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L'Italia è sempre più un Paese che non ama le donne

Rubriche NUOVA PROFESSIONALITÀ _ IV/4 (2023) ISSN 2704-7245

 Innovazioni e Pari opportunità Gender GAP. Italia in ritardo a cura di Alessandra Servidori

 Il World Economic Forum (WEF), analizza dal 2006 il fenomeno del gender gap attraverso un indice, il Gender Gap Index, che viene poi pubblicato annualmente nel Gender Gap Report. I progressi verso la parità di genere vengono misurati su una scala da 0 a 1, dove 1 rappresenta la piena parità e 0 la piena disparità. Il report confronta lo stato attuale e l’evoluzione della parità di genere in quattro dimensioni chiave: Partecipazione economica e opportunità, Rendimento scolastico, Salute e sopravvivenza, Rappresentanza politica. L’edizione 2022 ha analizzato i progressi verso la parità di genere in 146 Paesi, e i risultati mostrano che la corsa verso la parità di genere non si sta riprendendo dopo lo shock della pandemia, e con l’aggravarsi delle crisi internazionali il rischio di un regresso della parità di genere globale si intensifica ulteriormente e nei 146 paesi coperti dall’indice 2022, il divario di genere maggiore si mostra nelle dimensioni della partecipazione economica e opportunità (60,3%) e nella dimensione della rappresentanza politica (22%); I risultati più vicini alla parità sono in materia di salute e sopravvivenza (95,8%) e rendimento scolastico (94,4%).Tra le macro-regioni considerate, l’Europa ha il secondo livello più alto di parità di genere (76,6%, dopo il Nord America che ha chiuso il 76,9% del gap), e sulla base delle previsioni dovrebbe colmare il divario entro 60 anni. Il Paese Ue migliore è la Finlandia, che è seconda al mondo dopo l’Islanda, con un punteggio pari a 86%, mentre l’Italia, con un punteggio di 72%, si colloca al 63esimo posto e si tenga conto che il monitoraggio della parità di genere è effettuato, a livello esclusivamente europeo, anche dall’European Institute For Gender Equality (EIGE) , e comparando i vari dati dei vari Rapporti compreso quello di Osservatorio JobPricing scopriamo che il tasso di crescita dei vari indici europei negli ultimi dieci anni ci dice che l’Italia è, dopo il Lussemburgo, il Paese che ha compiuto progressi all’interno dell’area considerata; al contrario Repubblica Ceca e Ungheria sono i Paesi che mostrano meno progressi nell’arco temporale considerato. Tuttavia, restringendo l’analisi agli ultimi 5 anni l’Italia è tra i Paesi che crescono più lentamente rispetto all’indice generale proposto dall’EIGE; in particolare, i miglioramenti del nostro Paese sono complessivamente inferiori rispetto alla media dei Paesi del sud Europa. Mentre l’Osservatorio JobPricing nostrano ci dice che le dimensioni in cui questi sono più significativi sono potere (meglio della media UE, ma peggio della media del sud Europa) e salute (meglio della media UE e della media del sud Europa): insomma non è facile farsi una idea compiuta perché ognuno utilizza criteri particolari e indici analizzati dal WEF ed EIGE sintetizzano il gender gap utilizzando degli indicatori diversi. Comunque, gli indicatori che più incidono nel totalizzare un punteggio inferiore rispetto alla media europea sono la partecipazione al mercato del lavoro, il potere sociale e la partecipazione e livello di istruzione conseguito. La partecipazione al mercato del lavoro combina due indicatori: il tasso di occupazione equivalente a tempo pieno (ETP) e la durata della vita lavorativa; il potere sociale, presentato per la prima volta, include invece dati sul processo decisionale nelle organizzazioni di finanziamento della ricerca, nei media e nello sport; il livello di istruzione conseguito e partecipazione prende infine in considerazione la percentuale di donne e uomini laureati e la partecipazione di donne e uomini all’istruzione e alla formazione formale e non formale nel corso della vita. Quello che emerge dalla lettura storica dei vari indici è che, sebbene il numero di donne con istruzione terziaria sia aumentato più degli uomini, meno donne hanno avuto la possibilità di partecipare ad attività di istruzione formale e informale durante l’anno della pandemia. Il vero divario di genere nell’ambito della conoscenza, così come misurato dall’EIGE, sta nella scelta delle aree disciplinari già alle scuole superiori, che si acuisce poi con la scelta delle università. È evidente che questa tipologia di divario ha un impatto molto forte su quanto accade nella fase successiva della vita delle donne: la carriera lavorativa. Le laureate sono maggiormente concentrate nelle discipline umanistiche. Gli ambiti disciplinari di Insegnamento, Linguistico e Psicologico vedono le donne superare l’80% di presenze, contro solo meno del 20% degli uomini. Gli ambiti disciplinari che registrano la parità tra i titoli conseguiti sono quelli di economia e di agraria e veterinaria, mentre si avvicina l’architettura e l’ingegneria civile. Le discipline informatiche ed ingegneristiche osservano invece una prevalenza maschile che, pur non arrivando agli stessi livelli delle discipline a maggior concentrazione femminile, si attesta tra il 70% e l’80%. Nonostante le differenze di scelta di corsi però, le donne ottengono voti più alti non solo a livello medio, ma in quasi tutte le aree disciplinari, ad eccezione di quello letterario e dell’Informatica e tecnologie ICT: ecco perché quando si parla di povertà educativa bisogna intervenire subito sull’orientamento scolastico delle ragazze verso le materie stem perchè agire efficacemente sul gender gap, dunque, significa far