di una saggia e rinnovata educazione civica una vera e propria educazione sentimentale scientifica , pratica e priva di deleterei silenzi e omissioni.
I giovani ci salveranno dai nuovi barbari
QUI EUROPA: i giovani salveranno l’Europa dai "nuovi barbari’’
Alessandra Servidori 31 gennaio 2019
I giovani salveranno l’Europa dalla devastazione dei nuovi barbari: rafforziamo il Corpo Europeo di solidarietà. Questo, in sintesi, il messaggio di una comunicazione della Commissione Ue.
Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni – Un corpo europeo di solidarietà, del 7.12.2016 [COM(2016) 942 finale].
La comunicazione della Commissione europea "Un corpo europeo di solidarietà", del 7 dicembre 2016 , ha avviato la prima fase del corpo europeo di solidarietà e ha ribadito l'obiettivo di vedervi partecipare 100 000 giovani europei entro il 2020. Nel corso di quella fase iniziale sono stati attivati otto diversi programmi dell'UE per offrire ai giovani dell'Unione opportunità di volontariato, tirocinio o lavoro nell'Unione. Poiché è possibile sviluppare ulteriormente la solidarietà nei confronti delle vittime di crisi e calamità nei paesi terzi, la proposta che sarà votata il 4 febbraio 2019 prevede di estendere l'ambito del corpo europeo di solidarietà al sostegno di operazioni di aiuto umanitario nei paesi terzi, compresi quelli situati nel vicinato delle regioni ultraperiferiche dell'UE. Come dimostrato dalla valutazione ex ante che accompagna la proposta per il triennio prossimo, questa estensione servirebbe a più scopi, come l'istituzione di uno "sportello unico" per le attività di solidarietà.
Sarà incluso così il volontariato da parte dei volontari nel settore degli aiuti umanitari, attività attualmente sostenuta dall'iniziativa Volontari dell'Unione per l'aiuto umanitario. Questa iniziativa contribuisce agli sforzi volti a rafforzare la capacità dell'Unione di fornire un'assistenza umanitaria fondata sulle esigenze e le capacità e la resilienza delle comunità vulnerabili o afflitte da calamità nei paesi terzi. Estendendo il suo ambito di attività e la sua portata geografica in questo settore, la presente proposta fornisce il quadro giuridico affinché il corpo europeo di solidarietà aumenti le opportunità a disposizione dei giovani per impegnarsi in attività di solidarietà. Ciò contribuirà ad affrontare non solo le necessità sociali insoddisfatte in Europa, ma anche le sfide umanitarie in paesi terzi.
La proposta promuoverà anche lo sviluppo personale, formativo, sociale, civico e professionale dei giovani. In questo contesto il corpo europeo di solidarietà mira a rafforzare la partecipazione di giovani e organizzazioni ad attività di solidarietà accessibili e di elevata qualità. Il corpo europeo di solidarietà è un mezzo per contribuire a rafforzare la coesione, la solidarietà e la democrazia in Europa e all'estero e per affrontare le sfide sociali e umanitarie sul campo, con particolare attenzione alla promozione dell'inclusione sociale. Per conseguire questo obiettivo generale, il corpo europeo di solidarietà offrirà ai giovani occasioni facilmente accessibili di impegnarsi in attività di volontariato, tirocini o lavori in settori connessi alla solidarietà, come l'economia sociale, e per elaborare e sviluppare progetti di solidarietà di propria iniziativa. Migliorando le abilità e competenze dei giovani, quest'ultima possibilità contribuisce anche al loro sviluppo personale, sociale e professionale, così come alla loro occupabilità.
Il corpo europeo di solidarietà sosterrà inoltre attività di rete per le organizzazioni e i partecipanti. Queste mirano a promuovere uno spirito del corpo europeo di solidarietà e un senso di appartenenza a una comunità più ampia dedita alla solidarietà e a incoraggiare lo scambio di pratiche ed esperienze utili. L’iniziativa di solidarietà mira inoltre a garantire che: · le attività di solidarietà offerte ai giovani partecipanti contribuiscano ad affrontare sfide sociali concrete, alle operazioni di aiuto umanitario fondate sulle esigenze e a rafforzare le comunità; e · i risultati dell'apprendimento derivanti dalla partecipazione dei giovani a tali attività vengano debitamente convalidati.
