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Editoriali

UN SUPER MINISTRO ECONOMICO UE?

Alessandra Servidori   Un super ministro per l’economia europea ?                           19 settembre 2017 

A parole sono d’accordo in molti dei 27 della ue ma la tensione che c’è nell’aria è tantissima . I problemi sono per ordine di grandezza : che nazionalità avrà il privilegio di dare i natali al super ministro , a chi deve fare capo ( al Consiglio,alla Commissione, al Parlamento ) di cosa si deve occupare ( di finanza, di economia , di politica economica estera, dell Eurogruppo,della moneta unica  , di un possibile Fondo monetario ,dei bilanci pubblici dei componenti della ue ?) In buona sostanza tante idee poche condivise ma soprattutto molto moltissimo dipenderà dalla conferma di Merkel fortissima  Cancelliera tedesca –  la cui rinomina è quasi scontata- che  è ben consapevole del passaggio strettissimo che l’economia europea  sta ancora traversando e un ministro in comune  dovrebbe comunque fare i conti con problemi di bilanci ancora sofferenti soprattutto in materia di lavoro. Nella corsa che già sta scaldando i motori per il 2019 quando ci saranno le elezioni europee entreranno a gamba tesa le candidature alla BCE ,al Fondo Monetario  e l’unica che in questo momento può vantare una certa forza è la Germania con i suoi dati occupazionali ed economici di forte positività. C’è chi in questi giorni ci taccia di essere dei gregari ma ,non è che la questione ci consoli,  in ben pochi degli altri 26 paesi può vantare delle economie “allegre” e quindi molta voce in capitolo su questa prestigiosa nomina di super ministro .In verità Mario Draghi è colui che ha guidato la BCE non bene,benissimo e ha sostenuto in inverni e autunni di scossoni sui mercati  prima un programma di acquisto dei titoli di Stato e di obbligazioni aziendali  da parte della Banca Centrale Europea ed ora si sta preparando con un equilibrio straordinario ad uscire morbidamente dall’emissione del quantitative easing tenendo a bada,nell’eurozona, il pericolo di un dollaro forte a causa della gestione disinvolta di Trump sparato sulla deregolamentazione finanziaria e il taglio delle tasse. In un anno l’euro ha guadagnato oltre il 14% nei confronti del dollaro  anche perché l’economia europea è in ripresa e Trump si è dato una calmata. Noi adesso dobbiamo predisporre una legge di bilancio che faccia tagli strutturali  non meno del 6% del prodotto interno lordo e non una legge che guarda ai voti da prendere piuttosto che a sostenere la lentissima crescita italiana. Dobbiamo ridurre il deficit e rilanciare la produttività e il lavoro lasciando il populismo elettorale ricco di orpelli elettorali a chi non ha tra i suoi obiettivi il bene del Paese. La legge di bilancio dunque ha due scopi  ben chiari : la prima, investire sulle politiche attive per i giovani e le donne che aiutano nella transizione o  dalla formazione al lavoro  vera emergenza oggi nel mercato anche perché non dimentichiamo –dati istat ultimissimi- in Italia oggi lavora solo il 38% dei residenti; la seconda possiamo presentarci a testa alta nella discussione di una nuova Europa senza chiedere deroghe e sconti sulla pelle comunque e sempre del popolo italiano. 

Paradossoitaliano:meno donne occupate e più donne negli incidenti sul lavoro

INCIDENTI SUL LAVORO- PUBBLICATO il 4 settembre su Il Diario del lavoro 

Il paradosso italiano: meno donne occupate ma più morte sul lavoro

  A Lucca in questi giorni due operai hanno perso la vita sul lavoro e poche ore prima un altro giovane ha avuto la stessa sorte. La notizia è molto significativa anche perché supportata dai dati INAIL di questi giorni in cui gli infortuni sul lavoro stanno aumentando, comparati ai dati del 2016 proprio un mese dopo che l’istituto aveva significativamente, presentando il suo Rapporto sull’attività annuale, illustrato le sue linee guida per contrastare sia gli incidenti sul lavoro che le malattie professionali registrati nell’anno 2016. Infatti nel 2016 le denunce d’infortunio,hanno avuto un incremento dello 0,7% rispetto al 2015 (4.201 casi in più).

La quota più consistente delle denunce 500.621 casi, (78,1% del totale) si registrava nella gestione Industria e servizi, presentando un incremento dell’1,4% rispetto l’anno precedente e ancora oggi si registrano nei settori dei servizi.

E’ interessante analizzare oggi,nella sezione “Open data” di Inail i dati analitici, delle denunce di infortuni e malattie professionali rilevati a luglio 2017; sono pubblicate anche le tabelle del “modello di lettura” con i confronti “di mese” (luglio 2016 vs luglio 2017) e “di periodo” (gennaio-luglio 2016 vs gennaio-luglio 2017). Per esempio, nel confronto “di mese”nel luglio 2017 si sono avute 46.390 denunce, con un aumento del 3,6% rispetto a luglio 2016. L’incremento è stato rilevante per i settori di attività economica: attività professionali, scientifiche e tecniche (+11,5%), fornitura di acqua, reti fognarie, attività di gestione dei rifiuti e risanamento (+6,7%) e Noleggio, agenzie di viaggio, servizi di supporto alle imprese (+5,8%).

L’analisi per classi di età evidenzia che l’aumento si concentra nelle classi iniziali fino ai 29 anni (+8%) e nelle classi dai 45 ai 69 anni (+6%). Le denunce di infortunio mortale sono aumentate di 3 unità (69 contro le 66 di luglio 2016) e per gli infortuni, confronto “di periodo” nel periodo gennaio-luglio 2017 si sono avute 380.236 denunce, con un aumento del 1,3% rispetto al periodo gennaio-luglio 2016.

L’analisi per classi di età evidenzia che l’aumento si concentra nelle classi iniziali dai 15 ai 29 anni (+3,6%) e nelle classi dai 45 ai 69 anni (+3,8%). Le denunce di infortunio mortale sono state 591, erano 562 nel 2016. La distribuzione per settore produttivo evidenzia aumenti di particolare rilievo per il complesso delle attività manifatturiere (55 contro i 46 del periodo gennaio-luglio 2016), nelle costruzioni (60 a fronte dei 50 dell’anno precedente), nelle attività dei servizi di alloggio e di ristorazione (17 attuali rispetto agli 8 registrati fino a luglio 2016) e nella sanità e assistenza sociale (12 contro 3) e l’analisi per classi di età evidenzia che l’aumento delle denunce è relativo alle classi tra i 25 e i 49 anni (complessivamente, per le classi in questione, si hanno 266 denunce contro le 211 del periodo gennaio-luglio 2016).

Un’ attenta analisi di genere anche di questo ultimo periodo, consolida un dato grave e cioè che più di un infortunio su tre ha interessato la componente femminile dei lavoratori (un incremento dell’1,4%). Rispetto al numero complessivo delle denunce, la quota degli infortuni in itinere, avvenuti cioè nel tragitto casa-lavoro-casa, per le donne si conferma decisamente più elevata rispetto agli uomini, sia in valore assoluto che in percentuale . L’incidenza del “rischio strada” sulle lavoratrici è ancora più marcata se si prendono in considerazione le denunce dei casi mortali: per le donne, più di un decesso su due (52,7%) è avvenuto in itinere, mentre tra gli uomini lo stesso rapporto è di circa uno su cinque .

Questo divario di genere si mantiene anche sommando le denunce dei casi mortali avvenuti in itinere e quelli in occasione di lavoro, entrambi con coinvolgimento di un mezzo di trasporto: tra le donne, infatti, quasi due decessi su tre (63,6%) sono legati al “rischio strada” rispetto al 38,8% degli uomini. Questo probabilmente perché le donne sono occupate per oltre il 50% nel ramo dei servizi, in attività solitamente meno pericolose di quelle industriali, ma comunque soggette al rischio che si corre negli spostamenti tra l’abitazione e il luogo di lavoro, anche molto frequenti e ripetuti in attività come quelle del personale domestico e di assistenza sociale domiciliare, in cui prevale nettamente la quota femminile. Segnaliamo che anche i dati sull’occupazione Istat agosto 2017 continuano a dimostrare che l’occupazione femminile non cresce :infatti tra giugno e luglio 2017 l'occupazione è cresciuta di 59 mila unità: un aumento che però non ha incluso donne e giovani. La disoccupazione femminile in particolare è relativa alle donne dai 34 anni in su, che raggiunge il 13,2% (+3,2%). Andamento inverso invece per la disoccupazione maschile che scende all’11,1% (- 2,2%). Un dato preoccupante, quello femminile, cui se ne aggiunge un altro relativo alla fascia di età: il tasso di disoccupazione giovanile, quella compresa tra i 15 e i 34 anni, torna al 40%.

L’incidenza dei giovani disoccupati tra 15 e 24 anni – scrive l’Istat – sul totale dei giovani della stessa classe di età è pari al 10,9% (cioè poco più di un giovane su 10 è disoccupato. Noi aggiungiamo che ci sono tra i giovani le giovani donne. Il Governo deve assumersi la responsabilità di intervenire subito anche attraverso la legge di bilancio. Condivido le sollecitazioni del Presidente della Commissione lavoro del Senato, Maurizio Sacconi, secondo il quale gli interventi devono riguardare i sostegni all’apprendimento: alternanza, apprendistato, assegno di ricollocazione, credito d’imposta per spese in formazione, ampliamento delle risorse e della capacità operativa dei fondi interprofessionali. Così come tutti, soprattutto le donne lavoratrici, dovrebbero beneficiare di versamenti figurativi quando la loro attività si rivolge a beni pubblici come l’apprendimento stesso, la cura dei familiari, la procreazione realizzando in tal modo anche i presupposti per l’anzianità contributiva. E ancora tutti dovrebbero avere ridotto il costo indiretto del lavoro, non per generosa e contingente concessione ma per strutturale riequilibrio tra contribuzioni e prestazioni spesso sproporzionate: sicurezza, ammortizzatori, malattia, previdenza da gestione separata Inps.