avvicinare le bambine e le ragazze alle materie STEM superando gli stereotipi che, ad oggi, portano le giovani a scegliere percorsi di tipo umanistico che nell’economia odierna ne potrebbero limitare le opportunità professionali. Dai dati Invalsi sappiamo che in matematica dalla seconda elementare la differenza rilevata non risulta statisticamente significativa, ma al quinto anno delle scuole primarie il divario di genere raggiunge l’ampiezza massima: 13 punti di distacco. Un dato che ci ricorda dell’importanza di investire sull’educazione alla parità e allo sviluppo delle capacità fin dai primi anni di scuola. Anche in terza media l’Italia è uno dei 6 stati su 39 rilevati dove i maschi vanno meglio delle ragazze nelle scienze. In 18 non vi sono differenze rilevanti, in altri 15 al contrario sono le studentesse a performare meglio. E poi vero è che fondamentale investire sulla valorizzazione delle potenzialità di tutte e tutti, a prescindere dal genere. Sono i dati Ocse a indicare che le ragazze che hanno maggiore fiducia nelle proprie capacità raggiungono risultati analoghi a quelli dei compagni nei test di matematica, ma in gran parte dei Paesi e delle economie che partecipano all’indagine Pisa, le ragazze ottengono risultati meno buoni rispetto ai ragazzi in matematica. Generalmente, le ragazze hanno meno fiducia rispetto ai ragazzi nelle proprie capacità di risolvere problemi di matematica o nel campo delle scienze esatte. Tuttavia, quando si confrontano i risultati di matematica tra ragazzi e ragazze con livelli simili di fiducia in sé stessi e di ansia rispetto alla matematica, il divario di genere scompare. Tali differenze possono essere ricostruite partendo dai dati della rilevazione Invalsi 2020/21, disaggregati per macroaree. Solo per citare alcuni dati in terza media, si attestano al livello di competenza 1 in matematica (il più basso) mediamente il 22,3% delle ragazze italiane (20,9% tra i maschi). Questa percentuale è più contenuta nel nord-est, dove scende al 15,1% e si attesta comunque al di sotto della media nel nord-ovest (17,5%) e nel centro (18,3%). Mentre sale al 30,9% nella ripartizione “sud” e al 34,6% in quella “sud e isole”. Ora la polarizzazione del lavoro e la crescente domanda di professionisti in ambito digitale e tecnologico implicano la crescente necessità di competenze che si ottengono prevalentemente nei percorsi STEM. L’autoesclusione sistematica delle ragazze da queste discipline è quindi un fattore che potenzialmente incrementerà la disoccupazione femminile e il gender pay gap di domani. L’occupazione femminile rimane anch’essa congelata: il ricorso al part-time non è solo frutto di una scelta volontaria, collegata alla necessità di conciliazione tra lavoro e vita familiare, ma nel mercato del lavoro italiano, negli ultimi anni, è stata più spesso una scelta delle imprese – più che per esigenze di lavoratori e lavoratrici – effettuata come mezzo di sostegno ai periodi di crisi economica. Secondo ISTAT però, il part-time cosiddetto involontario presenta l’ennesimo gap di genere: viene imposto maggiormente alle donne e, in generale, è più diffuso nei settori ad alta concentrazione femminile, quale ad esempio, i servizi alle famiglie. Altro fondamentale criterio per la misurazione del gender gap è il differenziale salariale. Il differenziale salariale di genere viene di solito definito come la differenza tra i salari medi degli uomini e i salari medi delle donne. Le ragioni per l’esistenza di questa differenza sono molteplici, molte di queste osservabili. Il gap sulle ore lavorate, ad esempio, è una di queste: se si considera il salario di un uomo che lavora full-time e di una donna che, pur svolgendo lo stesso ruolo, lavora part-time, il loro salario mensile sarà differente in quanto vi è un gap di tempo dedicato al lavoro. Ed è dimostrato che conducendo, attraverso Rubriche NUOVA PROFESSIONALITÀ _ IV/4 (2023) ISSN 2704-7245 16 specifiche tecniche, analisi più approfondite ed accurate è comunque possibile dimostrare come spesso esista un differenziale salariale che non è riconducibile a nessuna caratteristica osservabile degli individui, e che quindi è potenzialmente riconducibile a mera discriminazione. In un progressivo rafforzamento delle azioni a livello istituzionale, sia nazionale che internazionale, è necessario attivare percorsi virtuosi, a tutti i livelli della cd. “società civile”: in famiglia, all’interno delle scuole e delle università, fino ad arrivare alle imprese. Proprio le imprese possono svolgere un ruolo centrale, attraverso iniziative interne di formazione e sensibilizzazione, attraverso l’introduzione o la modifica di policy in senso inclusivo, e attraverso il ruolo di promotrici di cambiamento che possono ricoprire all’interno della comunità. Ma attenzione alla cultura del business che è stata introdotta dalla Certificazione della Parità di Genere sui luoghi di lavoro, e il suo derivante strumento di misurazione dettato dalle linee guida UNI/PDR 125:2022 o dagli strumenti di misurazione proposti da altri Enti certificatori sbocciati come funghi e altri ancora, che pubblicizzano questa certificazione a pagamento come punta avanzata di un approccio che dovrebbe cambiare le cose ma porta in dote solo decontribuzioni alle imprese, perché la discriminazione femminile si supera con la cultura dell’organizzazione e non con premi per chi dimostra di non discriminare platealmente ma applica nei fatti l’esclusione delle donne che sempre più spesso difficilmente ricorrono in giudizio. Alessandra Servidori 

 

 

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