La nuova proposta prevede come data di applicazione il 1º gennaio 2021 ed è riferita a un'Unione di 27 Stati membri, avendo il Regno Unito notificato al Consiglio europeo, il 29 marzo 2017, l'intenzione di recedere dall'Unione europea e dall'Euratom in forza dell'articolo 50 del trattato sull'Unione europea. Il corpo europeo di solidarietà offrirà nuove opportunità nel settore dell'aiuto umanitario che non saranno più sostenute dall'iniziativa Volontari dell'Unione per l'aiuto umanitario (che giungerà al termine nel 2020) e semplificherà l'accesso di organizzazioni e giovani interessati. Continuerà ad avere un unico punto di accesso facilmente accessibile attraverso il portale e punterà a garantire la più ampia divulgazione possibile alle organizzazioni e ai giovani coinvolti. Svilupperà e migliorerà inoltre la formazione disponibile prima dell'attività e il sostegno appropriato e la convalida dei risultati dell'apprendimento dopo di essa. Nella prima e nella seconda fase del corpo europeo di solidarietà – 2016/2017- 2017/2018 è stata attivata una serie di diversi programmi dell'Unione per offrire ai giovani dell'UE occasioni di volontariato, tirocinio o lavoro nell'Unione.
La nuova proposta stabilisce le basi per una terza fase del corpo europeo di solidarietà, la cui dotazione ben definita permetterà di sviluppare tutte le attività di solidarietà applicando la stessa serie di norme e condizioni, indipendentemente dal settore cui si rivolge l'azione. Poiché il nuovo ambito esteso include attività a sostegno delle operazioni di aiuto umanitario, il corpo europeo di solidarietà beneficerà di contributi aggiuntivi a sostegno del nuovo ambito di attività. Queste attività saranno attuate in stretto coordinamento con i servizi interessati della Commissione. La proposta della Commissione per il quadro finanziario pluriennale 2021-2027 ha fissato un traguardo più ambizioso per l'integrazione delle questioni climatiche in tutti i programmi dell'UE, stabilendo l'obiettivo generale di dedicare il 25 % della spesa di bilancio dell'UE a sostegno degli obiettivi in materia di clima coinvolgendo soprattutto i giovani . Il contributo del programma al conseguimento di tale obiettivo generale sarà monitorato mediante un sistema dell'UE di indicatori climatici al livello opportuno di disaggregazione, compreso il ricorso a metodologie più precise, se disponibili.
Per sostenere appieno il potenziale del programma di contribuire al raggiungimento degli obiettivi in materia di clima, la Commissione si adopererà per individuare azioni pertinenti durante l'intero processo di preparazione, attuazione, riesame e valutazione del programma. Lo spirito d'iniziativa dei giovani è una risorsa importante per la società e per il mercato del lavoro. Il corpo europeo di solidarietà contribuisce a promuovere questo aspetto offrendo ai giovani l'opportunità di elaborare e attuare progetti propri volti ad affrontare sfide specifiche a beneficio della comunità locale. Tali progetti costituiscono un'occasione per sperimentare idee e sostenere i giovani a essere promotori di iniziative di solidarietà. Essi servono anche da trampolino di lancio per un ulteriore impegno in attività di solidarietà e costituiscono un primo passo per incoraggiare i partecipanti al corpo europeo di solidarietà a intraprendere un lavoro autonomo o a dedicarsi alla fondazione di associazioni, organizzazioni non governative o altri organismi attivi nei settori della solidarietà, del non profit e dei giovani. Il corpo europeo di solidarietà è rivolto ai giovani di età compresa tra 18 e 30 anni e la partecipazione alle attività offerte dovrebbe richiedere la previa registrazione nel portale del corpo europeo di solidarietà.
Particolare attenzione dovrebbe essere prestata affinché le attività sostenute dal corpo europeo di solidarietà siano accessibili a tutti i giovani, in particolare quelli più svantaggiati. Dovrebbero essere attuate misure speciali per promuovere l'inclusione sociale e la partecipazione dei giovani svantaggiati e per tenere conto dei vincoli imposti dalla lontananza di una serie di aree rurali, delle regioni ultraperiferiche dell'Unione e dei paesi e territori d'oltremare. Analogamente, i paesi partecipanti dovrebbero adoperarsi per adottare tutte le misure adeguate a rimuovere gli ostacoli giuridici e amministrativi al corretto funzionamento del corpo europeo di solidarietà. Ciò dovrebbe comprendere la risoluzione, ove possibile e fatto salvo l'acquis di Schengen e la normativa dell'Unione in materia di ingresso e di soggiorno dei cittadini di paesi terzi, delle questioni amministrative che generano difficoltà in relazione all'ottenimento di visti e permessi di soggiorno e il rilascio di una tessera europea di assicurazione sanitaria in caso di attività transfrontaliere all'interno dell'Unione europea.