Alessandra Servidori


Un focus sulle pensioni al femminile

Alessandra Servidori                Un focus sulle pensioni al femminile                31 agosto 2017
 Trattamenti previdenziali sempre più stretti anche per le donne. Interessante il punto delle pensioni al femminile dopo la riforma del 2012,e da segnalare la possibilità di lasciare prima il lavoro (opzione donna) allargata dalla Legge di Stabilità anche a chi ha maturato i requisiti della ex anzianità entro il 2015, ma solo accettando un assegno più magro. A differenza degli altri Paesi, in Italia la pensione di vecchiaia è stata sempre insidiata dalle rendite d’anzianità, vale a dire i trattamenti che si possono ottenere in anticipo rispetto all’età pensionabile canonica: 60 anni le donne e 65 gli uomini, almeno nei rapporti di lavoro privato. Una particolarità destinata col tempo a scomparire, soprattutto riguardo alle donne. Già nel 2011, ad esempio, l’età anagrafica minima da accoppiare all’ anzianità contributiva utile per ottenere la pensione anticipata era di 60 anni. Una soglia pari a quella prevista appunto per la vecchiaia. L’innalzamento dei limiti di età per poter beneficiare della pensione di vecchiaia, è iniziato nel 1993 con la riforma Amato. A quel tempo, le donne italiane potevano lasciare il lavoro a 55: il limite più basso d’Europa. A partire dal 2012 è cambiato tutto. L’equiparazione dell’età pensionabile delle donne con quella degli uomini era già stata decisa con la manovra economica dell’estate del 2011 in cui era stato disegnato un percorso che doveva iniziare nel 2014 per raggiungere il traguardo nel 2026. La riforma Monti-Fornero ha  accelerato quel cammino. Dal 1° gennaio 2012, infatti, l’età delle donne del settore privato (per quelle del settore pubblico si era già provveduto nel 2010) è salita a 62 anni ed è stato ulteriormente elevata a 63 anni e 9 mesi nel 2014 e 2015, a 65 anni nel 2016 e a 66 a partire dal 2018. Per le lavoratrici autonome (commercianti, artigiane e coltivatrici dirette), invece, lo scalone del 2012 è stato di 3 anni e mezzo (l’età è passata da 60 a 63 anni e mezzo). Soglia che è salita ulteriormente a 64 e 9 mesi nel 2014,  poi  a 65 e 6 mesi nel 2016, sino a raggiungere i 66 anni dal gennaio del 2018. A questi numeri, dal 2013 occorre aggiungere gli adeguamenti demografici all’attesa di vita. Per l’uscita anticipata dal lavoro non resta quindi che una strada: quella che la legge Maroni del 2004 (confermata  dalla riforma Monti-Fornero) riserva  alle lavoratrici dipendenti, con almeno 57 anni di età (autonome con almeno 58 anni), disposte a optare per il meno vantaggioso calcolo contributivo della pensione. Affinché si potesse usufruire realmente di questa scappatoia, però, era necessario raggiungere i requisiti entro il 30 novembre 2014 (30 dicembre per le dipendenti del pubblico impiego). Per questa formula, infatti, occorreva mettere nel conto la vecchia «finestra mobile» (che indica il tempo di attesa tra la maturazione dei requisiti e l’effettivo pensionamento) e, dunque, bisognava essere a posto ben 12 mesi prima (18 mesi prima le autonome). In pratica, questo significa che, dal momento che l’età da accompagnare ai 35 anni di contributi è nel frattempo salita a 57 e 3 mesi, per via del primo adeguamento alle speranze di vita, occorreva compiere i 57 anni entro agosto 2014.  Ebbene, l’opzione donna, grazie alla Legge ex di stabilità ora legge di Bilancio 2017, è divenuta possibile anche per coloro che hanno maturano i requisiti entro il 31 dicembre 2015, ancorché la decorrenza del trattamento pensionistico ricada in data successiva. Ultimamente ci possono essere novità sulle ipotesi di allargare la  pensione anticipata 2017 a varie categorie di lavoratori e contribuenti, in modo da rendere più flessibile l'uscita dal lavoro. Ipotesi che, al momento, sono in cantiere in attesa della trattativa del tavolo delle negoziazioni di riforma delle pensioni che si concluderà con la legge di Bilancio 2018 di fine anno tavolo che si è aperto il 30 agosto. In gioco, oltre all'innalzamento dei requisiti necessari per la pensione anticipata e per le pensioni di vecchiaia dal 2019, anche le possibili variazioni a favore dei giovani (la "Fase 2" delle pensioni dell’accordo governo/sindacati), l'allargamento dell'Ape social, in attesa del decreto definitivo dell'anticipo pensionistico volontario di settembre e, infine, le misure volte ad agevolare l'uscita delle donne , per le quali dovrà trovarsi un meccanismo alternativo anche per l’opzione donna. Nel confronto aperto con i sindacati il Governo Gentiloni ritiene impraticabile la possibilità che si torni indietro sugli aumenti dei requisiti di uscita per le pensioni anticipate e di vecchiaia dal 2019. Con l'allungamento della speranza di vita e, dunque, del godimento della pensione, il meccanismo tende a spostare in avanti anche l'età di maturazione della pensione di vecchiaia e dell'uscita anticipata. Si dovranno attendere i dati demografici definitivi dell'Istat, ma la sensazione è quella che dal 2019 verranno richiesti 5 mesi in più di lavoro, con uscita per la pensione anticipata a 64 anni e per la vecchiaia a 67. Lo spostamento scongiurerebbe un pesante passivo per l'Inps  e per la ragioneria dello Stato . Tuttavia, la via d'uscita potrebbe essere trovata nell'allargamento delle categorie che  necessitino della pensione anticipata alle quali è riconosciuta un’ uscita anticipata attraverso l’ape sociale , meccanismo che non va ad incidere direttamente sui canali previdenziali essendo configurati, dal punto di vita della contabilità, agli ammortizzatori sociali. Comunque fermo restando l'uscita a 63 anni,   si parla di un abbassamento dei requisiti contributivi. Tra le ipotesi appunto, c'è la possibilità del riconoscimento dello sconto sui versamenti fino a due anni,pertanto, nel caso di pensione anticipata con Ape social, i 36 anni necessari per l'uscita delle lavoratrici che svolgano attività faticose, diventerebbero 36. E i 30 previsti per tutte le altre categorie scenderebbero a 28. Ma solo per le donne che abbiano avuto figli.

 

 

Ripresa no, ripresina,forse,ma molto ina

Alessandra Servidori - Ripresa no, ripresina,forse,ma molto ina .     30 agosto 2017

 La campagna elettorale droga i dati economici che ci vengono somministrati dai più svariati osservatori più o meno credibili sia a livello nazionale che internazionale al ritmo di pacchetti settimanali sempre più contraddittori. Sbaglia chi al Governo si lancia in proclami esaltati di ottimismo.Una propria opinione la si può avere analizzando  anche la situazione che si vive a casa propria. Per esempio ,dai dati pubblicati dall’ufficio studi della CGIA la via Emilia non è più un luogo per artigiani. La “fuga” dei piccoli imprenditori, schiacciati dalla coda lunga della crisi e dalle logiche sempre più aggressive della grande distribuzione, continua infatti anche in questi mesi del 2017. E i numeri dell’emorragia sono impietosi: dal 2009 a oggi l’Emilia Romagna ha perso per strada 16.466 aziende artigiane, pari all’11,3% del totale. Erano 145mila, ora sono 128mila. Dunque il famoso  “modello emiliano” è  in fondo alla classifica tra le aree produttive del nord. Nessuno in questi otto anni ha visto chiudere in termini percentuali così tante piccole imprese. La Lombardia, ad esempio, con cui spesso l’Emilia si paragona, è in calo del 7%. Anche il dato nazionale è migliore, visto che il calo si ferma al 9,9%. Nell’anno che molti industriali hanno salutato come quello del definitivo rilancio post-crisi, l’Emilia-Romagna si scopre fragile al pari, se non peggio, degli altri, perché le  attività artigianali  in passato la regione Emilia Romagna  aveva il primato sono in declino. Per il 2017  il calo delle piccole ditte è dell’1,2%, altre 1.624 sparite, e anche qui la flessione è la più alta rispetto al resto del Nord-Est. Ma il centro studi di Mestre va ancora più a fondo, spiegando come acausa della crisi siano spariti interi mestieri. Le categorie più colpite sono autotrasportatori, falegnami, edili e produttori di mobili. Mentre reggono meglio parrucchieri, estetisti, taxi e quelli che lavorano nel settore alimentare. Lungo è anche l’elenco dei motivi che hanno portato a questo crollo: La crisi, il calo dei consumi, tasse, burocrazia, mancanza di credito e costo degli affitti sono le principali cause che hanno costretto molti piccoli imprenditori ad abbassare la saracinesca della propria bottega.Un ruolo, in negativo, lo gioca la grande distribuzione, perché negli  ultimi 15 anni le sue politiche commerciali si sono fatte sempre più aggressive, per molti artigiani e piccoli negozianti non c’è stata via di scampo. L’unica soluzione è stata gettare la spugna. La crisi dei consumi delle famiglie ha fatto il resto. La timida ripresa del “carrello della spesa” ha toccato quasi solo ipermercati e discount, mentre la piccola distribuzione, fatta di botteghe artigiane e piccoli negozi di vicinato, resta al palo. E anche la CNA,regina dell’artigianato romagnolo, contemporaneamente denuncia contrazione del numero di imprese soprattutto le imprese artigiane sentono ancora il prezzo della crisi economica in Romagna. A dirlo è l’indagine TrenRa della Cna di Ravenna. Nel 2016 le imprese artigiane sono diminuite di 103 unità (-0,95%) ma negli ultimi otto anni il comparto ha perso il 12,1 per cento delle aziende, pari a 1.470 realtà produttive. L’emorragia continua nel 2017: il movimento anagrafico complessivo delle imprese ha visto chiudere altre 921 ditte (-2,28%) con una consistente diminuzione nel settore artigiano: -164 unità imprenditoriali (1,53%, si è passati da 10.716 a 10.552 aziende). Il settore tessile-abbigliamento-calzaturiero registra una ulteriore contrazione e chiude a -1,95% rispetto al dato del 2015.La meccanica di produzione, uno dei settori maggiormente penalizzato dalla crisi economica, vede un decremento delle imprese del settore pari al tre percento , confermando i trend negativi che hanno caratterizzato i quattro anni precedenti . Ragionando per aggregati, il settore manifatturiero (agroalimentare, sistema moda, meccanica e legno/arredo) registra una diminuzione dell’1,17%.L’edilizia, vero traino della crescita dell’Albo delle Imprese Artigiane fino al 2008, prosegue la contrazione (-1,24%), confermando le forti difficoltà del settore. Dal 2008, il comparto ha perso oltre il 14% delle imprese registrate. Per quanto concerne il settore dei trasporti, il 2015 si chiude con un decremento delle imprese iscritte all’Albo dell’1,95%, da ascriversi esclusivamente al trasporto merci (90% delle imprese del settore).  Nella manutenzione e riparazione di auto e motoveicoli si registra una diminuzione dell’1,71%. Nell’ambito delle attività professionali, si registra un -0,86% per il settore informatico: un ulteriore ridimensionamento dopo la battuta d’arresto di fine 2015 (-2,50%), per un settore che nel corso del 2014 era cresciuto di quasi il 2%.Questo spaccato di dati ci fa capire che in pochi si azzardano  a chiamarla ripresa economica - ad eccezione ovviamente del governo - ma  dopo un decennio di crisi qualcosa si sta finalmente muovendo. Il termine più usato dagli economisti è quello di “ripresina”, proprio per sottolineare i molti ostacoli che la congiuntura italiana deve ancora superare prima di poter dichiarare il cessato allarme.L’aumento del Pil potrebbe essere di circa un punto percentuale nel 2017  ma è evidente che non è un tasso di crescita soddisfacente ma per ora bisogna accontentarsi e questa è la verità.La crescita del Pil sia trascinata soprattutto dal buon andamento delle esportazioni, mentre il mercato interno continua a fare molta fatica. Le famiglie più povere, le aziende più deboli e il Mezzogiorno stanno ancora soffrendo. Si tratta di un’ampia fetta del Paese che non partecipa alla ripresa economica, un fenomeno peraltro che non si registra solo in Italia ma in tutto l’Occidente.Dai dati che ci giungono dgli Stati Uniti, dove il Pil è in forte crescita da moltissimi trimestri Apple, Facebook e Google scoppiano di salute ma danno da lavorare a poche decine di migliaia di persone. La vittoria di Trump è figlia delle crescenti diseguaglianze all’interno della prima economia al mondo e della perdurante crisi di moltissime famiglie. in Italia si potrà affermare che la ripresa sarà solida e sostenibile solo quando ci sarà una ripresa del mercato del lavoro: e di questo per ora non c’è traccia, anche perché l’automazione e la sempre maggiore diffusione del lavoro precario rendono ancora più difficile la riduzione della disoccupazione. Dunque la timida ripresina cerca di esistere  ma non può essere esaltata; continuerà a esserlo fino a che l’Italia non riuscirà a superare alcuni ostacoli a partire dalla riduzione della spesa pubblica improduttiva e dunque quando vedremo scendere il debito pubblico e utilizzare le risorse risparmiate per tagliare il cuneo fiscale, allora si potrà iniziare a pensare a una ripresa vera e propria. Fino ad allora si andrà avanti con una congiuntura trainata solo da alcuni settori, come per esempio il turismo e l’agroalimentare. Infatti è necessario adottare politiche di lungo periodo per attrarre investimenti stranieri e creare occupazione. I governi pensano troppo al breve termine; adesso sarebbe invece il momento di ridurre il debito pubblico con interventi strutturali, perché un contesto di tassi bassi come quello attuale difficilmente si ripeterà in futuro.

 

 

Legge di bilancio :cantiere ormai chiuso

Alessandra  Servidori    Agosto 26 -2017

   LEGGE DI BILANCIO : il meething di Rimini è il cantiere-ormai chiuso- della manovra

 C’è chi dice-e non a torto- che di politica non se ne fa  più,neanche alle feste dell’Unità dove i compagni del pd si parlano tra di loro,ma c’è un appuntamento a fine estate che raccoglie non solo il popolo di comunione e liberazione (tantissimi giovani) ma chi vuol scoprire quali sono i rumors del prossimo autunno dei palazzi. Così si viene a sapere, soprattutto dalle parole di ministri illuminati come Calenda, cosa bolle nella pentola della  temuta legge di bilancio.L’impianto base è ormai pronto. Due assi portanti la prima è il dimezzamento dei contributi previdenziali pagati dalle imprese per tutti i nuovi assunti al di sotto dei 32 anni. Il maxi sconto durerebbe per i primi due anni di contratto, anche se resta in piedi l’ipotesi di un periodo più lungo, fino a tre anni. E farebbe scendere l’aliquota contributiva dal 30-33% di adesso, c’è una leggera variazione a seconda dei casi, giù fino al 15%-17,5%. Lo sconto non potrebbe comunque superare i 3.250 mila euro l’anno. Il taglio dei contributi non avrebbe effetti sulla futura pensione del lavoratore. La somma non versata dall’azienda sarebbe coperta dallo Stato. Ed è per questo che l’operazione ha un costo: intorno al miliardo di euro per il primo anno, sui due miliardi una volta a regime. Una volta passati due anni dall’assunzione con il maxi sconto a differenza di quanto fatto con il Jobs act, resterebbe comunque una riduzione dei contributi,contenuta  di 4 punti percentuali rispetto all’aliquota standard del 30-33%, per scendere quindi al 26-29% e  destinata a durare fino alla fine della carriera, anche se il dipendente cambia azienda. E con un effetto da dividere in due parti: per metà a vantaggio delle imprese come riduzione dei contributi da versare; per l’altra metà a vantaggio del lavoratore con un aumento della sua busta paga. L’intervento ridurrebbe il costo del lavoro in modo stabile:  i nuovi lavoratori a costo più basso rimpiazzerebbero progressivamente quelli, più costosi, che lavorano già e con un meccanismo stavolta simile al Jobs act, con la progressiva sostituzione dei lavoratori tutelati dal vecchio articolo 18 con quelli che hanno il nuovo contratto a tutele crescenti.Ma a conti fatti  avrebbe un costo molto più alto rispetto allo sconto biennale e dunque in alternativa alla sconto di 4 punti per tutta la vita si potrebbe puntare sull’apprendistato, che nei primi cinque mesi dell’anno è cresciuto del 27%. Il dimezzamento dei contributi sarebbe legato all’assunzione stabile degli apprendisti, al termine del periodo massimo di durata del contratto, che è di tre anni. Anche l’apprendistato ha un peso dei contributi molto basso, il 10%. In caso di stabilizzazione l’aliquota salirebbe al 15/17,5%. Più cara ma comunque molto più vantaggiosa rispetto a quella standard, rappresentando un forte incentivo alla stabilizzazione. Altra misura pronta  è  sui centri pubblici per l’impiego:  stabilizzando  1.500 precari e assumendo altre 1.600 persone reduci dalle Province, più  anche  i dipendenti di Anpal, l’Agenzia per le politiche attive del lavoro, con un finanziamento per Anpal servizi di 20 milioni di euro l’anno. Altra spesa è l’assegno di ricollocazione, il bonus in formazione per i disoccupati che accettano di riconvertirsi ,poiché finita la sperimentazione su base individuale - che ha dato pochi risultati , con un’adesione intorno all’8% - lo strumento dovrebbe essere indirizzato verso le crisi aziendali, come per esempio  nell’unico caso in cui è stato utilizzato, Almaviva, dove ha dato risultati molto migliori, con un’adesione vicina al 90%.In buona sostanza in un clima elettorale già molto spinto il governo sta predisponendo una legge di bilancio molto pesante sul versante della spesa ed elettoralmente leggera sui sacrifici. L’Italia non può permettersela perché fino ad ora NON ha dimostrato di saper risanare i conti pubblici e la manovra dovrebbe per essere credibile trovare oltre 30 miliardi di risorse per diminuire il cuneo fiscale ,sostenere i giovani e gli investimenti. Calenda a Rimini,lo ha detto,e con non poco coraggio,sconfessando un bel po’ i facili entusiasmi dei suoi disinvolti colleghi

 

Dalla parte di Laura Boldrini e non solo

 ALESSANDRA SERVIDORI    Dalla parte di Laura Boldrini e non solo

La Presidente della Camera Laura Boldrini ha denunciato chi l’ha offesa sul web e così promuove una più che giusta azione legale e, si spera, una legge che punisce tutti coloro che subiscono questa violenza. Peraltro la Commissione Europea lo aveva auspicato alla fine dello scorso anno: bisogna fare di più contro gli incitamenti all'odio. I destinatari dell'invito erano i Big dei social network e dell'industria hi-tech, Facebook, Google, Microsoft e Twitter. Oggi la Germania traduce il semplice invito in legge approvata e destinata ad entrare in vigore a partire da ottobre .L'hanno soprannominata "legge Facebook", ma i destinatari sono tutte le compagnie che gestiscono un social network. Punto centrale della normativa è l'obbligo di tempestiva rimozione dei messaggi che incitano all'odio, onde evitare l'applicazione di una sanzione pecuniaria a carico dei gestori che può arrivare ad un massimo di 50 milioni di euro.In base alla normativa, le compagnie avranno l'obbligo di rimuovere entro 24 ore i contenuti "evidentemente illegali".In tale definizione rientrano discorsi di odio, diffamazione e incitamento alla violenza. La sanzione pecuniaria minima sarà di 5 milioni di euro, ma potrà arrivare al massimo citato. In presenza di contenuti che non palesano in maniera evidente la loro illegalità, i gestori del social network potranno valutare il caso entro un termine massimo di una settimana. Dunque la Germania ancora una volta, indica la strada non a parole ma a fatti,senza aver nessun timore di ledere – come alcuni social network hanno protestato- il diritto di espressione. Certo è che è necessaria, come peraltro ha ben interpretato Boldrini, la pressione politica sugli operatori che gestiscono le grandi piattaforme che devono essere puniti penalmente se non adempiranno ai loro obblighi. Il Parlamento tedesco ha approvato la misura secondo la quale se 24 ore dopo aver ricevuto una segnalazione, il social non rimuove il post offensivo,appunto rischia una sanzione milionaria; inoltre, il testo prevede che dopo la cancellazione degli insulti nei sette giorni successivi il social deve provvedere a bloccare altri contenuti offensivi. La normativa,  tocca una delle attività più delicate di social media come Facebook, Twitter, LinkedIn e Instagram, che incoraggiano da una parte la comunicazione e la libertà di espressione - anche e soprattutto per ragioni economiche - e dall’altra sono alle prese con le recenti polemiche sull’utilizzo a vario titolo improprio della comunicazione sui social: dalle fake news utilizzate a fini politici , alle frequenti ingiurie che costellano le time line dei profili e delle pagine dei social. Nell’ordinamento giuridico della Germania, sono presenti misure particolarmente dure nei confronti di diffamazione, incitamento all’odio nei confronti di minoranze o alla delinquenza e alla violenza, comprendenti anche la negazione dell’Olocausto. Tuttavia, come sottolinea l’agenzia di stampa Reuters, sono pochi i casi di soggetti finiti davanti ai tribunali. In Italia si sta timidamente pensando ad un disegno di legge per tracciare gli utenti dei social network e sappiamo bene che la questione ovviamente non riguarda solo la Germania: negli Stati Uniti hanno fatto discutere negli ultimi giorni i criteri di selezione dei commenti rimossi da parte di un social media come Facebook, che non ha rimosso un post con le frasi del repubblicano della Louisiana Clay Higgins contro i musulmani “radicalizzati”: «Cacciateli, identificateli e uccideteli!» mentre ha cancellato il post del poeta bostoniano e attivista nero Didi Delgado , in cui accusava tutti i bianchi di essere razzisti. Dunque non sfugge a nessuno il potere discrezionale di orientare o meno l’informazione e soprattutto di pressione politica L’accountability dei social in questa materia è fondamentale: sia per la costituzione di un rapporto di fiducia nei confronti dei singoli utenti che nei confronti degli inserzionisti pubblicitari. Facebook, in particolare, ma anche le altre piattaforme stanno conquistando fette di mercato sempre più ampie ai canali e ai media tradizionali. E dunque è anche una questione di mercato ma un governo serio , che ha responsabilità e coraggio procede e tutela i suoi cittadini. Ricordiamo poi che un segnalo chiaro   che dovrebbe far riflettere quelli che continuano a pensare che attraverso i social sia lecito l’insulto indiscriminato,  e chiunque può dire qualunque cosa come se si fosse tutti chiusi nello spalto di uno stadio,lo ha dato la prima sezione penale della Cassazione . La Corte  ha specificato in una sentenza (n. 50 del 2 gennaio 2017) che la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “Facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata e quindi di esclusiva competenza del tribunale penale, poiché si tratta di «condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone». È chiaro che non dovrebbero essere la paura delle sanzioni, ma una maggiore cultura digitale a far riflettere i “leoni da tastiera”, ma è sempre bene che anche chi interpreta il diritto si  renda  conto che ciò che avviene in rete non riguarda più una parte esclusiva della società ma comporta effetti reali nella vita di qualsiasi cittadino.

 

Non rassegnarsi mai!