I rappresentanti Italiani in Commissione ci tengano informati per irrobustire le iniziative per il futuro del nostro Paese e dei nostri giovani e sostenere , almeno per i nostri nipoti , una Europa solidale e sociale.
Arriva il MIO Manager Innovazione Opportunità
https://www.ildiariodellavoro.it/adon.pl?act=doc&doc=71092#.XEicQVxKhPY
TECNOLOGIA E LAVORO
Arriva MIO, certificherà i manager per l’innovazione e le opportunità
Autore: Alessandra Servidori
I cambiamenti della legge di bilancio sui finanziamenti del Piano Industria 4.0 pongono non pochi problemi con una virata inaspettata che lascia il segno proprio sul tema delle competenze. Nella nuova versione del piano 4.0 restano le agevolazioni per l’Iperammortamento pur con l’inserimento del tetto massimo per gli investimenti di 20 milioni di euro che penalizza ovviamente le grandi imprese, ma è la scelta di ridimensionare fortemente gli incentivi per la formazione, quella che più preoccupa, perché uno dei pilastri del progetto di digitalizzazione delle imprese che puntava a sviluppare le competenze del personale a fronte della sempre più innovativa tecnologia richiesta dalle organizzazioni per restare competitive. Infatti, significa snaturare l’impianto stesso del piano originale che prevedeva due linee di intervento: da una parte gli incentivi per aiutare le aziende ad acquistare le tecnologie e dall’altra quelli per sostenere le imprese a utilizzare soluzioni digitali sempre più complesse. Il bonus formazione, sotto forma di credito di imposta per le spese di formazione tecnologica del personale rispetto alla disciplina del 2018,nella legge di Bilancio 2019 introduce una differenziazione dell’agevolazione in funzione della dimensione dell’impresa, nelle misure che variano dal 50% al 30% delle spese ammissibili.
Cambia il tetto massimo: 300.000 euro per le Pmi e 200.000 euro per le grandi imprese. La proroga prevede infatti che il credito di imposta per la formazione – inserito un anno fa in via sperimentale per il 2018 e quindi valido fino al 31 dicembre – venga poi dismesso in favore delle agevolazioni per le assunzioni temporanee dei manager chiamati a occuparsi di innovazione digitale. Avevamo puntato molto sul credito di imposta sulla formazione, perché consideravamo l’assenza delle competenze 4.0 in azienda come il vero collo di bottiglia per gli investimenti. Questa scelta è un importante messaggio politico da non sottovalutare: Ciò che traspare è il disinteresse nei confronti della formazione e quindi delle persone. L’inversione di tendenza rischia di compromettere i primi benefici del piano 4.0, visto che tecnologie e competenze dovrebbero procedere in sintonia e con la stessa velocità.
Ciò che è a rischio è addirittura la produttività delle imprese: secondo i dati del Politecnico, le aziende 4.0 hanno ottenuto un risultato di +25% in termini di produttività rispetto ai competitor che non si sono aggiornati. La formazione dovrebbe essere una priorità per la società e investire nelle tecnologie digitali vuol dire fare politiche per la crescita e il lavoro. La proroga del Piano è mirata alle Piccole e medie imprese che sull’innovazione hanno vissuto un pericoloso periodo di inerzia. La revisione delle aliquote è una scelta che privilegia le PMI, ma la proroga di un anno di Impresa 4.0 non basta per sostenere una trasformazione culturale del sistema-impresa che richiede un tempo ben più lungo.
Inoltre, si rischia di alimentare la preoccupazione legittima per la perdita di posti di lavoro generata dall’introduzione di tecnologie sempre più sviluppate e indebolire la prospettiva che l’effetto disoccupazione legato all’innovazione digitale sarebbe stato colmato dalla necessità di dotarsi di ‘operatori 4.0’ della digitalizzazione in grado di ottenere performance dalle macchine, visto che si affievoliscono egli stimoli a fare formazione. Il rischio vero è di avere aziende che possono dotarsi di strumenti molto evoluti, ma senza personale capace di sfruttarne tutte le potenzialità, almeno fino a quando la scuola non sarà in grado di soddisfare la domanda di competenze proveniente dalle aziende. La stessa quarta rivoluzione industriale infatti impone una formazione continua, visto che le 10 posizioni più richieste oggi dal mercato neppure esistevano fino a meno di un decennio fa. Non basta neppure la soluzione di orientare i fondi che prima erano destinati alla formazione all’assunzione di manager dell’innovazione. È una scelta sicuramente buona,ma che non risolve il problema, perché in questo modo si inserisce in azienda una sola persona con le competenze, ma più manageriali che tecniche. E se le nuove aliquote del piano vanno nella direzione di aiutare le PMI ,questa decisione di puntare su un unico ‘innovatore’ e concentrare l’investimento per l’innovazione su una sola persona non ha lo stesso impatto sulla produttività rispetto alla formazione di 10 persone.
Come Ceslar –Centro Studi dell’Università di Modena e Reggio Emilia, TutteperItalia, insieme a Bureau Veritas e Cepas abbiamo predisposto un corso di certificazione del manager dell’innovazione e delle opportunità – MIO- che amplia di molto la platea delle persone che frequentandolo possono ottenere la certificazione delle competenze possedute e dunque aspirare anche a collocarsi con una possibilità in più nel mercato del lavoro e soprattutto attraverso la Rete di imprese anche piccole o medie dotarsi di informazioni e managerialità innovative dal punto di vista organizzativo e produttivo.
Alessandra Servidori
Non è un Paese per bambini
Alessandra Servidori Non è un paese per bambini
Un’ indagine nazionale denuncia che molti bambini sono ricoverati nelle pediatrie per patologie (pare ) curabili a domicilio : una ospedalizzazione under 18 è sicuramente uno dei sintomi che il territorio non è in grado di rispondere alle esigenze di visite e terapie farmacologiche nelle abitazioni. Peraltro trovare un medico di base pediatra che quando i piccoli si ammalano con alterazione febbrile consistente si rechi a casa del piccolo è ormai impossibile. Esperienza personale,amicale ma anche solo scambio di informazioni tra cittadini, la prassi di rivolgersi ad un pediatra che retribuito nelle 12 ore dalla chiamata presta la sua professionalità è diventata normale, ma anche , e non di rado addirittura neanche facilissimo da trovare.Vero forse è che gli ospedali fanno ricorso al ricovero anche se non è indispensabile, ma con le famiglie giustamente in panico e il rischio di avere denunce penali per mancanza di assistenza, porta i sanitari a ricoveri precauzionali consistenti. La verità è che i servizi materno infantili soffrono-nonostante in Italia vi sia un sistema tra i migliori a livello internazionale- a tagliare le risorse e gli ospedali si difendono come possono per garantire con il sistema del finanziamento riferito al bilancio dell’anno precedente, a garantirsi le medesime prestazioni economiche. La cittadinanza infantile è il bene più prezioso a cui una società responsabile deve garantire cure di buon livello rafforzando il rapporto tra territorio e presidi ospedalieri e premiando i pediatri che “ricominciano” a rendersi disponibili a visite e terapie domiciliari. Così come i recenti fattacci che vengono scoperti negli asili e nelle scuole dell’infanzia di operatrici che massacrano i piccoli a parole e botte è una vergogna ripugnante che va punita severamente . Le cosidette “maestre o maestri” in età matura non sono più adatti a stare con i piccoli e la normativa dovrebbe prevedere l’utilizzo del personale sia insegnante che operativo di modificare il rapporto di lavoro ed essere utilizzato presso uffici scolastici o comunque amministrativi perché per contrastare maltrattamenti bisogna puntare sulla riqualificazione del personale e prevedere piani di decompressione perché il rapporto con i bambini può provocare problemi di aggressività degli insegnanti. Il lavoro a contatto con i bambini richiede visite periodiche per accertare la presenza costante dei requisiti necessari per prendersi cura dei piccoli e soprattutto un organico adeguato di supporto .Certo è che è un problema che coinvolge sia la scuola pubblica che quella privata . E in questo periodo di iscrizioni la scelta del tipo di scuola è delicato e non può esserci competitività fra sistema pubblico e privato anche come rette di frequenza. La scuola primaria è comunque necessaria, perchè è ‘maestra’ nel sempre tanto avversato tempo pieno,necessita di un alto livello inclusivo e professionale, nonché la sua specificità didattica multietnica e dell’integrazione dei diversamente abili, è quella che può rispondere sempre più alle necessità di sussidiarietà tra un sistema e l’altro per un diritto di cittadinanza che faccia crescere i piccoli cittadini in armonia. Gli anni da zero a sei, sono fondamentali nello sviluppo della persona, più ancora di quelli successivi: eppure in questo segmento si interviene in modo frammentato, spesso deprofessionalizzato e lo si tratta come ‘servizio’ semplicemente custodialistico. Dando applicazione ad una vecchia norma già contenuta del decreto 81/del 2008 sulla sicurezza si è previsto di intervenire sul fenomeno del burnout dei docenti, mediante apposite rilevazioni e corsi di formazione; operazioni previste dalla legge ma non adeguatamente finanziate. Il nodo principale è e rimane quello della formazione iniziale e del reclutamento. E’ necessario per insegnare soprattutto per i più piccoli possedere lauree direttamente abilitanti, con un biennio obbligatoriamente ad indirizzo metodologico-didattico, almeno un anno di tirocinio tutorato in sede universitaria, tesi ad indirizzo metodologico-didattico ed esami di psicologia dell’età evolutiva; assunzioni direttamente dalle graduatorie di merito universitarie ed un anno di prova tutorato direttamente nella scuola ove si viene assunti.