Alessandra Servidori

 Contro le donne : non rassegnarsi. Mai. E su la testa

 Il recente attacco terroristico in Finlandia ha avuto come vittime 4 donne pugnalate da un islamista e la questione dell’odio verso le donne occidentali da parte dei musulmani integralisti è una realtà da combattere e in maniera decisa. I 27 partner europei  in occasione del 60esimo dei Trattati di Roma  celebrato il 25 marzo  hanno discusso di come la comunità europea possa andare avanti a più velocità. Ma già l'Europa viaggia a due velocità in merito all’eguaglianza o meglio alle diseguaglianze di genere; come ha confermato la “Relazione sulla parità tra donne e uomini nell'Unione europea nel 2014-2015” preparata dalla Commissione per i diritti della donna e l'uguaglianza di genere del parlamento europeo, approvata lo scorso febbraio e portata alla discussione in aula in marzo.Il punto di partenza sarebbe, enuncia la relazione, “che la parità tra donne e uomini è un diritto fondamentale sancito dal trattato sull'Unione europea e dalla Carta dei diritti fondamentali; che al riguardo l'Unione europea si prefigge di garantire pari opportunità e parità di trattamento tra uomini e donne e di combattere qualsiasi discriminazione fondata sul sesso”. Nella breve sintesi finale del documento si afferma  che “come mostrano le ultime statistiche, l'Unione europea è solo a metà strada verso l'effettiva parità di genere. Secondo l'indice sull'uguaglianza di genere per il 2015 elaborato dall'EIGE (l’Istituto Europeo per l’Uguaglianza di Genere, ndr), il punteggio complessivo dell'UE in materia di parità di genere è di 52,9/100, con un aumento di 1,6 punti dal 2005, ovvero si sono registrati progressi quasi nulli in materia. Il divario retributivo tra uomini e donne resta pari al 16,5 % e, secondo Eurostat, in alcuni Stati membri tale divario è addirittura aumentato negli ultimi cinque anni. Il divario pensionistico tra uomini e donne è pari al 40%, un livello allarmante. Ancor più preoccupante è il fatto che in metà dei paesi dell'UE il divario pensionistico sia aumentato e che una percentuale compresa tra l'11 e il 36 % delle donne non abbia accesso alla pensione. La percentuale di giovani donne né occupate né iscritte a corsi di istruzione né in cerca di lavoro è oltre il doppio rispetto ai giovani uomini (11 % e 5 % rispettivamente). Secondo l'EIGE, il maggiore divario tra uomini e donne in Europa è dovuto alla scarsa rappresentanza femminile nelle posizioni decisionali e di potere in campo economico, il che evidenzia la scarsa integrazione della prospettiva di genere nelle politiche economiche dell'UE.L'UE si è posta l'obiettivo del raggiungimento della parità di genere ma dal 2005 “il risultato complessivo è salito da 51,3 a 52,9 su 100”, siamo lontani dal “centrare gli obiettivi di Europa 2020”, afferma la relazione che non può altro che registrare come “mancano solo tre anni al 2020 e se l'UE continua a compiere progressi a questo ritmo gli obiettivi della strategia Europa 2020 non verranno conseguiti. La Commissione ha stimato che, al ritmo attuale, saranno necessari altri 70 anni prima di conseguire la parità di retribuzione, 40 anni prima di ottenere un'equa condivisione dei compiti domestici, 30 anni prima di raggiungere un tasso di occupazione femminile del 70 % e 20 anni prima di realizzare l'equilibrio di genere in politica. Non è possibile aspettare decenni prima di conseguire una reale parità di genere in Europa.E soprattutto non è tollerabile che i governi europei non assumano provvedimenti anche economici per sostenere il lavoro femminile ( sostegno e detrazioni fiscali alle aziende che assumono donne,incentivi alla flessibilità dell’organizzazione del lavoro) e incentivi per la cultura del rispetto delle donne nelle scuole e nei percorsi di formazione professionale. 

Eppure cresce,cresce il debito italiano

Alessandra Servidori              Eppure cresce,eccome che cresce!! Il debito italiano.

 In questo mese di agosto i giornaloni hanno  raccontato agli italiani in ferie che l’economia italiana  si sta riprendendo ma contemporaneamente leggiamo che un nuovo record del debito pubblico italiano svetta gagliardo: a giugno era pari a 2.281,4 miliardi, in aumento di 2,2 miliardi rispetto al mese precedente. «Colpa» del fabbisogno delle amministrazioni pubbliche (8,4 miliardi), che è stato compensato soltanto in parte (per 6,3 miliardi) dalla diminuzione delle disponibilità liquide del Tesoro, che sono scese a 52,6 dai 92,5 miliardi di fine giugno 2016. In particolare, è salito di 4 miliardi il debito delle Amministrazioni centrali, mentre quello delle Amministrazioni locali è diminuito di 1,9 miliardi. Invariato il debito degli Enti di previdenza. Il dato è del bollettino della Banca d’Italia «Finanza pubblica, fabbisogno e debito». A febbraio 2012, il debito era di 1.928 miliardi: in poco più di 5 anni è cresciuto del 15 per cento. E mentre il debito sale, scendono gli incassi per l’Erario nel primo semestre dell’anno. A giugno, le entrate tributarie contabilizzate nel bilancio dello Stato sono state pari a 31,6 miliardi (inferiori di 13,5 miliardi a quelle rilevate nello stesso mese del 2016). Nei primi sei mesi del 2017 le entrate sono invece state 186 miliardi, in calo del 5,8 per cento rispetto al corrispondente periodo del 2016. Il peggioramento, spiega via Nazionale, è principalmente imputabile allo slittamento delle scadenze per il versamento di alcune imposte e torna a scendere il portafoglio di titoli di Stato italiani detenuti da investitori stranieri. Secondo Bankitalia, a fine maggio il controvalore dei titoli governativi italiani detenuti da investitori non residenti risultava pari a 663,471 miliardi rispetto ai 665,120 di fine aprile dopo che a marzo il dato aveva toccato il minimo di tre anni a 662,982 miliardi. Per trovare un importo inferiore a quello segnato a marzo occorre risalire ai 655,900 miliardi di marzo 2014.Così cerchiamo di capire e meglio che sta succedendo perché “il popolo non è bue!”.Ma cosa succede in Europa: negli ultimi cinquanta anni la spesa pubblica è cresciuta significativamente, ammontando a circa il cinquanta percento del Pil nei paesi della zona euro. In questi paesi sono state avviate numerose esperienze di revisione della spesa, volte al suo contenimento e al miglioramento della sua efficienza ed efficacia, hanno cercato di individuare modalità e meccanismi di miglioramento della produttività delle amministrazioni pubbliche sia statali che territoriali. In tal senso, la Commissione Europea considera la valutazione e il monitoraggio della performance delle amministrazioni pubbliche una condizione necessaria per migliorare la qualità della finanza pubblica e favorire la crescita economica. L’OCSE sottolinea l’importanza della valutazione della performance dell’azione pubblica come strumento di accountability.Quando si affronta la misurazione della performance delle amministrazioni pubbliche ci si scontra  con difficoltà di vario tipo tra cui la misurabilità dell’output delle amministrazioni pubbliche caratterizzate da obiettivi multipli, la scelta di metodologie statistico-econometriche adeguate, l’entità dei costi di raccolta di dati. Inoltre la misurazione dell’attività pubblica suscita  diffidenza da parte dei governi soprattutto quando utilizza tecniche troppo sofisticate e complesse – oltre che una certa riluttanza, probabilmente legata a motivi elettorali o di mediazione politica, a definire obiettivi in modo preciso, ad attuare politiche pubbliche fondate prevalentemente sugli esiti di queste metodologie o ad escludere attività politicamente sensibili che presentano maggiori difficoltà di misurazione. In alternativa a queste tecniche, i governi di vari paesi OCSE, tra cui l’Italia, hanno favorito l’adozione di metodi statistici basati sul calcolo dei fabbisogni e livelli standard di spesa e dei  servizi pubblici, su cui incardinare non solo la valutazione della performance delle amministrazioni locali ma anche il sistema di perequazione.Dunque in Italia  la determinazione dei fabbisogni standard rappresenta  un aspetto fondamentale nel processo di costruzione del decentramento, così come definito dall’articolo 119 della Costituzione e dalla successiva legge delega n.42 del 2009 in materia di federalismo fiscale, in particolare nelle relazioni finanziarie tra il governo centrale e i livelli di governo locale (Comuni e Province). Uno dei punti principali della Legge n. 42 del 2009 è il superamento graduale del criterio della spesa storica per finanziare gli enti locali, attuato dal D. lgs. n. 216 del 2010, che stabilisce che la loro spesa per le funzioni fondamentali (servizi generali dell’amministrazione, edilizia scolastica, polizia, raccolta e smaltimento dei rifiuti, trasporto, servizi sociali) ed i livelli essenziali delle prestazioni (attualmente  solo definiti in sanità con i LEA ) sia garantita attraverso il finanziamento integrale sulla base dei fabbisogni finanziari standard. In altri termini, l’entità dei costi di fornitura dei servizi pubblici degli enti deve essere determinata sulla base di criteri standardizzati per evitare le distorsioni generate dal criterio della spesa storica, limitare il finanziamento di sprechi e inefficienze e favorire il principio dell’uguaglianza tra i cittadini nell’esercizio nell’accesso ai servizi essenziali. Dopo vari passaggi legislativi e barocchi  e complessi e burocratici si è arrivati  utilizzando un approccio econometrico a individuare  il fabbisogno standard  derivato a partire dalla stima della spesa storica effettiva dei servizi forniti dagli enti. L’obiettivo della stima dei fabbisogni standard è di individuare le componenti di spesa che sono direttamente influenzate da bisogni specifici o costi di produzione locali, cui corrispondono differenziali di finanziamento tra enti locali. Esso viene calcolato per ogni funzione fondamentale a partire da una serie di fattori che hanno determinato in maniera significativa la spesa storica quali la dimensione e la struttura demografica e socio-economica della popolazione, la rete infrastrutturale di sostegno, la configurazione geografica del territorio e i servizi offerti e i conseguenti performance  e a volte delle  best practices .Bisognerebbe  verificare la presenza di serie inefficienze tecniche e allocative nella fornitura dei servizi, e verso quelli under-standard, per valutare che le risorse aggiuntive che ottengono nella perequazione vengono effettivamente spese per aumentare e/o migliorare la fornitura dei servizi e si spera, a migliore il rendimento delle istituzioni pubbliche. E’ apertissimo  il problema della qualità del servizio offerto, che al momento questi indicatori non riescono a catturare. A questo si aggiunge che per una valutazione adeguata della performance bisognerebbe tener conto anche del contesto ambientale in cui operano le amministrazioni che, a parità di competenza e di spesa, possono non essere in grado di fornire lo stesso servizio. Sarebbe indispensabile, per arrestare la lievitazione della spesa pubblica e dunque del debito misurare veramente  a livello territoriale e  nazionale  l’indicatore della qualità dei servizi pubblici ed una serie di indicatori di contesto economico, sociale e politico-istituzionale che forniscono informazioni preziose e arricchiscono il quadro informativo sull’azione pubblica e poi razionalizzare le risorse. O così o non ne veniamo fuori dallo sperpero .

 

Le imprese cercano tecnici ma calano le iscrizioni agli istituti professionali

Alessandra Servidori  

 Le imprese cercano tecnici ma calano le iscrizioni agli istituti professionali

Una notizia appena appena apparsa sui giornali e non sicuramente in prima pagina ci deve preoccupare non poco. Le iscrizioni alle scuole superiori per l’anno scolastico 2017/2018 dimostrano   che  le scelte degli studenti sono verso i licei classici e scientifici e calano vertiginosamente negli istituti tecnici dimostrando così che l’orientamento scolastico è totalmente fallito e le richieste delle imprese piccole e medie di figure professionali tecniche andrà ancora una volta inevasa .Ai miei studenti che si laureano in giurisprudenza raccomando sempre di non pensare solo di fare tutti l’avvocato ma di imparare anche un mestiere. L’una scelta non esclude l’altra,ma apre comunque la testa e la via per trovare lavoro. I dati del MIUR parlano chiaro : il dominio dei licei  con lo scientifico fra indirizzo “tradizionale”, opzione scienze applicate e sezione sportiva resta in testa alle preferenze con il 25,1%  (erano il 24,5% lo scorso anno), mentre il liceo classico rialza la china da 6,1% a dello scorso anno a 6,6% di quest’anno. Invece, il 15,1% di oggi agli istituti professionali rispetto al 16,5% dello scorso anno con la  diminuzione degli istituti tecnici, dimostra che i ragazzi pensano che non c’è alcuna garanzia di posti di lavoro con il tecnico ,perciò scelgono i licei per avere una cultura più generale per poi girare il mondo. I nostri giovani  si illudono  sulla continuità del benessere che si sono trovati e nessuno spiega loro che  in Italia abbiamo bisogno di figure specialistiche: sono i giovani che arrivano dall’Est  che accettano i lavori che i nostri rifiutano o  comunque i nostri giovani  non hanno il profilo professionale richiesto. E’ ovvio che   il problema sia l’orientamento  fin dalla scuola media, che non aiuta i ragazzi a prendere in considerazione strade diverse e richieste dal mercato del lavoro e anche gli insegnanti hanno le loro colpe insieme ai genitori. Fin quando nei nostri istituti  e nelle famiglie  si continua  a dire che quelli bravi devono andare al liceo, i meno bravi ai tecnici professionali,sbagliamo e non valorizziamo una serie di percorsi che possono essere di qualità che comunque passano prima di tutto dalla formazione dei docenti che devono migliorare l’orientamento scolastico. Le famiglie provano ad indirizzare i figli verso il liceo in prospettiva dell’Università, e comunque le imprese  pensano  che oggi serve il perito o il diplomato al professionale e domani se vuoi competere servono laureati. Ma il problema vero sta nell’utilizzo del Fondo Sociale Europeo che all’istruzione e formazione professionale potenzialmente abbraccia una vasta gamma di attività. I nuovi programmi di studio devono poter  offrire  ai giovani migliori opportunità e gli insegnanti ricevono dal FSE europeo formazione per migliorare il proprio rendimento. Oltre a ricevere un’istruzione di base, gli studenti  devono poter apprendere  competenze più specifiche che li aiuteranno a scegliere il percorso professionale che desiderano e a occupare le posizioni richieste dalle imprese. Il ’FSE sta aiutando università e istituti di formazione professionale a consolidare i rapporti con imprese e datori di lavoro a livello nazionale o regionale, in modo che sia i  laureati che i diplomati possano vivere una transizione più facile dalla scuola al mondo del lavoro,ma sono i contenuti dei moduli che devono cambiare. Alcuni progretti FSE, sostengono la ricerca e lo sviluppo  per aumentare il numero dei giovani imprenditori e innovatori, soprattutto nei settori altamente tecnologici. Oltre  a dare un impulso ai sistemi di istruzione, il’FSE si concentra anche sui loro beneficiari: scolari, studenti universitari, lavoratori e disoccupati bisognosi di formazione e nuove competenze. Molti progetti  della Ue si propongono di ridurre l’abbandono scolastico e dotare i giovani di competenze e qualifiche adeguate, soprattutto tra i gruppi vulnerabili, come le minoranze e gli immigrati. Altri fanno in modo che a lavoratori e disoccupati siano offerte opportunità di apprendimento permanente in modo da mantenere le loro competenze aggiornate man mano che l’economia e le necessità delle imprese evolvono. Certo che l’obiettivo si raggiunge con una maggiore professionalità degli insegnati e un rapporto strettissimo con il territorio le istituzioni e le imprese e non proponendo moduli formativi obsoleti per incapacità degli enti di formazione di innovarsi. Il Ministro Fedeli ha annunciato un Piano di innovazione straordinario dei percorsi di formazione professionale per il prossimo anno : bisogna fare in fretta per sostenere il nostro Paese e i nostri giovani.

 

 

 

A Bologna : no all'illegalità

Alessandra Servidori  NO all'illegalità 

La politica bolognese è in difficoltà, come nel resto d’Italia, e deve aprirsi maggiormente ai cittadini e al dialogo con le tantissime associazioni anche alla luce dei recenti avvenimenti. Mi riferisco sia all’episodio di Labàs (la Caserma occupata da un sedicente Centro Sociale denominato Labas, balzato alle cronache italiane), sia alle diatribe interne ai partiti sia locali sia nazionali. È chiaro che non è più tempo di proclami, ma è ora di sporcarsi le mani.

Solidarizzare con il Centro Sociale Labas significa arrendersi all’illegalità e alla sopraffazione mentre altre iniziative assai meritevoli e veramente sociali sono state soffocate sul nascere. Una per tutte quanto è stato fatto dall’associazione “NoituttiperBologna” contro il degrado: abbiamo operato per un anno alla Palazzina dei Giardini Margherita, poi ci hanno tolto la sede e ora è in balia di escrementi e di fricchettoni.

È indispensabile essere dalla parte delle forze dell’ordine e del rispetto delle regole. Occorre “metterci la faccia”, che significa, prima di tutto, avere il coraggio delle proprie scelte e delle proprie azioni. Da una amministrazione responsabile ci si aspetta che interpelli e sostenga chi non fa valere le proprie istanze con prepotenza, per meglio comprendere quali sono le vere emergenze, in questo caso della Città metropolitana, e come possiamo essere di reciproco supporto nel superarle.

Ci sono emergenze che vanno affrontate con urgenza: per esempio la solitudine degli anziani e dei loro caregiver, visti anche i dati recenti che vedono i nuclei unipersonali superare le famiglie non solo sotto le due torri, dove l’incremento della natalità non è sufficientemente favorito dal punto di vista fiscale e dei servizi.

Ancora, pensiamo ai giovani e alle loro difficoltà a inserirsi nel mondo del lavoro, ai piccoli imprenditori, alla necessità di favorire esperienze, sia nei centri storici, sia nelle periferie, che, in collaborazione con le associazioni e i cittadini stessi, siano la chiave per superare le situazioni di degrado urbano e sociale che impera e oltraggia la bellezza delle nostre terre

Una scuola ammalata cronica

Alessandra Servidori     Una scuola ammalata cronica

 

La ministra Fedeli ha ereditato una scuola veramente molto malconcia e avvicinandosi la prossima riapertura dell’anno scolastico i problemi da risolvere sono tanti. Il più  impegnativo riguarda la situazione nord/ Lombardia  dove  vi sono ben  tremila cattedre scoperte tra superiori, medie, primarie e scuole d’infanzia e mancano addirittura , duemila insegnanti di sostegno e nel dibattito politico c’è chi ha proposto,demenzialmente, di ripristinare le classi  speciali per alunni disabili. Alla faccia dell’integrazione e della lotta alle discriminazioni. Le direzioni  scolastiche  regionali dovranno dunque attingere dalle graduatorie per supplenti e sostituire  più di ottocento insegnanti che hanno ottenuto il trasferimento, in molti tornando da dove sono venuti e dunque al sud.  Si riaccende dunque la  discussione  di due anni fa quando in nome della mobilità ad alcuni insegnanti del sud, venivano assegnate cattedre al nord con assunzioni a tempo indeterminato  ,che venivano regolarmente rifiutate. Si disse allora,per ragioni economiche,in quanto il trasferimento comportava  un costo della vita notevolmente più elevato nella città  del nord dove viene assegnata la cattedra, con una difesa ad oltranza dei sindacati sui “diritti negati agli insegnanti di rimanere in famiglia a casa loro”. Come se lo Stato deve garantirti la sede sotto casa .Ovviamente questo rifiuto comporta per gli studenti un turnover di insegnanti supplenti per tutto l’anno scolastico, una girandola infernale di pratiche burocratiche sia dei plessi scolastici sia delle graduatorie, con  disguidi notevoli per le famiglie delle alunne e alunni . Non c’è dubbio che lo stipendio di un insegnante statale  nel sud ha  potere d’acquisto reale  più elevato di quelli del nord in quanto la vita ha un costo molto inferiore . Ma  purtroppo questa realtà non è destinata a riflettersi positivamente sulle sorti economiche del mezzogiorno .Infatti secondo i dati Svimez  vi sono timidi  elementi postivi nell'economia meridionale, che ne mostrano la resilienza alla crisi - e non è sicuramente sufficiente a disancorare il Sud da una spirale in cui si rincorrono bassi salari, bassa produttività (il prodotto per addetto è calato cumulativamente nel periodo 2008-2016 del -6% nel Mezzogiorno, del -4,6% nel resto del Paese), bassa competitività, ridotta accumulazione e in definitiva minor benessere. Il nodo vero è ancora una volta lo sviluppo economico nazionale, per il quale il Mezzogiorno deve essere un'opportunità, calibrando l'intensità e la natura degli interventi per il Sud. Dunque  dovremmo cominciare proprio da questa considerazione e introdurre un modello contrattuale diverso .Anche la scuola  come il modello privato,deve permettere ,in tutto il paese, attraverso la contrattazione integrativa decentrata, di garantire e di ampliare il potere d’acquisto dei salari in virtù sia delle dinamiche inflazionistiche territoriali che della produttività aziendale. Peraltro i metalmeccanici  hanno innovato e seriamente e anche il  sistema statale deve potersi attrezzare. Il sindacato deve uscire dall’immobilismo  e concordare  subito e presto per il pubblico impiego  le condizioni di una forte contrattazione decentrata con un consistente trasferimento di risorse ai livelli locali  e una responsabilità della distribuzione dei benefici, solo così le retribuzioni di fatto possono adeguarsi anche al costo della vita. Così si tutelano , anche sulla base della qualità del loro lavoro,  tutti gli insegnanti , e anche gli studenti e le famiglie. La trattativa sul rinnovo contrattuale dei quattro comparti del pubblico impiego, dalla scuola alla sanità è appena iniziata  e Aran ha convocato il governo e i sindacati per l’avvio della negoziazione, sui temi generali, per l’ accordo sull’Atto di indirizzo preliminare. L’auspicio è chiudere entro l’anno: tra le problematiche sul tavolo quella relativa al cumulo degli aumenti con il bonus 80 euro in modo che uno non escluda l’altro. La cifra media che il governo  proporrà è di 85 euro, da mettere sulla parte fondamentale della retribuzione, a cui si aggiunge il salario accessorio che sarà distribuito per merito. Tra le questioni trasversali ai comparti ci sono, oltre alle risorse, i capitoli relativi a orari e ferie, nonché la revisione dei permessi e delle assenze per malattia. Come in ogni trattativa, le condizioni devono essere accettate in modo bilaterale. Per sottoscrivere il nuovo contratto,  le associazioni dei docenti hanno calcolato che occorrerebbero invece 2.400 euro di aumenti annui per i docenti e 6mila euro per i dirigenti. Il calcolo deriva da due fattori: il recupero dell’indennità di vacanza contrattuale, pari al 7% e da conteggiare dal settembre 2015, come stabilito due anni fa dalla Corte Costituzionale; l’applicazione dei veri e propri aumenti, questi da assegnare dalla firma del contratto che hanno una consistenza analoga. Il Governo ha messo sul piatto invece 85 euro lordi a regime, di cui la maggior parte ancora da approvare con la Legge di Bilancio di fine 2017, peraltro da accreditare solo, se va bene, dai primi mesi del 2018. Tanto che, al momento, si può contare sulla sicura copertura di appena 36 euro lordi medi a lavoratore. I nodi da sciogliere, tuttavia, non sono solo quelli relativi alla parte economica. Riguardano, a esempio, la perdurante discriminazione del personale precario rispetto a quello di ruolo: sono sempre di più i giudici, anche europei, che indicano come illegittimo trattare diversamente un supplente, dagli  scatti di anzianità, alla diversità nella fruizione delle ferie, della malattia e dei permessi. Purtroppo poi la mancata attenzione   si evidenzia anche dal taglio di 50mila Ausiliari  tecnici amministrativi e dalla mancata assunzione di amministrativi, tecnici e collaboratori scolastici e il blocco del concorso per il  personale non docente, più volte annunciato dal Miur, come quello dei presidi e dei Coordinatori di segreteria. Sempre per il personale Ata, diventa  fondamentale  anche adeguare normativamente le nuove funzioni lavorative  e le loro competenze. Insomma,Ministra Fedeli, già sindacalista di rango : attenzione ai suoi colleghi sindacalisti!