Aderiamo a Donne e Elezioni Europee
Per le Elezioni europee 2019:
Le donne vincono periodicamente e vanno incontro ciclicamente a sconfitte, anche per loro responsabilità. Un periodo cominciato con una loro inedita presenza, sia nella politica che nella società, si è concluso riproiettando il vecchio film: solo uomini sulla scena pubblica che s’incontrano, discutono, si insultano, decidono e non si accorgono di stare in una fotografia che sembra scattata in Arabia Saudita.
La maggioranza delle donne andate al potere non ha usato la propria forza per battersi e imporre la nostra agenda riformatrice, è stata subalterna agli uomini e alla fine ha perduto tutta la forza conquistata. E nella società, come per altre grandi questioni politiche, ha prevalso anche sul fronte femminile una visione datata, vecchia di intendere la libertà, il potere e il loro reale effettivo esercizio.
Non essendo per esempio riuscite a imporre come tema politico di prima grandezza, la maternità,l’accesso delle donne al lavoro resta limitato e troppo spesso ingiustamente mortificato, non abbiamo avuto congedi parentali degni di questo nome e nemmeno asili nido. Sempre più faticosa è diventata la nostra vita. E anche questo è un vecchio film.
La maternità, il lavoro delle donne, la condivisione non sono solo argomenti delle donne e non possono essere risolti sostituendo l’assenza di servizi con la famiglia. La procreazione, spostata sempre più in là, diventa di fatto impossibile e viene discreditata fino a rendere accettabile l’idea che madri e bambini si possano acquistare sul mercato.
La nostra politica continua a essere considerata secondaria e marginale, senza la dignità di questione generale. Mentre la rivoluzione delle donne è un tema fondamentale come la globalizzazione, è una delle cause più potenti della rottura del vecchio impianto della società, della famiglia e del lavoro.Se non si capisce la portata di questo cambiamento, non si può intravedere la possibilità di nuove relazioni sociali, familiari e umane, e neanche la crescita economica dell’Italia, la sua futura modernità.
Non si tratta di “difendere i diritti delle donne”, perché le donne non sono una minoranza, che rivendica ruoli, chiede riconoscimenti oppure si chiama fuori. Le donne sono il nuovo soggetto della politica riformista del nostro tempo, come indicano chiaramente il voto americano e le nuove piazza italiane convocate da donne. E se non si trasforma l‘idea di futuro, si torna fatalmente indietro, come sta accadendo.
Insomma, ci ritroviamo in una situazione per certi versi analoga a quella che ci spinse a dar vita a Se non ora quando? nel 2011, con una differenza notevole però: non siamo più innocenti e il mondo intorno è noi è stato terremotato.
Sono a rischio i valori democratici ed europeisti che hanno consentito la crescita dell’autonomia e della libertà femminile in Italia e in Europa. Non possiamo più stare a guardare, dando deleghe in bianco a chi affronterà, nelle elezioni europee del maggio 2019, una sfida decisiva per le sorti nostre e dell’Europa.
Le donne devono esserci: nelle liste, certo, ma soprattutto nella politica e nei programmi delle forze democratiche ed europeiste. Devono contribuire a ridefinirne visione, profilo e agenda. Questa è la sola via per costruire un progetto unitario, all’altezza del tempo e capace di opporsi al messaggio disgregatore populista. La forza del cambiamento viene dalla nostra libertà.
Rita Cavallari, Cristina Comencini, Licia Conte, Antonella Crescenzi, Fabrizia Giuliani, Francesca Izzo, Francesca Marinaro, Donatina Persichetti, Silvia Pizzoli, Anna Maria Riviello, Simonetta Robiony, Cecilia Sabelli, Serena Sapegno, Sara Ventroni; aderisce Alessandra Servidori
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