 

Lettera aperta al paziente fuggito

Alessandra Servidori

Lettera aperta al paziente che non ha voluto essere sedato da una dottoressa anestesista

La motivazione che ha fatto scappare dal lettino  della sala operatoria un paziente già preparato per sottoporsi ad anestesia è comprensibile : gli avevano detto che in quell’ospedale “le anestesiste non erano capaci”. Dunque non è proprio una discriminazione di genere,ma sicuramente la pelle era la sua e si sa che la professionalità in questi casi è fondamentalmente “vitale”. Dunque lui ha avuto tutti i diritti di non accettare di rischiare secondo “le voci “ fatte circolare tra le corsie. Ma sappiamo bene che la mala diceria è dura a crepare e soprattutto la strada per le donne professioniste della sanità, è ancora tutta in salita,nonostante chi scrive,  ha avuto e ha tutt’ora una fiducia e una stima grande delle dottoresse alle quali ho affidato più volte la mia salute. Fin dall’antichità, nel corso dei secoli, le donne medico hanno  subito  forti discriminazioni che concedevano loro solamente percorsi formativi , timidi e insicuri e a volte clandestini. Il sapere è prerogativa dell’uomo,idea sostenuta nell’antichità, e il “grande”Aristotele attribuiva la definizione di “femmina come maschio deformato” ovvero “ l’anima origina dal seme dell’uomo”. E non solo,ma anche tra donne è  la guerra,infatti per Margaret Wertheim: “il sesso femminile rappresenta una minaccia per colui che insegue la conoscenza e deve essere evitato il più possibile” .Ma la verità è che le dottoresse sono ancora e attualmente discriminate sia dai colleghi che dai pazienti . Su 106 presidenti di Ordine solo 2 sono donne. Guadagnano in media il 30% dei medici uomini. Tra i pazienti, solo il 10% delle donne le sceglie per le loro competenze, aspetto che i pazienti uomini neanche considerano. Questa è  una Italia tutta in camice rosa, ma piena di pregiudizi verso la medicina al femminile, fatta di violenze e vessazioni più o meno occulte e pregiudizi. Questo è lo scenario della “medicina in camice rosa”su un campione di circa 1.500 unità,fatto  a Roma rappresentativo delle 15.000 iscritte alla Fimmg  ,che ha dimostrato che medici e discriminazioni,vessazioni e violenze si attestano su percentuali quasi doppie rispetto alle altre donne soprattutto nei confronti di chi non ha conforto o protezione da un contesto sociale o familiare. La differenza è ancora più marcata, dove si prendono in considerazione gli incarichi dirigenziali a più livelli,ovvero andando a verificare i dati delle dirigenze nazionali dell’Ordine nazionale dei medici (FNOMCeO) su 106 presidenti di Ordine provinciali, solo 2 sono donne. Nelle strutture complesse ospedaliere solo il 1,7% di donne sono poste ai vertici, dato che sale nelle strutture semplici dove si attesta al 25%. Inoltre, la carriera di medico, a differenza degli uomini, porta nelle donne una forte ripercussione sulla vita sociale e sentimentale, il 30% delle donne medico in posizione apicale o è single o separata o vedova , il 30% non ha figli (mentre negli uomini la percentuale è del 13%), il 20% ne ha solo uno. Situazione non rosea nemmeno nei vertici sindacali: nella Fimmg appunto, la Federazione dei Medici di Famiglia, su 110 segretari provinciali compare una sola donna. Non sono rose e fiori nemmeno dal punto di vista economico: secondo i dati Enpam le donne medico guadagnano il 30% dei colleghi uomini.Ma la cosa che fa più impressione  è che su  circa 10.000 cittadini interpellati di cui il 50% uomini 50% donne, solo il 10% delle donne sceglie il medico al ‘femminile’ per le competenze mentre nessuno degli uomini intervistati prende in considerazione la cosa valutando l’aspetto professionale. Coraggio dottoresse, siate tenaci  e  voi pazienti uomini,considerate che è la professionalità  e la capacità che contano, non il sesso.

Brucia l'Italia,il suo territorio ma non il debito pubblico

Alessandra Servidori BRUCIA L'ITALIA il suo territorio ma non il debito pubblico

Aumenta il debito italiano in questo ultimo mese : proprio quello che il governo si deve impegnare ad abbattere - in rapporto al Pil - per spuntare maggiore flessibilità nella scrittura del Bilancio del 2018, secondo quanto concesso e ribadito dalla Commissione Ue nella lettera inviata al tesoro. Secondo il dato comunicato da Bankitalia, a maggio il debito delle Amministrazioni pubbliche è stato pari a 2.278,9 miliardi, in aumento di 8,2 miliardi rispetto ad aprile  ed è riconducibile alla spesa della pubblica amministrazione che anziché essere ridimensionata continua a salire,infatti i dati di Bankitalia segnalano l'aumento dello stock di una ventina di miliardi, per colpa del fabbisogno della Pa. E ovviamente aumentano i dubbi di Bruxelles sul rispetto del Patto di stabilità poiché riferiti alla correzione del deficit strutturale (che viene calcolato in base ai conteggi dei cosiddetti output gap che l’Italia e alcuni Paesi hanno chiesto di modificare) soprattutto per quanto riguarda il rientro nel 2017. Il debito pubblico italiano è il più grande dell’ area euro in termini assoluti e il secondo dietro alla Grecia in termini percentuali se confrontato con il prodotto interno lordo. Non essere riusciti a ridurne il carico è uno dei grandi fallimenti.  E intanto in parlamento si litiga per il decreto ius soli e il decreto salva banche,entrambe brutte storie in cui la rissa e la non chiarezza (se non addirittura le bugie) trionfano in maniera incandescente. Facciamo dunque un appello sia al Presidente Mattarella che al Presidente Gentiloni : indichino al giovanotto toscano la strada giusta perchè non è rompendo con tutti su tutto che  si può pensare di presentare al Paese nel prossimo rientro dalle ferie una proposta credibile. Il contesto neo-proporzionale richiede alleanze, e la forza fin qui mostrata dal fronte populista e sovranista obbliga ad alleanze vaste se non si vuole che si viaggi dritti dritti verso l’Italexit. Tra queste non solo ci può ma ci dovrà essere quella con Forza Italia, indispensabile nel nuovo bipolarismo che ha nel populismo e nella posizione pro o contro l’Europa il punto di frattura. Renzi,nonostante continui a dire che non vuole tessere  la tela con Berlusconi – pur indispensabile, lo ripetiamo – con il solo scopo (personale) di tornare a palazzo Chigi, contnua  a lacerare il rapporto con i compagni del pd . Se c’è una possibilità che un governo di larghe intese si faccia, in chiave anti 5stelle e Lega, essa presuppone che non sia Renzi a guidarlo. Di questo lo smanioso Matteo se ne faccia una ragione, o sarà peggio non solo per lui (amen) ma anche per l’unica chances che abbiamo di evitare un governo Grillo-Salvini o di dover tornare a votare tre mesi dopo le elezioni. La verità è che ci vorrebbe, invece, un grande partito riformista, moderno, capace di usare parole di verità sulla crisi italiana che viene da lontano, perché capace di analizzare il declino e di studiare un programma liberal-keynesiano per fronteggiarlo e sconfiggerlo. Un partito che alla sua sinistra ne abbia un altro, la cui radicalità sia la certificazione del tasso di riformismo del primo. E che, come il Psi con la Dc e i laici nella Prima Repubblica, sia organicamente alleato di una o più forze moderate. Il problema, però, è che il progetto riformista manca – sia sotto il profilo politico e programmatico, che culturale.         

 

Donne,occupazione e pensioni:situazionegrave.Come rimediare

Alessandra Servidori    Donne ,occupazione e pensioni : situazione grave  come rimediare

 Secondo una recente indagine della Commissione Lavoro della Camera e i dati EUROSTAT Fonte: 2014 nel complesso dei 28 Paesi dell’Unione, il tasso di occupazione nella fascia di età tra 15 e 64 anni è,  pari al 70,9 per cento per gli uomini e al 60,4 per cento per le donne, con un differenziale di genere di circa 10,5 punti percentuali. Tali dati trovano corrispondenza anche nei Paesi dell’area dell’euro, nei quali il tasso di occupazione maschile è del 69,7 per cento, che, per la componente femminile, scende invece al 59,5 per cento. Peraltro, i dati  dei divari tendono ad ampliarsi nelle fasce di popolazione di età più elevata. Per quanto riguarda il nostro Paese, in particolare, il tasso di occupazione femminile è sensibilmente inferiore a quello maschile: a dicembre 2015, il tasso di occupazione per le donne di età compresa tra 15 e 64 anni era pari al 47,1 per cento, a fronte di un dato riferito agli uomini della medesima fascia di età, pari al 65,9 per cento, con una differenza quindi di quasi 19 punti percentuali. E il dato allarmante è che a fine 2016 e inizio 2017,le cose non cambiano Si tratta di un dato tristemente noto, che non potrà non riflettersi nel tempo anche sul differenziale di genere in materia previdenziale,tanto sotto il profilo del tasso di copertura del sistema pensionistico quanto sotto quello della misura dei trattamenti riconosciuti. Con riferimento all’ammontare delle retribuzioni, occorre inoltre considerare che sussiste un divario retributivo di genere a danno della componente femminile del mondo del lavoro: assumendo come riferimento la differenza tra il salario orario medio lordo di uomini e donne espresso come percentuale del salario orario maschile, il gap tra uomini e donne è in media pari, nei Paesi dell’Unione europea, a circa il 16 per cento. Nei Paesi dell’OCSE  la situazione è sostanzialmente analoga, con una differenza nelle retribuzioni medie di poco inferiore, che si colloca attorno al 15,5 per cento, mentre in Italia il dato è sensibilmente inferiore alla media europea e dell’OCSE,in quanto, nel 2014, il differenziale di genere è stato pari al 6,5 per cento. Nel nostro Paese vi è una bassa partecipazione femminile al mercato del lavoro, che porta a concentrare l’occupazione nelle fasce con più elevata formazione e qualificazione. A parità di formazione e qualifica, infatti, il gap italiano è sostanzialmente in linea con la media europea. Va considerato che le attuali caratteristiche della partecipazione femminile al mercato del lavoro appaiono suscettibili di promuovere in futuro la creazione di differenze di genere in materia pensionistica, specialmente se si considera che le donne hanno una carriera lavorativa complessivamente più breve rispetto a quella degli uomini: la durata media della carriera di una donna è inferiore a venticinque anni,laddove quella dell’uomo è, in media, di circa trentanove. Allora per almeno rimediare sul piano della contribuzione pensionistica – come già suggerito nel seminario e nella relazione a firma della scrivente in data 2014 al Ministero del lavoro e nel libro Conciliazione tempi di vita e di lavoro Giuffrè 2017 ,occorre in primo luogo valorizzare, andando oltre  quanto già previsto dall’articolo 1, comma 40, della legge n. 335 del 1995, tutti gli istituti capaci di ridurre gli effetti negativi della maggiore discontinuità delle carriere lavorative femminili. E’opportuno incrementare i benefici (accrediti figurativi, aumenti dell’importo pensionistico, facoltà di riscatto) in relazione a specifici eventi (quali la nascita e la malattia dei figli, l’assistenza a disabili e ad anziani non autosufficienti) soprattutto al fine di estenderli anche ai periodi al di fuori del rapporto di lavoro, rispetto ai quali la legislazione italiana risulta comparativamente più carente in confronto a quelle degli altri Paesi europei.  Inoltre  ai fini del calcolo contributivo, non già dell’intero ciclo di vita lavorativa, ma solo degli anni meglio remunerati, escludendo quelli (a salario zero o a basso salario) dedicati (in tutto o in parte) ai lavori di cura (gli anni dedicati alla cura di figli che è possibile escludere ammontano a sette in Canada, dodici in Inghilterra e Lussemburgo e ben sedici in Svizzera), che vengono riconosciuti come periodo lavorato con un calcolo contributivo pari alla media dei periodi lavorati effettivamente. Oppure si potrebbero prevedere maggiorazioni dell’anzianità contributiva per le donne e gli uomini che si occupano dei figli (come accade soprattutto in Francia); o, ancora, riconoscere il lavoro di cura e, contemporaneamente, incentivare le donne a lavorare, riconoscendo ad esse specifici benefici se decidono di non interrompere l’attività lavorativa (come avviene in Germania, ove vige un sistema che riconosce 0,33 punti in più per ogni anno, fino ai tre anni di età del figlio, se le donne non interrompono l’attività lavorativa). Particolare attenzione dovrebbe essere, in questo contesto, dedicata alle misure volte a rispondere all’esigenza di cura dei familiari non autosufficienti,dal momento che l’incremento della vita media rende sempre più frequente la presenza nel nucleo familiare di soggetti bisognosi di cure e assistenza costanti.

 

Alessandra Servidor

 

G20-G7-G3.....non si discuterà....

http://formiche.net/blog/2017/07/06/g20-merkel-trump/http://formiche.net/blog/2017/07/06/g20-merkel-trump/

ALESSANDRA SERVIDORI  G20-G7-G3……..

 Dopo Parigi dove un ristretto G3  ha affrontato senza molti risultati i problemi del tricolore italiano , domani ad  Amburgo l’ennesimo  summit G20, l’incontro annuale dei leader delle maggiori economie mondiali. E la storia si ripete come è avvenuto a maggio : infatti  come il g(minuscolo)7 di maggio, il rischio è quello di un vertice contraddistinto dalle divisioni, in particolare a causa dei crescenti contrasti tra gli Stati Uniti (il ritiro degli Stati Uniti dagli accordi di Parigi e le accuse rivolte alla Germania  di pratiche commerciali scorrette per sostenere il proprio enorme surplus commerciale)  e altri partecipanti, inclusi i partner europei. Forse-ma il forse è d’obbligo-  il raduno così ampio , potrebbe aiutare  ad ammorbidire e ad evitare un ulteriore allontanamento degli Stati Uniti dai forum multilaterali e a ottenere risultati concreti come nei summit di maggior successo. E mentre gli Stati Uniti si sfilano dall’accordo sul clima la Cina è  diventata leader mondiale dell’energia delle pale eoliche .Ma per quanto riguarda il commercio internazionale  è certo  un nuovo scontro tra paesi in deficit e paesi in surplus commerciale. Gli Stati Uniti, capofila dei paesi con un deficit ormai di lungo corso (per quest’anno l’IMF (il fondo monetario internazionale) ha dichiarato un deficit commerciale di oltre 500 miliardi di dollari, il 2,6% del PIL statunitense), hanno deciso di portare sul banco degli imputati non solo la Cina, che di recente ha ridotto il proprio surplus (previsto al 1,3% nel 2017 rispetto a un massimo del 10% nel 2007), ma anche l’Unione europea e, in particolare, proprio la Germania che presenta un surplus commerciale (+8,2% del PIL) e si attira le critiche anche di molti paesi europei. ”. È stata la crisi internazionale del 2008–2009 a fare il passaggio  sui temi della governance economica e finanziaria internazionale, dal G7/G8 al G20. E proprio al G20 viene spesso accreditato il merito di avere spinto i leader mondiali a rispondere in maniera coordinata alla crisi finanziaria, evitando che una profonda recessione si trasformasse in una prolungata depressione – soprattutto attraverso uno stimolo globale congiunto   di ben 2000 miliardi di dollari. E con il passare degli anni e il recedere o modificarsi della crisi, il numero dei temi in agenda nel forum è aumentato in misura crescente. E, secondo i critici, di pari passo sarebbe diminuita la tendenza dei  componenti G20 a tener fede alle promesse.  Comunque Merkel ha ribadito che non abbandona l’obiettivo di contrattare con Trump ma noi dobbiamo essere consapevoli che sull’immigrazione l’unica che ci ha aiutato e ci aiuta è la Germania .Merrkel ha messo per la prima volta lo sviluppo economico africano tra le priorità dell’agenda delle principali economie mondiali. Nella cornice del G20, la presidenza di turno tedesca ha inserito diversi incontri che hanno coinvolto partner africani, il più importante dei quali è certamente stato la G20 Africa Partnership Conference, tenutasi il 12 e 13 giugno a Berlino. La Germania si è assunta la responsabilità di guidare l’iniziativa, improntando le discussioni soprattutto sulla base di un nuovo piano di aiuti  presentato a gennaio dal Ministero tedesco per la Cooperazione allo sviluppo. La proposta di Berlino sono i "Compacts with Africa" un nuovo approccio per i rapporti bilaterali tra i paesi G20 e quelli del continente africano che prevedono l’affiancamento di investimenti privati agli aiuti allo sviluppo. Da un lato,  è bene essere consapevoli che gli schemi proposti (che insistono su crescita sostenibile, sviluppo infrastrutturale e occupazione giovanile) sono semplici modelli che ciascun paese G20 può decidere se seguire o meno. Dall’altro, la discrezionalità lasciata a ciascuna presidenza annuale del vertice circa i temi da inserire in agenda (oltre alla classica cooperazione economica e finanziaria),lascia ovviamente dei dubbi sul proseguimento nella prossima presidenza del G20 .

Le ombrelline:pretesto italiano

Alessandra Servidori                                          Pretesto italiano

Tre giorni fa a Sulmona, in provincia dell’Aquila, è stata organizzata l'iniziativa: Fonderia Abruzzo, organizzata dalla regione sul tema del futuro dell’Abruzzo in Europa.Durante i vari incontri sono state utilizzate alcune signore  che reggendo ombrelli riparavano dalla pioggia e dal sole gli invitati alla discussione.....tutti uomini. Un affresco che  è arrivato feroce in europa e nel mondo di una società condizionata prepotentemente da logiche sessiste e a favore del potere maschile, in cui il ruolo della donna è relegato esclusivamente all’ambito  servile insomma e dove gli spazi sono concessi, marginali e ristretti e sempre ovviamente da cameriera. Insomma, lungi da me di innescare una polemica femminista ma signore mie ,italiane su’ la testa e dritta la schiena Non limitiamoci ad una critica acerba e secca al sistema patriarcale e  sottomesso, alla tradizione, alla pesante eredità-fardello della cultura  ma anche una critica alla passività femminile, all’accettazione dei ruoli imposti e delle regole di padri, mariti, fratelli, figli , colleghi,politici che regalano scranni e strapuntini alle signore obbedienti. Un appello  concreto alla sollevazione e alla ricerca di sè affinchè si prenda coscienza e si lotti, sì si lotti ancora, per la propria autonomia e per l’affermazione della propria diversità e del  nostro talentuoso ruolo nella società e sì anche del potere e nel ricostruire un paese con proposte economiche e sociali anche dalla parte delle donne. Ricordava  l’amica Dacia Maraini tempo fa (sembraano secoli!) nel suo libro l’arte di amare  che la cultura dell’arroganza maschile è dura da demolire .Ovidio secoli fa insegnava ai maschi giovani romani, soldati, servi, padroni,come conquistare le donne, nei teatri,ai mercati, sotto i portici, al mare, in città.Li esortava a essere tenaci, furtivi, avidi,rapaci di furbizia e di galanteria. “Sono le piccole cose a conquistare le teste leggere delle donne”, diceva.Ma Ovidio era sì poeta gentile, ma ovvio, nemico delle donne. Ovidio è morto e le sue ossa ora sono diventate leggere come vetri,le sue membra  sono state mangiate dalla terra che ha nutrito con volvoli e ortiche e faggi. Sono passati secoli e secoli di ardimenti,di guerre, di rivoluzioni e di trasformazioni ,ma qui pare proprio che siamo ancora indietro.Le parole sprezzanti e dolciastre  di Ovidio sulle donne sono rimaste vive. Si possono ancora trovare –e lo vediamo anche oggi- milioni d’uomini che la pensano uguale,con torva ilare sicurezza, convinti che le regole a cui si rifanno sono naturali ed eterne. Ma le donne oggi sono  cultura ,memoria,politica,genio, talento, cuore,cervello e proposta.Donne insomma e italiane. Su' la testa. 

No,Vasco Rossi no

Alessandra Servidori      no Vasco Rossi no 

Rimango perplessa, molto perplessa e anche sufficientemente arrabbiata dopo aver visto le immagini di una compulsiva folla che inneggiava all’idolo rocchettaro.So che rischio di essere considerata fuori dal mondo, ma io nella mia presunzione di non completezza, mi sono sentita meglio fuori dal prato del raduno, piuttosto che dentro alle transenne. Non c’è dubbio ,che nella storia questi raduni capitanati da leader luccicanti e trasgressivi  sono ricorrenti e inevitabili, così per la politica come per la musica,tranne poi rimanere famosi più per i comportamenti scapigliati che hanno innescato che per i valori che hanno promosso. Non c’è dubbio che oggi viviamo un tempo di inquietudine e il futuro mette paura, ma nella storia del mondo è sempre stato così : non si è mai stati sicuri come  ci si credeva,con crolli improvvisi e imprevedibili,sia perché non abbiamo mai saputo, e tutt’ora non sappiamo, quanto sia  davvero migliore il presente, cosa per esempio subito dopo la guerra,ritenuta sicura dai nostri genitori e nonni. Si sono perdute le diverse ideologie degli anni sessanta con l’utopia e anche la presunzione che tutto era possibile, che un mondo nuovo iniziava allora e con esso anche l’avvento di un uomo nuovo, ma  Giovanni Paolo ci ha   insegnato-e ancora oggi è bene ricordarlo- che  il  mondo si presenta oggi potente a un tempo e debole, capace di operare il meglio e il peggio, mentre gli si apre dinanzi la strada della libertà o della schiavitù, del progresso o del regresso, della fraternità o dell'odio.Dunque fermiamoci un tempo utile per pensare:  dobbiamo dire  che lo sappiamo fare tutti molto poco, compulsivi come siamo, pseudo attori del nostro presente, protagonisti di uno spazio concessosi che controlliamo freneticamente mentre il tempo, il futuro ci sfugge e appare non dipendere da noi. Dunque fermiamoci  a guardare in profondità i problemi e cercare di farlo non in una prospettiva immediatamente legata a qualche obiettivo, al risultato, al guadagno, alla ricerca ,serve tempo per capire da che parte indirizzare la nostra vita e la nostra ricerca, per rendersi conto, per discernere se è possibile fare qualcosa e cosa, per trovare le motivazioni profonde senza le quali ci si disperde e si diventa disponibili a tutto,perdendoci e consolandoci dentro ad una folla di solitudine che ha bisogno di una voce rauca di un rocchettaro per sentirsi persona. Ci possiamo  aiutare a capire come tenere sempre l’uomo al centro e cosa ,e dunque a scegliere,  rallentare la marcia per guardare la realtà in un altro modo, raccogliere gli sviluppi positivi e sostenibili, e al tempo stesso recuperare i valori e i grandi fini distrutti da una sfrenatezza megalomane. “Fatti non fummo per vivere come bruti”

Parità e imprese .America ed Europa a confronto

 ALESSANDRA SERVIDORI La parità di genere nelle imprese : America ed Europa a confronto

 La parità  all’interno dei luoghi di lavoro è l’argomento studiato in una comparazione tra Stati Uniti Americani e Stati Europei .Il risultato è che il  movimento dei diritti civili avanzato velocemente  in America  ha consentito di  superare concetti di privilegio, discriminazione e  sviluppare la discriminazione positiva ponendo così l’Europa in coda rispetto l’occupazione femminile e la parità .Le aziende americane sono state le prime ad occuparsi dell'argomento introducendo azioni di parità e hanno ancora e tutt’ora una maggiore consapevolezza rispetto alla maggior parte delle imprese europee del valore aggiunto della forza lavoro femminile soprattutto con una ricaduta sull’economia del paese..L’Europa ,è composta da 28 paesi molto diversi tra di loro , caratterizzati da molte situazioni  che ne frenano lo sviluppo .Un esempio per tutti  sono  i paesi nordici: costituiscono il podio di ogni indice di classifica sulla parità di genere. In paesi come Francia, Belgio e  Regno Unito, le donne possono effettivamente coniugare carriera e maternità , ma è più complicato nei paesi tedeschi e nei paesi del mediterraneo dove la maternità è considerata un impegno pieno. Di conseguenza, il tasso di natalità e il tasso di partecipazione delle donne nell'economia è molto più basso in questi paesi. Le donne tendono a lasciare il posto di lavoro non appena diventano madri o ridurre drasticamente il loro tempo di lavoro. Nei paesi dell'est, l'influenza comunista che ha messo tutti (uomini e donne) a lavorare rapidamente è cessato . Ora sono tornati ai ruoli di genere tradizionali che non sono mai scomparsi dalla loro cultura. Nella Repubblica Ceca, il divario di partecipazione alla forza lavoro è di circa il 15% tra donne e uomini. In Finlandia è inferiore al 3%.E’ complicato  considerare l'Europa nel suo insieme, ma se cerchiamo di trovare la principale differenza con gli Stati Uniti, questa è sicuramente  legata all’effettività  della legislazione e alla sua applicazione. Per esempio, nel 1992 la legge per i congedo di maternità dell'UE ha stabilito  per la maternità  14 settimane di congedo con l’assicurazione malattia garantita (le norme dell'UE sono norme nazionali vincolanti, ma i paesi possono andare al di là del minimo imposto dall'UE). Oggi la questione è  ottenere  per i padri i congedi parentali. Se la maggior parte dei paesi dell'UE ha già disposizioni legislative che garantiscono il permesso per i padri, alcuni ancora non lo fanno (Germania, Austria, Repubblica ceca ...).Uno degli obiettivi  principali  della Commissione europea   per l’aumento dei congedi parentali , e dunque ampliandoli attraverso la legislazione,è quella di aumentare il tasso di donne nel mercato del lavoro. Vero è infatti  che i paesi che non hanno la legislazione che stabilisce il congedo di paternità , sono spesso quelli con il più ampio divario di partecipazione alla forza lavoro tra uomini e donne. Un altro esempio  è relativo alla risoluzione della Commissione europea e del Parlamento europeo di stabilire una quota del 40% per ogni genere nei consigli delle società quotate in borsa. Di conseguenza, molti Stati membri (Francia, Belgio, Germania, Paesi Bassi, Italia ...) avendo  adottato la risoluzione e  introdotto le norme sui contingenti , grazie a questo, in cinque anni,hanno contribuito al raggiungimento del risultato in cui  la percentuale di donne sulle commissioni europee è quasi raddoppiata. In Francia, hanno raggiunto quasi il 40% delle donne nei CDA delle aziende,  e molte  sono le società che hanno  pubblicato  il proprio piano di uguaglianza di genere o, se non adempienti, pagano  le sanzioni previste. Lo Stato rende pubblica  inoltre la  classifica delle organizzazioni virtuose e meritevoli per metterle sotto i riflettori e ispirare le altre perché si adeguino. Il nuovo presidente, Emmanuel Macron, vuole anche andare oltre le sanzioni usando una  strategia impositiva legata alla pubblicità e alla penalizzazione delle imprese inadempienti. Il limite evidente  in Europa  è che le cose non cambieranno nel mondo aziendale a meno che non sia costretto dalla legislazione, e la legislazione, fino ad ora, si è dimostrata abbastanza efficace.

 

Un appello alla Ministra Fedeli : vigili sulla frenesia ignorante dell’educazione di genere nelle scuole e nelle università

Alessandra Servidori -Un appello alla Ministra Fedeli : vigili sulla frenesia ignorante dell’educazione di genere nelle scuole e nelle università .Negli ultimi giorni sono emersi due fatti significativi sulla presunzione di saper affrontare e purtroppo malamente ciò che è previsto nel testo della legge 13 luglio 2015, n.107, il termine genere compare solo all’articolo 16:  “Il piano triennale dell’offerta formativa assicura l’attuazione dei principi di pari opportunità promuovendo nelle scuole di ogni ordine e grado l’educazione alla parità dei sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni”. Vale a dire  contrastare  le discriminazioni, il bullismo e le violenze di genere, affrontando con cognizione e magari insieme ai genitori nelle scuole, aspetti  sull’educazione e la cultura delle future generazioni. L’insegnamento a scuola del diritto alle pari opportunità , e  un’educazione di genere che significa  diversità  di razza,  lingua,  classe sociale, ovviamente anche sesso :  bisognerebbe sapere che a  livello europeo quando si parla di questo tema, si intende la disparità che ancora esiste tra uomini e donne nell’accesso alla sanità, all’educazione, al mondo del lavoro, a una retribuzione paritaria, alla rappresentanza politica e istituzionale e ovviamente anche di sesso. Non ha senso dunque introdurre una nuova modalità di pensiero del genere, della sessualità, del corpo e del linguaggio. Cercare di affermare con delle azioni scomposte parafrasando una scrittrice americana  che “il sesso non è una causa originaria, per cui vale la regola nel dire che se si è di un sesso non lo si è di un altro, ma va inteso come effetto di un processo storico in cui l’identità si costruisce” diventa una forzatura che consumata tra i banchi di scuola affronta in modo violento la tradizionale accezione della questione di genere strumentalizzando  l’omofobia come primo elemento di disparità .Vero è che il  Global Gender Gap Index stilato ogni anno dal World Economic Forum, pone in questa classifica di circa 130 Paesi, l’Italia attorno al 70esimo posto. Questo sicuramente  vuol dire che siamo ancora lontani dai paesi che offrono reali pari opportunità a uomini e donne, come peraltro prevede la nostra Costituzione. Ma questi sono i temi da affrontare nelle scuole e nelle università ,perchè questa è la questione da affrontare e da insegnare : parità di accesso all’istruzione, al lavoro, rispetto della sessualità rifiutando ogni violenza su ogni persona . Non solo per una giustizia morale, ma perché il nostro Paese senza pari opportunità (con un’occupazione femminile attorno al 47% e una disoccupazione giovanile dell’11%) ha due motori in meno di crescita.  E pur tuttavia nelle scuole si affronta e con tanta insipienza la  `teoria gender´. E corrisponde al vero l’episodio di Torino dove un questionario somministrato a giovani di 15 anni affrontava la questione della omosessualità  con domande molto violente attraverso un progetto oltretutto finanziato con risorse pubbliche e intitolato alla matematica; e ancora a Bologna all’Università  sono state le studentesse e gli studenti che hanno rifiutato le denominazioni “gender sensitive” di cariche istituzionali al femminile piuttosto che maschile come sono tradizionalmente conosciute. Dunque si concretizza strada facendo , quel fai da te tutto italiano di una istruzione deformata sul gender  strumentalizzata che si è segnalata come rischiosa. Genitori e insegnanti che temevano una discrezionalità eccessiva dei fanatici del gender, allora tacciati come terroristi psicologici,calunniatori, ora hanno avuto ragione di dubitare. La scuola non  deve trasmettere  nessuna imposizione di orientamenti sessuali. La scuola deve semplicemente educare al rispetto attraverso la conoscenza del diritto e dei diritti della persona, in ottemperanza delle leggi e delle convenzioni internazionali , anche attraverso l’educazione alle pari opportunità e alla conoscenza consapevole dei diritti e dei doveri delle persone come base e premessa per prevenire e contrastare ogni tipo di discriminazione che poi degenera in violenza .Il ministro Fedeli lo spieghi  con chiarezza alle scuole, alle università e alle famiglie con documenti ufficiali così da fermare la discrezionalità demagogica degli ignoranti.  

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